I "diritti umani" che non contano e i "frugali" imperialisti. Il caso Indonesia

I "diritti umani" che non contano e i "frugali" imperialisti. Il caso Indonesia

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di Norberto Natali per Marx21


La “frugale” Olanda aggredì brutalmente l’Indonesia circa a metà dell’800 e se ne impadronì, distruggendo la tradizionale organizzazione di quella società nonché l’economia preesistente, per sfruttare le risorse di quel grande paese e usarlo a fini commerciali. Nel 1920 fu fondato il KPI (Partito Comunista Indonesiano) che portò avanti, sviluppandola, la lotta per l’indipendenza nazionale e l’emancipazione delle masse lavoratrici. Più tardi, sorsero anche alcune organizzazioni islamiche di carattere progressivo e popolare e partiti nazionalisti, espressione di una borghesia patriottica avversa all’oppressione straniera. 


Per molto tempo, in forme diverse secondo i vari momenti storici del paese, la tattica del KPI fu rivolta all’alleanza con questi movimenti per l’indipendenza e la neutralità della nazione, per la democrazia e il riscatto dei lavoratori, urbani e rurali. La “frugale” Olanda represse crudelmente nel sangue sommosse e lotte per l’indipendenza, fino alla seconda guerra mondiale quando scappò vigliaccamente di fronte all’occupazione giapponese del paese.


Furono i comunisti e le altre forze patriottiche a combattere la resistenza contro l’invasore nipponico ma -già nell’estate del 1945- tornarono le truppe “frugali” ad opprimere quel popolo. Dopo una dura lotta, l’Indonesia conquistò ufficialmente l’indipendenza nel 1949.


Negli anni ‘50 (anche ‘60) del secolo scorso, il Partito Comunista Indonesiano fu uno dei più forti del mondo, contendendo al nostro PCI il ruolo di partito più grande in un paese capitalista. Conquistò anche 80 rappresentanti nell’assemblea nazionale, più volte ebbe incarichi di governo, era in grado di mobilitare grandi masse e anche di sostenere con forza la lotta armata. 


Dopo l’indipendenza del paese, continuarono gli intrighi e le provocazioni della “frugale” Olanda in concorrenza con quelle degli USA, i quali dettero vita ad una loro tattica che è evidentemente molto vecchia: fiancheggiare e istigare gruppi reazionari, sotto la copertura del fanatismo religioso (in quel caso islamici, peraltro in lotta con altre formazioni islamiche del tutto diverse, anche qui nulla di nuovo) e una volta persino gli inglesi mandarono le proprie truppe ai margini del territorio della repubblica indonesiana, sempre con pretesti ed intrighi che oggi ci sono molto familiari. 


Tra di minacce e tentativi di aggressione diretta degli imperialisti, tentativi di golpe o di secessione di alcune isole dell’arcipelago indonesiano ad opera di oltranzisti islamici o alti ufficiali traditori, più volte i comunisti e le altre forze democratiche dovettero ricorrere anche alla lotta armata, per difendere l’indipendenza, la libertà e la legalità democratica del paese. 


È curioso ricordare che un chiodo fisso dei vari golpisti e terroristi (sembra che tutto sia sempre uguale, nel tempo!) era la pretesa di rompere i rapporti diplomatici con la Repubblica Popolare Cinese, stabiliti dagli indonesiani fin dalla conquista dell’indipendenza. Una volta, gli USA tentarono di provocare una guerra -come poco prima in Corea- sotto l’egida dell’ONU ma fallirono per la ferma reazione dell’Unione Sovietica e di altri paesi pacifici.


Questa continua altalena tra prevalenza delle forze democratiche e popolari e gli intrighi e i colpi di mano delle forze reazionarie, manovrati dagli USA o altri “frugali” imperialisti ebbe una svolta decisa e (purtroppo) duratura a partire dalla notte tra il 30 settembre e il 1 ottobre di 55 anni fa. 


La propaganda dei massacratori, in seguito, diede una propria versione di comodo che circola ancora: il Partito Comunista avrebbe avuto dei campi paramilitari nei quali stava addestrando dei combattenti poiché voleva, di lì a poco, conquistare il potere con la violenza e scatenare un bagno di sangue. Quindi certi militari, per evitarlo, avrebbero preso il potere.


A parte il fatto che non c’è alcun riscontro né logica politica per rivolgere queste accuse al Partito indonesiano, tanto che furono presentate “prove” che erano in realtà riferibili alla lotta armata democratica condotta fino a pochi anni prima, insieme ad altre forze democratiche che governavano l’Indonesia nel 1965, la verità è proprio l’opposto. Stufi di un quindicennio di tentativi sempre finiti nel nulla, una parte degli stati maggiori indonesiani aveva organizzato un colpo di stato per l’ottobre del ‘65 ma non tutti erano d’accordo.


Si trattava, per esempio, di alcuni reparti dell’aviazione e anche dell’esercito, comandati dal colonnello Utong. Tutti questi il 30 settembre tentarono una disperata ribellione al colpo di stato ma non riuscirono, furono sopraffatti e i golpisti diedero libero sfogo alla propria bestialità.


Nei primi giorni di ottobre del 1965 furono massacrati oltre 100.000 comunisti ma le violenze (ne fu documentata anche l’efferatezza) continuarono nel tempo. Nel 1966 i compagni assassinati raggiunsero la cifra di 300.000; alla fine, prudenzialmente, furono denunciate 600.000 uccisioni ma alcune stime sostengono che forse si avvicinarono al un milione, nessuna indagine o ipotesi è comunque scesa sotto il mezzo milione.


Gli assassinati furono quasi tutti comunisti nonché i loro familiari ed amici (vecchi, donne e bambini) ma anche un certo numero di socialisti ed islamici progressisti.


I tanti ipocriti borghesi che parlano di “diritti umani” o degli “ultimi” -per non dire chi celebra le foibe- di questo massacro (uno dei più grandi e bestiali della storia) se ne frega, oggi come ieri, anzi, il popolo queste cose non deve proprio saperle. 


All’epoca andò al potere il generale Suharto, un animale che era una specie di brutta copia anticipata di Pinochet. Il governo italiano, ricevette questo essere il 22 novembre del 1972 ma il Presidente della Camera, il compagno Pertini, disertò le cerimonie ufficiali.


L’indomani, il 23 novembre, il Partito organizzò il sabotaggio della visita cerimoniale di Suharto a piazza Venezia; un certo numero di compagni si mimetizzarono come turisti, curiosi o passanti, mentre molti altri facevano la sorveglianza sulla parte opposta di piazza Venezia, via dei Fori Imperiali, quella che oggi si chiama via Petroselli e le Botteghe Oscure. 


Malgrado le preoccupazioni delle autorità alla vigilia e lo schieramento di forze dell’ordine (anche in borghese), la cerimonia cominciò in modo tranquillo e regolare; ma poco dopo, all’improvviso e senza poter essere fermati, un gran numero di “turisti” e “passanti” iniziò a lanciare in tutte le direzioni volantini che spiegavano chi fosse quell’assassino (e anche qualcosina leggera contro di lui), così la festa finì lì.


Furono arrestati tre compagni della FGCI mentre, secondo le previsioni, tutti gli altri riuscirono a dileguarsi. Perciò ha un significato molto preciso il telegramma che il compagno Petroselli mandò subito agli arrestati: i comunisti romani sono fieri di voi. Finì in cella anche Mario S. detto “Cicalone” del circolo Tiburtino-Gramsci. 


All’epoca ero un ragazzino ma frequentavo la sezione e -nei giorni precedenti- avevo capito che i compagni si preparavano per andare a piazza Venezia; così, non ricordo come, quel giorno ci arrivai anch’io, da solo e senza dire nulla a nessuno. Per fortuna, pochi istanti prima dell’inizio delle manifestazioni ufficiali, “Cicalone” si accorse di me, quasi sbiancò e, avvicinandomi con indifferenza, mi sussurrò “vai via, vai via che se ti vedono i compagni si incazzano”.


Allora attraversai la piazza e rimasi a guardare da lontano; quando scoppiarono i tafferugli me ne andai velocemente, passando dietro il palazzo della Provincia e riguadagnando, tramite alcuni vicoletti, via Nazionale.


Il New York Times, in un articolo sui massacri del 1965-1966, firmato Topping, riferiva: “(…) Prima di essere ucciso, si dice che Aidit (Aidit Dipa era il segretario del Partito, nde) abbia gridato ‘viva il Partito Comunista’. Fu sepolto in una fossa senza nome. Ma la leggenda di Aidit vive nelle campagne; molti contadini dicono che egli vive ancora. Njoto, vice presidente del Partito, sarebbe stato arrestato nel tardo dicembre del 1965 e quindi fucilato; Lukman, uno dei tre massimi leaders, sarebbe stato arrestato in aprile e probabilmente ucciso. Njono e Peris Parede, quest’ultimo membro candidato dell’Ufficio politico, sono stati condannati a morte e non si sa ancora se le sentenze siano state eseguite o no. Dei 52 membri del Comitato Centrale, circa 15 -senza contare l’Ufficio politico- sono stati uccisi certamente. Molti altri si suppone siano stati massacrati durante gli eccidi”.


Questa è la storia. I comunisti sono i primi ad insorgere contro i prepotenti e gli sfruttatori, gli ultimi ad arrendersi, quelli che più spargono il proprio sangue e che mai si vendono.

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