“Il cavallo di Torino”: Nietzsche tra nichilismo e pietà, secondo Béla Tarr

“Il cavallo di Torino”: Nietzsche tra nichilismo e pietà, secondo Béla Tarr

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di Giulia Bertotto per l'AntiDiplomatico

Il 3 gennaio 1889, Friedrich Nietzsche, che si trovava a Torino e forse andava alla posta, vide un vetturino frustare un cavallo. Lui, che aveva sempre respinto la compassione per celebrare la pulsione dell’affermazione sull’altro, non resse. Fermò la violenza, si straziò in lacrime e abbracciò la povera creatura. Nietzsche disprezzava la morale dei millenni trascorsi, quella di matrice cristiana e prima socratica, la quale a suo avviso aveva esaltato la debolezza contro il comandamento cosmico della vita, forte, rigogliosa e orgogliosa. Ora si muoveva in soccorso di una muta bestiola. Proprio lui che riteneva la pietà un movimento interiore fallimentare da estirpare; “Già la parola "cristianesimo" è un equivoco −, in fondo è esistito un solo cristiano e questi morì sulla croce”, scriveva ne L’Anticristo.

Cosa successe al filosofo lo sappiamo, impazzì fino alla demenza. Aveva avvertito i suoi futuri lettori che chi scrutava nell'abisso sarebbe poi stato scrutato a sua volta dall’indefinito oscuro. Il regista ungherese Béla Tarr, nel suo “Il cavallo di Torino” (2011), immagina invece cosa successe al cavallo che sciolse l’animo del pensatore fiero e tragico. Quel cavallo, che appartiene a una famiglia composta da padre e figlia, quasi come fosse stato contaminato dall’abbraccio, dal nichilismo nietzschiano, rifiuterà di nutrirsi e porterà in casa dei protagonisti, imprevisti nefasti. Una sorta di animale profetico, come Nietzsche, entrambi esseri intrepidi destinati ai grandi spazi che finiscono a marcire nel loro letame.

L’ETERNO RITORNO

Padre e figlia abitano in un umile casolare, così indifeso nella brulla e gelida steppa. I due neppure si chiamano per nome e non scambiano mai un sorriso o un saluto affettuoso; la loro è una vita senza sentimento, senza pietà (dal latino devozione).

Sembrano inizialmente avere un rapporto morboso, poiché lei spoglia e veste il padre, in realtà rappresentano l'impossibilità di generare, al contrario del primo uomo e della prima donna, genitori della stirpe umana, sono l'ultimo uomo e l'ultima donna, ma non una coppia, anzi rappresentano un’anti sizigia adamitica.

Il regista ci mostra sei giorni di monotonia, sei giorni che raccontano "la pesantezza dell'esistenza" (sono parole del regista) la fatica del corpo e la pazienza di sopportare della mente, la condanna della ripetizione, l'eterno ritorno. Di aria ce n'è a più non posso, la tormenta vortica le foglie, spinge sulla porta, sbatte sulla stalla, ma lo scenario è asfissiante, l'azione robotica. Non sono protagonisti, eseguono l’ordine di sopravvivere; non è volontà di potenza, ma istintiva obbedienza all’esistenza. Rappresentano l’umanità, che si illude di svolgere azioni capaci di condizionare la realtà e prendere decisioni lucide; in realtà essa è un ingranaggio della natura, un manichino dell’inconscio, che inventa etica, fede e valori, per non impazzire davanti al Nulla. Questa umanità deve terminare il suo corso, per lasciare spazio all’uomo consapevole del Nulla, che però non si abbandona alle illusioni per questo, anzi grazie al Nulla si emancipa, pensa e agisce nella piena autodeterminazione al di là del bene e del male. Il Dio che si è fatto sconfiggere in Cristo è morto, ma nuovi dei si stanno innalzando.

La narrazione che ci ripetiamo da secoli ci dice che l’inerzia dell'istinto è stata interrotta nell’essere umano dalla coscienza, tuttavia i due sembrano regredire all'automatismo animale, mangiano le loro patate lesse con le mani. Sopravvivono solo per sopravvivere, una tautologia ontologica. Sono coloro che respingono il messaggio dell’Uomo nuovo e si ostinano a vivere senza diventare stelle danzanti?

Leggiamo direttamente dal filosofo tedesco:

“Tutto s’allontana, tutto ritorna; eterna gira la ruota dell’essere. Tutto muore, tutto rifiorisce; eterno fluisce l’anno dell’essere. Tutto si spezza, tutto viene riconnesso; eternamente si edifica la casa dell’essere, sempre la stessa. Tutto si separa, tutto si incontra di nuovo e si saluta; eternamente fedele a se stesso è l’anello dell’essere. In ogni istante ha principio l’essere; intorno ad ogni qui ruota la sfera là. Dappertutto è il centro, curvo è il sentiero dell’eternità. «Oh voi furbi pagliacci e organetti!» Rispose Zarathustra, e tornò a sorridere, «come sapete bene quel che si è dovuto compiere in sette giorni: -e come quella bestiaccia mi scivolò in gola e mi soffocò! Ma io le staccai la testa con un morso e la sputai lontano da me. E voi, voi ne fate già una nenia? Ma io continuo a giacere, stanco di questo mordere e sputare, ammalato della mia stessa redenzione. E voi state a vedere tutto questo? Oh miei animali, anche voi siete crudeli? Avete voluto stare a guardare il mio dolore, come fanno gli uomini? L’uomo è infatti il più crudele degli animali. Finora fu sempre davanti a tragedie, corride e crocifissioni che egli provò il massimo del benessere su questa terra, e quando inventò l’inferno, ecco, ebbe il suo paradiso in terra. Quando un grand’uomo grida -: il piccolo accorre immediatamente; e gli penzola la lingua fuori dalla bocca per la libidine. Ma lui la chiama “compassione” ».[1]  

 

L’OSPITE INQUIETANTE

Tuttavia accade qualcosa, un’anomalia nell’ingranaggio, un evento cambia la ruota dei giorni pressoché identici: un uomo bussa alla porta, non è uno sconosciuto ma il messaggio che porta è inaudito:


– Perché non sei andato in città? Chiede il padre. – Il vento l’ha spazzata via. – Come mai? – È andata in rovina. – Perché mai sarebbe andata in rovina? – Perché tutto è in rovina, tutto si è degradato, ma potrei dire che loro hanno rovinato e degradato tutto. Perché questo non è il tipo di cataclisma che avviene con l’aiuto per così dire innocente degli uomini. Al contrario si tratta del giudizio dell’uomo, il proprio giudizio su sé stesso, nel quale ovviamente Dio mette mano, o oserei dire: ne partecipa, e qualunque cosa di cui egli partecipa è la creazione più orribile che si possa immaginare. Perché vedi, il mondo è stato corrotto. Perciò non importa cosa dico, perché tutto ciò che hanno acquisito è stato corrotto, e dato che hanno acquisito tutto in una subdola, scorretta battaglia, hanno corrotto tutto. Perché qualunque cosa hanno toccato – e loro toccano tutto – lo hanno corrotto. Così è stato sino alla vittoria finale. Sino al finale trionfante. (…). Loro è il momento, la natura, l’infinito silenzio. Anche l’immortalità è loro, capisci? Tutto, tutto è perso per sempre! E i tanti nobili, grandiosi ed eccelsi stettero lì fermi, se così si può dire. Si sono fermati a questo punto, e dovettero comprendere ed accettare che non ci sono né dio né dei. E gli eccelsi, i grandiosi e i nobili dovevano comprendere ciò sin dall’inizio. Ma ovviamente, erano piuttosto incapaci a comprenderlo. Ci credevano e lo accettavano, ma non lo comprendevano. Se ne stettero lì, disorientati ma non rassegnati, finché qualcosa – una scintilla dal cervello – finalmente li illuminò. E d’un tratto si resero conto che non ci sono né dio né dei. D’un tratto videro che non esiste né bene né male. Poi videro e compresero che se così era, allora nemmeno loro stessi esistevano! (…) Sconfitta, vittoria, sconfitta, vittoria, e un giorno – qui nei dintorni – ho dovuto realizzare, e ho realizzato, che mi sbagliavo, davvero mi sbagliavo quando pensavo che non c’è mai stato e non poteva esserci alcun cambiamento qui sulla Terra. Perché credimi, ora so che questo cambiamento si è davvero verificato.

Il padre risponde al vicino, venuto in visita col pretesto diegetico di prendere degli alcolici (ebbrezza dionisiaca, disperazione euforica?), che sono tutte sciocchezze. Il visitatore rappresenta il più inquietante tra gli ospiti, il nichilismo. Quel coraggio di sbarazzarsi di ogni illusione, dell’edificio delle credenze, dei valori mortiferi e sfibranti del cristianesimo. In una sorta di rovesciamento del creato, il cavallo è più consapevole del padre-umano. L’ospite più inquietante è venuto ad annunciare una sorta di contro-Vangelo, un inno all’uomo nuovo, che obbedisce alla forza cosmica di volontà di potenza e non al martirio, che non accetta fiaccamente il sopruso. Alla coppia anti-adamitica si accosta anche l’antiCristo.


ETERNO RITORNO, APOCALISSE E SPERANZA?

La bufera imperversa senza dare tregua. Irrompono nel diario dell’immutabile l’uomo-ombra di Nietzsche, un gruppo di gitani, un libro consegnato da questi ultimi, che la ragazza legge a stento, sconvolgendo le consuetudini della famiglia senza madre, dell’umanità che vaga orfana nella storia.

In quei sei giorni di presagi sinistri in cui sembra non succedere nulla, si consuma invece l'apocalisse: il cavallo smette di mangiare, il pozzo si prosciuga, il fuoco non si accende, calano le tenebre anche se le lampade a olio sono cariche. Saltano le leggi della fisica, della logica. Il vento è il tempo che consuma, il vivere che corrode se stesso. L'ultimo fotogramma è il buio più claustrofobico. Non soffia più la bufera, il tempo è finito.

“Ogni prospettiva storica è una lente deformante. Chiunque dia un significato autonomo, un valore assoluto a un accadimento, a un oggetto o ad un concetto del mondo storico è prigioniero dell’illusione. Nietzsche non ha saputo abbandonarsi a tale conoscenza: pur dibattendosi oscuramente i questa direzione, pur avendo teorizzato da giovane l’antistoricismo, (…) mai è riuscito a esorcizzare l’incantesimo della storia. Nel profondo nulla cambia, non c’è divenire. Ma persino chi ha liberato l’Occidente dal mito della storia, Schopenhauer, non ha saputo sottrarsi al miraggio, alla presunzione di poter modificare l’essenza, il nocciolo delle cose. Questo è infatti ancora il significato della «negazione della volontà di vivere». Una più risonante tracotanza già era stata proclamata da Buddha (…). Eppure la parola di Buddha si era affermata proprio attraverso un’inversione illusionistica, mediante l’annunzio di una suprema preminenza del conoscere sull’agire. In Nietzsche il rapporto vero è stravolto. Una conoscenza che non si traduca in azione è da rifiutare. Ciò conta è cambiare il corso del mondo. Ma il mondo non ha nessun corso! L’individuo, la volontà, l’azione e la storia sono trame variopinte, tessute da una magia. Certo, l’uomo assieme al suo modo di conoscere si trasformerà, si «evolverà», e infine perirà: ma l’uomo in tutti questi mutamenti, non è che l’apparenza di un insondabile”[2].

I giorni narrati dal regista sono sei e non sette, forse nell’omissione del giorno del Signore, il quale non viene raccontato, c'è una speranza di rinascita, di poter davvero incidere sull’esistente che si ripete senza scampo? Nello scandalo insensato della pietà c’è paradossalmente il senso della storia e l’esilio del nichilismo?

 

[1] Nietzsche, Così Parlò Zarathustra, Newton Compton, 1980, pp.164-165.

[2] Lo scrive Giorgio Colli in “Dopo Nietzsche”, Adelphi 1974, pp. 34-35.

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