Il politicamente corretto è il miglior alleato delle disuguaglianze sociali

Dall'iniziale rischio di delegittimazione all'attuale stato di strumentalizzazione della rivolta per George Floyd

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Il politicamente corretto è il miglior alleato delle disuguaglianze sociali


 
di Sara Reginella

 
Dalla prima fase della rivolta partita da Minneapolis, di cui a livello mediatico fu abbondantemente rappresentata la violenza degli scontri, con il rischio di delegittimazione di una giusta protesta, a distanza di giorni si è assistito al passaggio ad una nuova fase, quella della strumentalizzazione della protesta stessa da parte di note correnti politiche.

 
La storia ha mostrato, nei secoli, come chi vive nel dramma e subisce ingiustizie possa improvvisamente ribellarsi nel più violento dei modi. I casi da riportare sarebbero numerosissimi, dalle rivolte degli afroamericani a quelle dei lavoratori durante la rivoluzione industriale, quando la borghesia sfruttava in modo efferato migliaia di lavoratori all’interno di attività produttive disumane. In quei contesti, le prime ribellioni furono esplosive, portarono alla distruzione degli impianti industriali e all’incendio delle fabbriche, nel tentativo di porre fine allo sfruttamento in atto.
 

Questo tipo di rivolte furiose che scoppiano dopo periodi di ingiustizie subite, sono normalmente represse e criminalizzate. Di fatto, anche durante la prima fase delle ribellioni nate a Minneapolis, si è assistito a un’immediata stigmatizzazione e criminalizzazione degli scontri.

 
Nel vortice della violenza, tali scontri apparvero confusivi, disorganizzati, e al loro interno, organizzazioni come l’Antifa furono utilizzate come capri espiatori, abbinate al terrorismo, in quello che è parso un tentativo politico di spegnere sul nascere un’onda che, al di là della violenza, avrebbe potuto apportare col tempo un cambiamento sociale.
 

La protesta, dunque, è apparsa caotica per giorni, priva di una propria “coscienza”.


L’auspicio era che da essa emergesse un’intellighenzia militante con la capacità di darle una forma di consapevolezza strutturata in obiettivi e contenuti, all’interno di una lotta per un mondo più giusto.
 

In questo tsunami, sarebbe dunque potuto nascere un movimento realmente antirazzista, in lotta non solo per i diritti civili, ma anche per quelli sociali, un movimento che abbracciasse e si schierasse dalla parte degli sfruttati.
 

E invece, nell’onda impetuosa è emerso il tentacolo politico più pericoloso, quello che ha strumentalizzato la vicenda nel peggiore dei modi.


Il vicepresidente americano Joe Biden è tra i personaggi di spicco affiorati dal maremoto nel tentativo di governare le acque a suo favore, fornendo al corpo della ribellione una coscienza velenosa che si è mossa dal suo ventre e l’ha intossicata in profondità col filtro venefico di una piovra.
 

Dunque, l’inginocchiarsi a George Floyd nei giorni in cui la protesta veniva fagocitata e strumentalizzata politicamente, sarebbe stato un atto su cui riflettere maggiormente.


Durante le genuflessioni, infatti, il presidente repubblicano Donald Trump continuava a mettere al rogo e a stigmatizzare gli eventi di Minneapolis. Per contro Joe Biden, candidato democratico per le presidenziali, cavalcava l’onda della protesta, patinandola in modo politicamente corretto per puro tornaconto personale.


La campagna elettorale per le presidenziali americane ha sfruttato l’essenza della ribellione, si è riverberata su scala globale e ha diviso il mondo in ulteriori fazioni.
 

Pertanto, chi ha manifestato e manifesta in buona fede contro il razzismo a partire dai fatti di queste settimane, ha rischiato e rischia tuttora di diventare una pedina inconsapevole nella scacchiera della campagna elettorale tra i due presidenti, il cui operato si riflette geopoliticamente su scala internazionale.
 

La loro battaglia, in questi giorni, si è giocata sulla morte di George Floyd e il mondo ha fatto eco, non sempre conscio dei meccanismi politici di sciacallaggio allargatisi a macchia di petrolio a partire dall’omicidio dell’afroamericano.


Tali meccanismi sono ricaduti su persone in buona fede.
 

Ciò fa riflettere tanto - quanto più si pensa al fatto che il milionario Joe Biden non dovrebbe avere nulla a che fare con la protesta disperata di chi, succube di ingiustizie sociali, incendiava e distruggeva vetrine di negozi e ristoranti.
Joe Biden è l’uomo che, in questi anni, più volte ha dichiarato alla stampa di essere in stretti rapporti con l’ex presidente ucraino Petro Poroshenko, salito al potere dopo il golpe neonazista di Kiev in Ucraina, cui seguì lo scoppio della guerra in Donbass.


Suo figlio, Hunter Biden, negli anni bollenti del conflitto, fu all’interno della Burisma Holdings, tra le compagnie di gas ucraine interessate all’estrazione del gas di scisto in quelle stesse aree dilaniate dagli eventi bellici.
 

Esponenti “democratici” statunitensi, impugnando lo scettro politically correct dei diritti civili, nei decenni hanno sostenuto le peggiori guerre imperialiste, distruggendo intere nazioni.
 

Per contro, esponenti della sinistra italiana non si sono opposti a queste stesse guerre, colludendo anche con personaggi politici non propriamente impeccabili. L’ex presidente della Camera Laura Boldrini, di recente in ginocchio per Floyd, non ha esitato nel 2017 a ricevere con tutti gli onori a Palazzo Montecitorio il presidente della Rada (il Parlamento ucraino) Andrij Parubij, che nel 1991 fondò insieme a Oleg Tjahnybok, leader della formazione nazionalista Svoboda (attiva durante il golpe di Kiev), il Partito Nazional Sociale Ucraino, ispirato al Partito Nazional Socialista di Hitler.
 

La strumentalizzazione politica della battaglia antirazzista supera dunque i confini della realtà, al punto che anche il premier inglese Boris Johnson, che a febbraio chiedeva la deportazione in Giamaica, ex colonia britannica, di ex detenuti e cittadini caraibici ma cresciuti in Inghilterra, non ha perso l’occasione per far dichiarazioni antirazziste, che suonano solo come vuoti slogan propagandistici.
 

Tali personaggi pubblici, citati a solo titolo esemplificativo, hanno a parole sposato la protesta nata a Minneapolis, ma non hanno nulla in comune con gli sfruttati e i disperati che nei giorni scorsi incendiavano negozi e ristoranti, all’interno di una rivolta che appariva ancora disorganizzata e senza coscienza e la cui coscienza è stata apposta da chi l’ha politicamente strumentalizzata.
 

In questa vicenda internazionale, l’aspetto ancor più drammatico è legato al fatto che nessun partito, movimento o organizzazione ha fatto sufficientemente sentire la propria voce nel tentativo di definire la protesta per George Floyd in termini di lotta contro lo sfruttamento delle politiche liberiste o in termini di ribellione contro le ingiustizie sociali connesse a differenze di classe e all’impoverimento della popolazione.
 

Senza una lotta contro le disuguaglianze sociali e senza lo sviluppo, all’interno della protesta, di una coscienza che si schieri contro le ingiustizie economiche, la stessa protesta rischia la resa definitiva all’ennesimo corpo politico che, facendosi scudo della spinta legittima contro le discriminazioni razziali, soffocherà definitivamente il grido contro quelle ingiustizie sociali che, unitamente alla spinta antirazzista, avrebbe dovuto contraddistinguere una contestazione che aveva in sé i semi per germogliare in una lotta di liberazione.
 

Concentrare l’attenzione solo sulla solidarietà antirazzista e perdere di vista la battaglia sociale è un grave errore ed è il risultato di una tattica attuata, consapevolmente, al fine di mantenere lo stato di oppressione e disuguaglianza anche economica su scala globale.
 

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