Il prezzo della fedeltà atlantista: dazi, guerra e isolamento economico

Come il fanatismo russofobo ha ucciso il rapporto strategico con Mosca e penalizzato l’Italia

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Il prezzo della fedeltà atlantista: dazi, guerra e isolamento economico


di Fabrizio Verde

La domanda sorge spontanea: ma questo è davvero un alleato? A guardare le recenti mosse dell’amministrazione Trump – non solo nel contesto del conflitto ucraino, ma anche nell’ambito delle relazioni commerciali ed energetiche con l’Europa – viene da chiedersi se la parola “alleato” utilizzata dalla politica e dai media mainstream abbia un senso. O se, invece, non debba essere sostituita da un termine più preciso: vassallo, o meglio, semi-colonia. Così è possibile inquadrare con maggiore precisione la condizione di subalternità nei confronti degli Stati Uniti in cui si trova l’Italia e l’intera Europa. E non di certo da quando alla Casa Bianca è tornato Donald Trump.
 
Armi a spese europee

Il presidente Donald Trump ha annunciato che gli Stati Uniti forniranno missili all’Ucraina – tra cui i tanto richiesti sistemi Patriot – ma con una precisazione: “Non pagheremo noi. Saranno gli europei a farlo”. Ecco dunque che Washington con una sola mossa mossa ottiene due obiettivi: alimentare ancora il conflitto in Ucraina e allo stesso tempo realizzando profitti a scapito dei già spolpati “alleati” europei. 

Trump non ha neppure nascosto che il pacchetto militare varato con l’Europa ammonta a “migliaia di miliardi di dollari”, con l’obiettivo di rifornire l’esercito ucraino di equipaggiamenti sempre più sofisticati. Equipaggiamenti che, però, finiscono per arricchire le industrie belliche statunitensi, mentre i contribuenti europei fanno cassa per il Pentagono. 

E intanto, mentre il regime neonazista di Kiev riceve nuovi missili, Mosca li può distruggere facilmente già prima che entrino in servizio, avanza sul campo, consolidando posizioni e guadagnando terreno. Il conflitto, lungi dal risolversi, si protrae, con un bilancio umano ed economico insostenibile. Ma per l’Occidente, evidentemente, è una guerra da prolungare il più possibile, da combattere sino all’ultimo ucraino. 

Dazi alla Ue: Italia penalizzata al 30% 

Ma c’è di più. Nello stesso momento in cui impone ai Paesi europei di finanziare le sue scelte geopolitiche – bel lieti di farlo - Trump annuncia nuovi dazi verso i cosiddetti “alleati” europei, con l’Italia che si ritrova colpita al 30%. Si tratta di misure punitive che potrebbero costare al nostro Paese circa 12 miliardi di euro e provocare un calo dello 0,5% del Pil, con effetti devastanti su settori strategici come l’agroalimentare, il vino, il made in Italy artigianale. Secondo Svimez, si rischia di perdere 150mila posti di lavoro a tempo pieno. 

Un attacco diretto, mirato, che mette in ginocchio l’economia reale italiana, senza che Bruxelles riesca a opporre alcuna resistenza significativa. E mentre Trump minaccia ulteriori aumenti tariffari – fino al 100% entro i prossimi 50 giorni  – l’immagine che emerge è quella di un rapporto squilibrato, dove Washington detta legge e l’Europa subisce, come un vassallo di fronte al proprio signore feudale

Questo scenario non può essere compreso appieno se non si fa i conti con la natura strutturale del modello economico globale in cui siamo immersi: il neoliberismo. Dietro l’apparente neutralità dei mercati e degli accordi commerciali, si cela in realtà una precisa ideologia: quella che ha svuotato gli Stati della loro capacità di intervenire nell’economia, consegnando il destino delle comunità locali alle dinamiche speculative del grande capitale transnazionale. 

Nel contesto neoliberista, lo Stato non è più un garante del bene comune né un regista del progresso sociale; diventa piuttosto un esecutore passivo delle regole dettate da istituzioni sovranazionali e potenze esterne. I dazi statunitensi non sono solo un atto commerciale, ma un sintomo di questo assetto: uno strumento di pressione che colpisce indiscriminatamente i lavoratori, le imprese e i consumatori, mentre i grandi centri finanziari restano intoccabili

Il punto fondamentale è che, in un modello economico centrato sull’interesse generale, il commercio internazionale non verrebbe mai utilizzato come arma punitiva a discapito delle classi popolari. Il libero scambio assoluto, tanto celebrato nei dogmi neoliberisti, finisce inevitabilmente per favorire chi detiene il potere: multinazionali, banche e governi imperialisti. Chi produce, chi lavora, chi crea valore reale – artigiani, agricoltori, operai – viene invece sacrificato sull’altare di una competitività che non premia nessuno, se non chi specula. 

La crisi che viviamo non è solo economica: è anche una crisi di senso. Non possiamo continuare a trattare i dazi come eventi occasionali, quando in realtà sono il frutto di un disegno sistemico. Il neoliberismo ci ha insegnato a non difendere quello che produciamo, a non valorizzare quanto è locale, a non investire su ciò che è pubblico. E ora paghiamo il prezzo di questa resa. 

L’energia: dalla Russia al costoso gas USA

Fino a pochi anni fa, la Russia era vista come una fonte affidabile e conveniente di energia. Il gas russo, infatti, era mediamente il 50% più economico rispetto al Gnl statunitense. Lo ha confermato il Ceo di OMV (gruppo petrolifero e del gas austriaco), Rainer Seele, così come il vice primo-ministro russo Novak, secondo cui il Gnl statunitense è fino al 40% più costoso rispetto al gas russo. Oggi, invece, l’Europa si trova ad acquistare energia dagli Stati Uniti a prezzi esorbitanti, alimentando una dipendenza energetica molto critica e particalarmente sconveniente. Ma nessuno in ambito mainstream ha obiezioni da avanzare come avvenuto per la “dipendenza” dal gas russo.

L’Europa, che ha deciso unilateralmente di boicottare il gas russo dopo l’inizio della guerra in Ucraina, si è ritrovata a comprare il Gnl Usa a prezzi elevatissimi, facendo lievitare bollette domestiche e costi industriali. In Germania i fallimenti di aziende per gli alti costi energetici sono ormai all’ordine del gorno. Eppure, nessuno sembra rendersi conto che proprio quel “nemico” che si vuole ostinatamente isolare e a cui si vule muovere guerra, ossia la Russia, sarebbe ben felice di tornare a fornire energia a prezzi accessibili. Ma la volontà politica di ripristinare un rapporto pragmatico appare assente, soffocata dalle pressioni atlantiste e da una fanatica ideologia anti-russa. 

La confessione di Borrell: l’Occidente ha prosperato sulla pelle di Cina e Russia 

Ad evidenziare questa situazione paradossale è stata l’analisi dell’ex capo della diplomazia Ue, Josep Borrell. Il diplomatico spagnolo - in un discorso tenuto nel 2022 - ha ammesso che la prosperità occidentale post-Guerra Fredda si è fondata sull’estrazione di ricchezza da Cina e Russia: manodopera a basso costo, mercati immensi e materie prime a prezzi contenuti. Senza quelle condizioni, oggi mutate, l’intero sistema capitalistico transatlantico si trova in crisi profonda. 

Borrell riconosceva che l’Europa ha perso la sua fonte principale di energia economica (la Russia), che ora cerca di sostituire con forniture statunitensi molto costose. E aggiungeva, in modo quasi profetico, che il futuro avrebbe riservato un aumento dei costi, una ridotta competitività e una recessione globale trainata dai tassi crescenti della Fed. Eppure, nonostante queste consapevolezze, l’Europa continua a piegarsi agli interessi statunitensi, come se non ci fosse alternativa. 

Tutto ciò porta inevitabilmente a una riflessione: l’Europa – e in primis l’Italia – è ancora uno spazio di autonomia decisionale? Oppure siamo entrati nella fase di una vera e propria semi-colonia USA, dove ogni scelta importante viene pilotata da Washington, sotto mentite spoglie di alleanza? 

L’attuale assetto istituzionale europeo sembra negare qualsiasi forma di autodeterminazione. Non solo in materia di difesa e sicurezza, ma anche in ambito commerciale, tecnologico, energetico. La stessa UE appare sempre più come un veicolo attraverso cui gli interessi statunitensi si realizzano, spesso a discapito dei cittadini europei. 

L’Italia, in particolare, sembra destinata a subire un destino già scritto: pagare per armi che non risolvono il conflitto, accettare dazi che strangolano il made in Italy, comprare energia a caro prezzo, mentre la Russia – il presunto nemico – aspetta pazientemente il momento in cui qualcuno vorrà tornare a parlare in termini razionali. 

Un passato di collaborazione: i rapporti Italia-Russia tra pragmatismo e interesse reciproco 

Non si può comprendere appieno l’attuale scenario senza ricordare che i rapporti tra Italia e Russia – e prima ancora con l’Unione Sovietica – sono stati storicamente improntati a una forte dose di pragmatismo e collaborazione, soprattutto nel settore energetico, commerciale e culturale. Fin dagli anni ’60, l’Italia fu uno dei principali partner commerciali dell’URSS in Europa occidentale. L’Eni, fondata da Enrico Mattei, strinse accordi pionieristici per l’importazione di gas naturale sovietico ben prima che il resto dell’Europa guardasse a est con interesse

Per l’intero periodo della Guerra Fredda – grazie anche alla presenza in Italia del più grande Partito Comunista occidentale - l’Italia mantenne una posizione equilibrata tra NATO e blocco sovietico, riuscendo a tessere relazioni diplomatiche solide pur restando un membro dell’Alleanza Atlantica. Il nostro Paese fu tra i primi a investire nell’industria russa post-sovietica negli anni ‘90, e Mosca, dal canto suo, trovò a Roma un interlocutore affidabile e meno ideologico rispetto ad altre capitali europee. 

Questo rapporto, costruito su interessi economici concreti e una visione realista della politica internazionale, è stato progressivamente danneggiato negli ultimi anni da un’ondata di russofobia ideologica fomentata in primo luogo dagli Stati Uniti e via via internalizzata anche dalle élite europee. La guerra in Ucraina, ma soprattutto le pressioni atlanticiste e l’adesione acritica alle sanzioni, hanno spinto l’Italia verso una rottura non solo economica ma anche culturale con la Russia, una nazione con cui ci legano secoli di storia comune (per quanto riguarda Napoli già dal Regno delle Due Sicilie), scambi commerciali strategici, radici culturali e religiose che non possono essere ignorate. 

L’immagine della Russia come “nemico” è stata costruita artificialmente, al fine di giustificare una ridefinizione delle alleanze a favore degli interessi statunitensi. Eppure, i dati parlano chiaro: la Russia era un partner affidabile, economicamente vantaggioso e reciprocamente rispettoso. Oggi, invece, ci ritroviamo isolati, impoveriti e sempre più dipendenti da una potenza straniera che impone dazi, condiziona armamenti e detta regole senza mai pagare di persona. 

Il recupero di un rapporto sereno e pragmatico con la Russia non è solo auspicabile: è necessario. Perché l’interesse nazionale italiano non può essere sacrificato sull’altare di un fanatismo geopolitico che non ci appartiene e che sta conducendo il Paese verso il baratro. 

Serve una visione diversa 

Quella che emerge da questi mesi convulsi è una realtà scomoda: l’alleanza con gli Stati Uniti non è più tale (se mai lo è stata), ma un rapporto gerarchico, asimmetrico, che impoverisce chi lo subisce e arricchisce chi lo gestisce. In questo scenario, l’Europa appare smarrita, priva di una propria strategia indipendente; l’Italia, ancora di più, sembra incapace di uscire da un ruolo subordinato. 

Serve una svolta radicale: una politica estera autonoma, un dialogo diretto con la Russia e con la Cina, una difesa delle filiere produttive italiane, un recupero di sovranità monetaria, fiscale e culturale. Serve, in altre parole, un ritorno alla Costituzione repubblicana, a quella politica pragmatica che ha caratterizzato la cosiddetta Prima Republbica che ha consentito all’Italia di essere un ponte tra Est e Ovest nontante fosse inquadrata nel blocco occidentale. 

Perché se non si cambia rotta, lo schianto è assicurato. Ma l’Italia e l’Europa sembrano aver scelto, contro ogni ragionavole buon senso, di schierarsi dalla parte sbagliata della storia.

Fabrizio Verde

Fabrizio Verde

Direttore de l'AntiDiplomatico. Napoletano classe '80

Giornalista di stretta osservanza maradoniana

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