La letalità del Covid. I primi 4 studi scientifici offrono una prima risposta concorde
Quanto è letale il Covid? Come spiega in un ottimo articolo su Internazionale Claudia Grisanti la misura di riferimento da tenere a mente per il calcolo èil cosiddetto infection fatality rate (Ifr) - un tasso di letalità che viene calcolato dividendo il totale dei decessi per il totale delle persone infettate, compresi i casi non confermati da esami di laboratorio o che non mostrano sintomi.
Le difficoltà per calcolare l'IFR per un nuovo virus sono diversi, per il caso del covid-19 diventa ancora più complesso perché, sottolinea Ggrisanti, "alcune persone contagiate hanno sintomi molto lievi o non hanno sintomi e quindi i casi non vengono individuati. Un altro problema nel calcolo dell’Ifr relativo al covid-19 è il tempo che trascorre tra il momento dell’infezione e l’eventuale decesso, che è di alcune settimane. Infine, non sempre il conteggio dei morti per covid-19 è preciso".
"L’Ifr può anche cambiare nel tempo, per esempio se migliorano le cure prestate. In effetti, è possibile che dall’inizio della pandemia di covid-19 l’accumulo di conoscenze mediche stia portando a un miglioramento delle cure e quindi alla riduzione delle morti. L’Ifr può anche dipendere dalla struttura demografica della popolazione, per esempio dalla presenza di molte persone anziane, dalle condizioni sociali e da altri fattori.", prosegue la Grisanti
La prima stima dell’Ifr l'abbimo avuta grazie al noto caso della nave da crociera Diamond Princess, all’inizio di febbraio. È stato calcolato in quel caso un Ifr totale dello 0,65 per cento.
Molto interessante il commento su Facebook dell'epidemiologo Stefano Rosso all'articolo:
"Alla fine si parla di uno 0.6% sul totale oppure 5.6% per gli over 65. Sicuramente più letale dell'influenza, ma non è certo quel disastro che furono la spagnola o l'asiatica che colpirono anche i giovani. Quello che fa è la nostra capacità di risposta e di trattamento. Ed è qui che si giocherà il nostro destino nel caso di un ritorno stagionale in autunno/inverno. Adesso abbiamo nuovi farmaci (e vecchi che funzionano bene come il desametazone), ma non bastano. E piuttosto che sperare di controllarne la diffusione con un vaccino (che non c'è e forse non ci sarà mai) sarebbe bene, oltre al trattamento, controllarne la circolazione con i vecchi metodi di identificazione e tracciamento. Ma è qui che rischiamo di perdere la battaglia. Perché per questa guerra servono uomini: laboratoristi, igienisti, infermieri e medici di territorio. I tamponi non aumentano perché non c'è il personale che li somministrano e che li analizzano. A tutt'oggi invece, mentre le unità di terapia intensiva sono state giustamente potenziate, il territorio continua ad essere sguarnito: nessuna nuova assunzione, nessun piano di avvicendamento e potenziamento. Nulla. È questo che mi spaventa. Non il virus."