La nuova "apertura alla società civile" e il castello di Kafka
di Paolo Desogus*
A quanto pare il rinnovamento del Partito Democratico voluto da Zingaretti si risolverà con un semplice cambio di nome, nel segno di una tradizione molto lunga, risalente ai primi anni Novanta, secondo cui la sinistra per stare nella società deve spoliticizzarsi, deve cioè gradualmente spogliarsi di tutte le proprie connotazioni culturali e ideologiche per diventare movimento aperto, magma, flusso di interconnessioni, di traiettorie individuali, di soggettività in espansione... insomma d'aria fritta. Verrebbe proprio per questo da rispolverare il noto detto di Marx: "la storia si ripete sempre due volte, la prima in forma di tragedia, la seconda in forma di farsa". Occorre però introdurre una variante. Nella sinistra italiana la storia si ripete infinite volte ed è al contempo tragedia e farsa senza soluzione di continuità. Da Occhetto a Veltroni, da Renzi a Zingaretti la vocazione al suicidio, alla morte per auto annegamento nel proprio mare della propria stessa stupidaggine, non riesce a giungere a un punto conclusivo, a una fine che dia inizio a una nuova stagione.
Ero appena un adolescente quando nella sezione del mio paese sentivo che bisognava aprirci alla società civile, essere più vicini alla gente, abbandonare il politichese, rinunciare ai nostri riti politici e persino ai nostri simboli e ai nostri valori, secondo alcuni "oramai superati". I simboli che ho conosciuto da ragazzo non ci sono più e sono stati sostituiti mille volte, sempre con le solite ragioni. E ogni volta diventavano più sbiaditi, più informi, più volatili. Il partito, contrariamente alle attese, si distaccava sempre di più, diventava sempre più un qualcosa di estraneo alla società, lontano dalle classi popolari, dalla propria base storica per diventare ceto politico mosso unicamente dal proprio istinto di autoconservazione.
Zingaretti dovrebbe allora spiegarci che cosa significa "aprire" il PD alla società. Una casa senza progetto, senza elementi di distinzione e di separazione dall'esterno non è una casa: non ha fondamenta, non ha pareti e dunque non ha porte. Contrariamente alle stupidaggini che da anni si sentono a sinistra, il principio di base per costruire un partito è infatti quello di stabilire un confine, di tracciare un limite che definisca ciò che vogliamo da ciò che combattiamo. Non è difficile da capire, persino uno come Zingaretti ci può arrivare.
Le responsabilità vanno in ogni caso oltre l'esperienza di Zingaretti. Chi come me da anni sta fuori dalla sinistra e che ha invano cercato soluzioni in altre formazioni politiche si trova nella stessa condizione del protagonista del Castello di Kafka. Vi ricordate K., l'agrimensore? Il suo lavoro è quello di tracciare i confini, stabilire le misure del terreno e gettare quindi le basi su cui erigere nuovi edifici. K. però non riesce perché non ha il mandato di chi abita nel castello in cui invano attende di essere ricevuto. Noi viviamo nella stessa situazione: la sinistra che invoca aperture se ne sta in realtà nel suo castello di potere inaccessibile. Non è un caso che il proprio progetto di rinnovamento debba immancabilmente svolgersi in uno spazio neutrale, fatto di gazebo, di luoghi di passaggio aleatori e inconsistenti.
Questa pseudo sinistra venduta al potere neoliberale si guarda bene dall’aprire il proprio castello mettendo in discussione se stessa e i propri fallimenti. Chi prova a farglielo notare viene attaccato in modo ricattatorio: "se non vinciamo noi vince la destra", "arrivano i fascisti", "scende l'onda nera". Dovremmo rifiutare questo ricatto e rassegnarci e fare quello che nel romanzo incompiuto di Kafka si può solo intuire. Dovremmo cioè ribellarci al castello, chiudere la stanca farsa tragica della sinistra liberal e cominciare a tracciare i nostri confini per definire i nostri valori e la nostra nuova prospettiva politica.
*Professore all'Università Sorbona di Parigi