La questione palestinese e il rapporto controverso della sinistra con Israele

La questione palestinese e il rapporto controverso della sinistra con Israele

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di Edoardo Laudisi

Da ragazzo stavo con i palestinesi. Avevo visto le immagini della prima intifada, ragazzini vestiti di stracci che tiravano sassi contro enormi carri armati. A-A-Al Fatah Palestina vincerà. Sapevo quasi nulla del conflitto israeliano palestinese, la questione pareva più che altro una faida che risaliva fino ai tempi biblici, ma quegli scugnizzi coperti di stracci erano Giovan Battista Perasso detto Balilla che tirava il sasso al soldato austriaco dando inizio alla rivolta di Genova, erano i guitti napoletani delle quattro giornate di Napoli, erano Davide contro Golia e non potevano aver torto.

La seconda intifada dell’ottobre del 2000 la vidi quasi in presa diretta ad Amman, in Giordania, dove mi trovavo per lavoro. Fu scatenata dalla sfilata di Ariel Sharon alla Spianata delle Moschee e fu la tomba degli accordi di Oslo e Camp David. Il mio collega Samer, un palestinese di una famiglia molto conosciuta a Gerusalemme mi invitò a cena a casa sua dove suo padre mi venne incontro sventolando una mazzetta di documenti scritti in arabo. Erano gli atti di proprietà del palazzo di famiglia a Gerusalemme con annesso anche un cinema dove adesso ci stava il sindacato dei lavoratori israeliani. Tutte le richieste inoltrate all’autorità israeliana per rientrare in possesso dell’immobile erano state ignorate.

Era la Nakba, il disastro del1948, come gli arabi chiamano la guerra civile tra ebrei e arabi scoppiata allo scadere del mandato britannico, al termine della quale parte della popolazione araba fu cacciata dalle città e dai villaggi della Palestina. Ma quello che gli arabi non dicono della Nakba, tutti gli arabi compreso il padre del mio amico, è che invece di dichiarare la nascita dello Stato palestinese a fianco di quello israeliano come prevedeva la risoluzione Onu Nr 181 del 1947, che sanciva la ripartizione dell’ex protettorato britannico della Palestina in due Stati, uno palestinese e l’altro israeliano, gli arabi (oltre ai palestinesi: Egitto, Transgiordania, Iraq e Siria, aiutati da corpi di volontari dell'Arabia Saudita, Libia e Yemen) dichiararono guerra ad Israele -che invece si era formato- la persero e con essa persero ori averi e terreni. Compreso un cinema. Al termine del conflitto del 1948 Israele si comportò con gli arabi come Tito con gli italiani in Istria nel 45 e li espulse dai territori. L’intenzione dichiarata pubblicamente dagli arabo-palestinesi nel 1947 infatti, era quella di creare uno Stato unitario di Palestina “from the river to the see” al posto dei due Stati legittimati dall’Onu, cacciando gli ebrei a mare. Ci provarono altre tre volte, nel 1956, 67 e nel 73 e ogni volta persero altri ori, altri averi e altri terreni. Alla fine egiziani, giordani, iracheni e siriani ne ebbero abbastanza e stipularono dei trattati di pace separati dove riconoscevano la legittimità dello Stato di Israele, al quale furono ben lieti di lasciare la questione palestinese. Questione che da parte sua la Giordania di Re Hussein liquidò nel settembre del 1970, sopprimendo le organizzazioni palestinesi che minacciavano la stabilità del regno e attaccando i campi profughi presenti sul suo territorio. Le vittime palestinesi si contarono a decine di migliaia ma siccome furono i fratelli arabi a farle, furono dimenticate quasi subito.

In questo susseguirsi di eventi storici è interessante vedere come la posizione della sinistra italiana e della sua “intellighenzia” sia cambiata nel tempo. Com’è noto oggi la questione palestinese ha compiuto il miracolo di riavvicinare la sinistra mainstream a quella antisistema o antimperialista. Le due parti si sono ricompattate nel condannare senza se e senza ma lo Stato ebraico fin dal 7 ottobre, il giorno dell’attacco terroristico di Hamas, ben prima che Israele iniziasse le operazioni militari a Gaza. Una condanna per così dire preventiva. Ma il 15 maggio 1948, subito dopo l’attacco arabo al nuovo Stato di Israele l’Unità titolava: “La Palestina invasa dagli eserciti arabi” Invasione, non liberazione. E questo è niente. Il 26 maggio 1948 sempre l’Unità scriveva:” Per la fine della guerra di aggressione. Interrogazione di Terracini al governo per il riconoscimento dello Stato d’Israele” e si chiedeva “…perché non abbiamo ancora provveduto al riconoscimento dello Stato d’Israele e se non ritengano di provvedervi senza ulteriore indugio, al fine di impedire che il silenzio e la passività della Repubblica italiana possano essere interpretati come approvazione della politica che ha stimolato e continua a sostenere la barbara guerra di aggressione che insanguina, tra l’orrore di tutto il mondo civile, la Palestina”. Aiutino per i lettori di oggi: con “barbara guerra di aggressione” si intendeva quella degli arabo-palestinesi contro Israele. Altri articoli mettevano in evidenza la lotta di “liberazione” intrapresa dall’Haganah, “l’organizzazione clandestina degli ebrei che lottano per la liberazione del paese dall’oppressione britannica”. Sembrerebbe che il Pci di allora non fosse strabico al tal punto da attribuire ad Israele la colpa di venire attaccato. Ma come mai il PCI e tutto il suo apparato d’intellighenzia era schierato compatto dalla parte di Israele e non con gli arabo-palestinesi?

La prima fornitura di armi che raggiunse Israele nel 1948 arrivò dalla Cecoslovacchia comunista su richiesta esplicita di Stalin, e contribuì non poco alla difesa del nuovo Stato. Altre seguirono. In generale Stalin vedeva in Israele la possibilità di uno stato socialista nel Medioriente per via della forte componente collettivista della comunità ebraica, mentre gli stati arabi erano legati al mondo imperialista anglosassone e quindi nemici. E dal momento che papà Stalin aveva detto: Israele quasi socialista quindi amico / arabi imperialisti sicuramente nemici, la sinistra si allineò ai desiderata del Cremlino senza fiatare. Negli anni Cinquanta contrordine compagni. Nikita Chrušcëv, il successore di Stalin alla guida dell’Unione Sovietica, appoggiò la lega araba guidata dall’Egitto di Nasser che con il suo modello di socialismo arabo era l’approdo ideale per mettere un piede in Medioriente, mentre Israele era finito sotto l’influenza Usa. La scelta non fu delle migliori perché Nasser, insieme a tutta la lega araba, perse rovinosamente la guerra dei sei giorni del 1967, che nelle sue aspirazioni avrebbe dovuto cancellare una volta per tutte Israele dalla cartina geografica, e con essa fette importanti di prestigio e territorio. Parti di quel territorio, la striscia di Gaza (appartenente all’Egitto) e la Cisgiordania (appartenente alla Giordania), non furono restituite da Israele nonostante la risoluzione Onu Nr 242 che chiedeva il ritiro dell’esercito.

Quello che cambia veramente dopo la guerra dei sei giorni è la narrativa della sinistra sia italiana sia europea. Fino al 1967 c’erano pochi dubbi su chi fosse l’aggressore (arabi) e chi l’aggredito (Israele). Dopo il discorso si ribalta e nell’immaginario collettivo della sinistra l’aggressore arabo viene sostituito dal ragazzino palestinese che combatte a mani nude contro l’occupazione dei territori da parte della potenza militare israeliana. E qui la cosa si complica dal momento che quei territori non sono mai stati palestinesi ma semmai egiziani e giordani, perché nel 1948 i palestinesi non avevano proclamato lo Stato di Palestina all’interno dei confini riconosciuti loro dalla disposizione 181 dell’Onu. Eppure, ancora nel luglio del 2000, al vertice trilaterale di Camp David con il presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, il primo ministro israeliano Ehud Barak, e il presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese Yasser Arafat, ai palestinesi venne fatta l’offerta migliore dal 1947: Stato Palestinese riconosciuto e sovrano su 100% di Gaza e 91% della Cisgiordania (che in una decina d’anni, con una amministrazione intelligente sarebbe diventato il 100%) e ritorno di un certo numero di profughi alle terre di origine più indennizzi per coloro i quali, per vari motivi, non potevano essere compresi nell’accordo. Il padre del mio amico a cui Israele doveva un palazzo con cinema annesso avrebbe sicuramente accettato ma Arafat rifiutò secco senza fare controproposte. La trattativa si arenò e, poco dopo la provocazione di Sharon alla Spianata delle Moschee che infiammò la seconda Intifada, fallì.

La nebbia come luce è nelle menti. Lo scrittore austriaco Jean Améry, ebreo superstite dei lager, scrisse che a sinistra l’odio contro gli ebrei si nasconde nell’antisionismo come il temporale nella nuvola. Negli anni Settanta Ulrike Meinhof, co-fondatrice della RAF, il gruppo terroristico tedesco attivo tra gli anni Settanta e ottanta, i cui membri erano stati addestrati in Medio Oriente da terroristi palestinesi, esaltò l’attentato delle Olimpiadi di Monaco del 1972 contro la squadra israeliana come "anti-imperialista, anti-fascista e internazionalista”. Oggi l'idolo e la mente di questo ambiente è la filosofa post-strutturalista femminista e queer americana, sostenitrice del BDS Movement, Judith Butler, che recentemente ha proclamato quanto sia “estremamente importante" riconoscere i gruppi terroristici e jihadisti di Hamas e Hezbollah come "movimenti sociali progressisti” e parti integranti della sinistra globale. Quelli stessi gruppi “progressisti” che, se la filosofa queer facesse un giretto dalle loro parti, non esiterebbero a gettarla giù da un tetto in nome di Allah e di Maometto il suo profeta. Su Hamas va detto che perfino i narcos che gestiscono il traffico di droga nelle peggiori favelas di Rio di tanto in tanto allungano qualche centone ai poveracci o finanziano opere sociali. Hamas invece non ha dato nemmeno le briciole ammuffite agli abitanti di Gaza, che usa come scudi umani per coprire le sue milizie jihadiste, ma ha speso tutto in razzi, tunnel sotterranei, esplosivi per colpire l’odiato ebreo e residenze lussuose all’estero per i suoi boss.

Sopra a questo livello di desolazione ce ne sono altri di cui si sa poco o nulla. Livelli dove niente è come appare e dove i protagonisti fanno giochi doppi, tripli e quadrupli. Paesi come l’Iran, che aizzano contro Israele la loro migliore gioventù per non vedersela ribellare contro. Molto meglio un martire pro-Hamas nella lotta contro l’eterno nemico sionista che un partigiano che si ribella contro il regime teocratico degli ayatollah inviati al popolo da Dio in persona. La difesa del potere innanzi tutto. In questa logica Israele diventa il drappo rosso agitato per distrarre e sfiancare una gioventù che altrimenti, prima o poi, si libererebbe del fardello islamista. Dopodiché, quando il bubbone terrorista si gonfia troppo rischiando di compromettere il business, si fa un passo indietro e si lascia che Israele lo dreni per bene. Così gli affari sono assicurati fino al prossimo bubbone.

Il Partito Comunista Italiano aveva appoggiato la risoluzione dell’ONU del 29 novembre 1947, che aveva dato per la prima volta la possibilità alla popolazione ebraica e a quella palestinese di costituire sul territorio dell’ex mandato britannico della Palestina due Stati autonomi e sovrani che avrebbero potuto interagire positivamente. Ed era la soluzione giusta perché nessuno delle due popolazioni poteva e può vantare un diritto esclusivo su quelle terre. Oggi quello che rimane della sinistra, non tutta per fortuna, definisce Israele una forza coloniale suprematista e razzista e strizza l’occhio ai peggiori tagliagole islamici scandendo lo slogan jihadista from the river to the see Palestina will be free. Slogan che auspica l’annientamento di Israele e impedisce qualsiasi soluzione pacifica del conflitto. La dimostrazione che purtroppo l’avanzare della storia non sempre porta a un aumento dell’intelligenza collettiva.

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