La terza guerra mondiale? "Il fattore Malvinas"

La terza guerra mondiale? "Il fattore Malvinas"

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Pubblichiamo un estratto del nuovo libro di Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli, autori con la nostra casa editrice di "IL PENSIERO DI XI COME MARXISMO DEL XXI° SECOLO" (Lad edizioni, 2023).



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di Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli

Prefazione

Agiscono delle tendenze generali e costanti nella politica internazionale, dal 3000 a.C. e dall’affermarsi delle società classiste in gran parte del globo per arrivare ai nostri giorni?

L’imperialismo statunitense continua nella sua lotta per il dominio planetario, iniziata nel 1940-45?

Può scoppiare nei prossimi anni una terza guerra mondiale che coinvolga sul piano militare le principali potenze del globo, proprio a causa di tale orientamento generale e bipartisan dei circoli dirigenti e del deep state di Washington?

Dov’è la principale forza di resistenza alla tendenza USA verso la guerra e l’egemonia mondiale?

Quattro questioni cruciali a cui cercheremo di dare una risposta, ora più che mai necessaria: del resto proprio Karl Marx, ancora nell’ottobre del 1864 e nel suo celebre indirizzo inaugurale della Prima Internazionale, aveva indicato che le classi operaie “devono capire i misteri della politica internazionale”, sottolineando simultaneamente che la lotta per una nuova “politica estera è una parte della lotta generale per l’emancipazione della classe operaia”.

 

Capitolo quinto

 

La terza guerra mondiale e il “fattore Malvinas”

 

Servono in materia bellica alcune precisazioni iniziali, per evitare inutile confusione.

La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi, rilevò giustamente il generale e teorico prussiano Karl von Clausewitz nel 1832 all’interno del suo celebre scritto Della Guerra, saggio molto apprezzato da Marx, Engels, Lenin e Mao Zedong.

Guerra, dunque, come politica svolta e condotta attraverso mezzi violenti e militari; guerra, nel senso pieno del termine, da valutarsi come scontro militare tra formazioni statali che puntano a particolari obiettivi politici, a loro volta determinati da precisi interessi materiali ed economici della classe al potere in ciascuna nazione.

Va inoltre distinto l’obiettivo immediato di una guerra, come ad esempio il dominio mondiale nelle guerre condotte dalle principali potenze del moderno imperialismo, dalle ricadute materiali e produttive (il controllo totale delle fonti energetiche, ad esempio) che possono derivare da una vittoria in un conflitto bellico su scala più o meno ampia.

Si deve inoltre distinguere la guerra militare dalle altre importanti forme di conflitto che si sono via via create tra gli stati nel corso degli ultimi cinque millenni: guerre economiche, lotte per i dazi e scontri commerciali, battaglie indirette mediante l’uso del terrorismo nei paesi ostili, sabotaggio con hacker dei siti e delle reti internet dagli avversari internazionali, costituiscono sicuramente delle forme di antagonismo rilevanti all’interno dell’arena interstatale e che si possono tra l’altro trasformare, a determinate condizioni, in conflitti bellici, ma esse si differenziano da questi ultimi per il mancato utilizzo delle armi e della violenza su vasta scala; invece le guerre per procura tra grandi e medie potenze (si pensi solo alla guerra della Nato nel 2022-2023 contro la Russia, da combattersi “fino all’ultimo ucraino”) rientrano nel livello meno intenso dei confronti bellici veri e propri.

Infine, sia sul piano quantitativo che su quello qualitativo, non vanno confuse le guerre tra grandi e piccoli Stati dove le prime hanno raggiunto una dimensione mondiale dalla “guerra dei sette anni” che, dal 1756 al 1763, vide scontrarsi tutte le potenze europee e in particolar modo Francia e Gran Bretagna per il dominio coloniale del subcontinente indiano e dell’America settentrionale, dimensione planetaria che si amplificò al massimo durante quella seconda guerra mondiale, che provocò un numero totale di vittime stimato di regola attorno ai settanta milioni di esseri umani: l’ultimo macello globale costò dunque circa 70 “megamorti” in sei anni, dal 1 settembre 1939 al 2 settembre 1945, con la resa incondizionata dell’imperialismo nipponico.

Dopo tali indispensabili premesse, passiamo subito alle tre domande fondamentali che il genere umano deve porsi all’inizio del terzo millennio.

Innanzitutto per quale ragione una nuova guerra mondiale tra le grandi potenze non è divampata negli ultimi decenni, dall’agosto del 1945 alla metà del 2023?

Qual è la ragione principale per la quale gli Stati Uniti non hanno scatenato, dal 1945 a oggi, un’aggressione militare aperta e su vasta scala contro i loro principali nemici sul piano internazionale, a partire dall’Unione Sovietica e dalla Cina Popolare, pur avendo già usato gli ordigni nucleari contro le popolazioni inermi di Hiroshima e Nagasaki (6/9 agosto del 1945), avendo rappresentato senza soluzione di continuità la principale potenza militare del globo dalla fine del secondo conflitto bellico e avendo espresso più volte dei progetti ufficiali di egemonia su scala planetaria, dal 1945 fino a oggi?

Ma, soprattutto, può scoppiare in un futuro prossimo un conflitto bellico tra le potenze nucleari operanti attualmente nell’arena internazionale, spezzando in modo irreversibile e tragico la linea di continuità di quel particolare, mutevole e instabile rapporto di “guerra fredda”, ossia quell’assenza di conflitti armati diretti con l’impiego di ordigni atomici tra le principali formazioni statali in campo militare (USA, URSS/Russia post-sovietica, Cina Popolare, ecc.) che si riproduce, senza soluzione di continuità, dall’agosto del 1945 fino ai nostri giorni?

Sono tre domande diverse ma interconnesse tra loro, che riguardano allo stesso tempo un passato recente, il presente e il futuro a breve-medio termine dell’intero genere umano; tre quesiti che, a partire dallo scoppio della gravissima crisi economica che ha colpito dalla fine del 2007 il sistema capitalistico, dall’avvio del progetto di “guerre infinite” di Bush junior e di Obama (Afghanistan, Iraq 2003, finanziamenti USA all’ISIS, Libia 2011, ecc.) e dal rapido aumento delle tensioni tra NATO e Russia (crisi Ucraina del 2014-2023) tornano, e giustamente, a interessare una parte consistente delle masse popolari della sinistra antagonista.[1]

Detto in altri termini, a partire dal 2008 il terrificante film dell’orrore politico sulla guerra nucleare è tornato via via carsicamente nelle “sale di proiezione”, e cioè nei cervelli, nei pensieri e nelle emozioni collettive di milioni di lavoratori, giovani e intellettuali delle metropoli imperialistiche di tutto il pianeta, dopo il periodo di stasi e latenza del 1992-2000. E a sua volta, sul fronte opposto, anche uno speculatore multimiliardario come George Soros ha notato, nel maggio del 2015, che l’ipotesi di una “terza guerra mondiale non è un’“esagerazione”, mentre in un recente rapporto con il quale il Pentagono ha aggiornato la sua strategia globale è stato affermato a chiare lettere, nel luglio del 2015, che “c’è una bassa ma crescente” probabilità che gli Stati Uniti possano combattere una guerra contro una “grande potenza” – alias Russia e/o Cina – con “conseguenze immense”.

Per rispondere agli interrogativi sopra enunciati serve innanzitutto un processo di analisi oggettivo, rispetto alle caratteristiche fondamentali che distinguono l’attuale “epoca delle armi di sterminio” da quelle precedenti, createsi e sviluppatesi prima del luglio-agosto del 1945.

I tratti distintivi dello scenario globale via via formatosi dopo l’olocausto di Hiroshima, sia a livello materiale che politico, risultano numerosi e connessi dialetticamente tra loro.

La principale caratteristica dell’era atomica viene costituita dal salto di qualità epocale e sbalorditivo avvenuto con relativa rapidità, tra il 1939 e il luglio-agosto del 1945, all’interno del campo della tecnologia militare attraverso il processo di creazione delle armi di sterminio di massa relativamente facili da usare, in tempi rapidi e con basso dispendio di forza-lavoro viva, determinando quindi un orrendo processo di incremento sia dell’efficacia distruttiva che della composizione organica del “capitale” militare.[2]

Nel complesso mosaico costituito da questo decisivo salto di qualità, vanno individuati a loro volta i più rilevanti processi materiali e tecnologici a partire dal 1945, e cioè:

-        la creazione e l’utilizzo da parte statunitense, nel luglio-agosto del 1945, degli ordigni nucleari a fissione, che fin dal loro primo terrificante utilizzo avevano liberato a Hiroshima (6 agosto del 1945) un potenziale distruttivo pari a 13 chilotoni (13.000 tonnellate di tritolo) uccidendo a Hiroshima e Nagasaki più di 190.000 persone per gli effetti diretti o a lunga scadenza delle due terrificanti esplosioni;

-        la creazione, dal 1952 al 1954, di bombe all’idrogeno e a fusione termonucleare il cui potenziale distruttivo risultava fin dall’inizio superiore di circa mille volte a quella già devastante degli ordigni a fissione atomica: da quel periodo il sinistro megatone (unità di misura pari all’energia emanata dall’esposizione di un milione di tonnellate di tritolo) entra a pieno titolo nella teoria e pratica militare;

-        lo sviluppo gigantesco dell’efficacia distruttiva delle armi chimiche di sterminio (agenti nervini, gas VX, munizioni binarie, ecc.);

-        la crescita esponenziale dell’efficacia distruttiva delle armi biologiche, prima attraverso l’uso di batteri e in seguito mediante i virus, anche modificati geneticamente dalle biotecnologie. Ad esempio già all’inizio degli anni Settanta dello scorso secolo un’équipe statunitense di Fort Detrick, diretta da Bill Patrick, riuscì a “intensificare la virulenza del carbonchio e dell’antrace… cosicché un recipiente di un gallone (3,78 litri) poteva contenere fino a otto miliardi di dosi letali, abbastanza per uccidere tutti gli uomini, le donne e i bambini sulla faccia della terra”;[3]

-        il processo di costruzione su vasta scala di vettori capaci di trasportare, senza scalo e per quasi tutta l’estensione del nostro pianeta, gli ordigni nucleari attraverso la costruzione di aerei bombardieri e di missili intercontinentali (a partire dall’agosto del 1957, nel secondo caso);

-        la progressiva militarizzazione dello spazio attraverso i satelliti-spia, i satelliti-killer, lo “scudo stellare” USA e le armi al laser, il progetto Shuttle, il nuovo aereo statunitense X-37B, ecc.;

-        la creazione di ordigni atomici miniaturizzati (le cosiddette “bombe atomiche da zaino”) e della bomba al neutrone, del 1962: arma capitalistica per eccellenza, quest’ultima, visto che uccide gli uomini con un flusso gigantesco di neutroni lasciando quasi intatti invece oggetti, mezzi di produzione, ecc.;

-        la progettazione e/o creazione delle bombe elettromagnetiche e al cobalto.

Un altro segno distintivo dell’epoca delle armi di sterminio è rappresentato invece dal sopracitato “pluralismo atomico”, ossia della progressiva estensione del numero degli Stati in possesso delle decisive armi nucleari: dopo un breve periodo di monopolio statunitense, dal luglio 1945 fino all’agosto del 1949, a partire da tale data l’esclusivo “club nucleare” vide via via aggiungersi al suo interno altre nazioni quali l’URSS (oggi Russia), la Gran Bretagna, la Francia, la Cina Popolare, Israele, l’India, il Pakistan e la Repubblica Popolare Democratica di Corea.

Si tratta di un processo pluridecennale non scontato né inevitabile e che, soprattutto rispetto al nuovo “socio” sovietico del 1949, vide l’ostilità dichiarata del vecchio monopolista di Washington.

Il nucleo dirigente politico e militare americano era convinto che in ogni caso l’URSS non sarebbe riuscita a procurarsi la nuova e decisiva arma strategica almeno fino alla metà degli anni Cinquanta: ma le previsioni avventate degli esperti statunitensi vennero clamorosamente smentite quando il 29 agosto del 1949, nel poligono di Semipalatinsk, esplose con successo la prima bomba al plutonio sovietica iniziando a cambiare subito la correlazione di potenza su scala planetaria, prima che Washington avesse ammassato una massa critica di ordigni atomici sufficienti a devastare il territorio sovietico.[4]

Terzo fenomeno globale di natura militare: l’enorme e prolungato processo di accumulazione di armi di sterminio da parte dei diversi membri del “club nucleare”, a partire dal 16 luglio del 1945 e dal primo esperimento atomico in terra americana a Los Alamos, nel New Mexico.

Basta solo pensare che se verso la fine del 1945 l’arsenale nucleare di Washington era composto appena da due ordigni e il numero di questi ultimi era salito a “sole” cinquanta unità all’inizio del 1949, il potenziale atomico Usa superò invece la quota di diecimila nel 1968 mentre, attualmente, gli Stati Uniti hanno ancora a loro disposizione circa 7.000 testate nucleari.[5]  

Attraverso questa gigantesca e prolungata espansione quantitativa e corsa agli armamenti, che interessò del resto anche il campo delle armi chimiche e biologiche, già attorno al 1965 sia gli Stati Uniti che l’Unione Sovietica avevano ormai raggiunto e superato la soglia critica dell’“overkill”, intesa come la capacità di distruggere più volte e in modo totale il loro antagonista in caso di un’eventuale conflitto bellico.

Si trattò di un – disastroso, orrendo – salto di qualità epocale rispetto al livello di sviluppo raggiunto in precedenza dalle forze sociali di distruzione, prima del 1945, e che rende purtroppo troppo ottimistica la celebre frase di Einstein su “non so con quale arma si combatterà la terza guerra mondiale, ma la quarta si combatterà con la clava”: il rischio che emerge, che tra l’altro diventa una certezza esaminando poi il fenomeno dell’“inverno nucleare” su cui torneremo, è che dopo un’eventuale terza guerra mondiale non vi sarà più né uomo né clava, sulla faccia della terra.

Quarto segno distintivo della particolare epoca nucleare creatasi dopo il 1945: il sopracitato “stallo atomico” e il MAD, acronimo di Mutual Assured Destruction, ossia la sopracitata distruzione reciproca assicurata che venne alla luce già attorno al 1957-65 all’interno dei rapporti globali di forza di natura militare tra USA e URSS.

A partire dall’agosto del 1957, con il primo lancio di un missile intercontinentale da parte sovietica, accompagnato dalla quasi simultanea costruzione del primo aereo bombardiere russo in grado di andare e tornare alla casa-madre dalle coste americane, si venne infatti consolidando via via una particolare situazione di bilanciamento e di equilibrio atomico su scala mondiale, in base alla quale anche nel caso di un attacco a sorpresa, il cosiddetto “first strike” da parte nemica, la potenza aggredita conservava in ogni caso il potere di distruggere completamente la popolazione e le strutture economiche dell’aggressore.

Non fu certo casuale che fin dal 1967 l’allora segretario alla Difesa USA, Robert McNamara, ammise tale particolare “stallo” e rapporto di forza su scala planetaria notando che sia gli Stati Uniti che l’URSS ormai disponevano di “un’efficientissima capacità di infliggere danni inaccettabili” a qualunque aggressore potenziale, “anche dopo un’eventuale colpo di sorpresa” di quest’ultimo.

Non a caso gli strateghi militari francesi, a partire dal 1960 e dalla costruzione del primo ordigno atomico da parte del loro paese, avevano elaborato la teoria della “dissuasione del debole” – in campo nucleare – rispetto “al forte” (L. Poirier), da intendersi come il reale contropotere esercitato anche da una modesta massa critica di armi atomiche in mano a uno stato facente parte del “club nucleare” nei confronti delle superpotenze, mediante gli effetti devastanti che avrebbe provocato la caduta sul suolo nemico anche di pochi ordigni di sterminio.[6]  

Secondo il generale Lucien Poirier, per dissuadere l’attacco di un avversario “bastava un numero sufficiente di armi nucleari”, non necessariamente gigantesco: la combinazione dialettica tra “pluralismo atomico” e il processo di accumulazione (prolungato e su vasta scala) di ordigni atomici permette e consente, in altri termini, ai principali stati che fanno parte del “club nucleare” di infliggere perdite umane spaventose – le “megamorti”, i milioni di morti previsti da H. Kahn e dalla RAND corporation – e danni materiali incalcolabili al nemico anche nelle condizioni peggiori, e cioè in caso di un’eventuale attacco atomico a sorpresa e su vasta scala da parte del nemico.

Anche se quel particolare e inquietante dottor Stranamore di nome Herman Kahn scrisse, ancora nel 1960, che una guerra termonucleare poteva essere “vinta” dagli Usa attraverso un attacco a sorpresa contro Mosca, pagando il “prezzo accettabile” di circa 40 milioni di americani uccisi dalla rappresaglia sovietica, i piani allucinanti dello stratega atomico statunitense rimasero non a caso solo sulla carta, anche in occasione della crisi cubana del 1962.

Ulteriore caratteristica dell’epoca atomica: visto il processo gigantesco e prolungato di accumulazione di ordigni nucleari, un’eventuale guerra su larga scala tra le grandi potenze atomiche creerebbe sicuramente un terrificante e genocida “inverno nucleare”, con un abbassamento della temperatura globale del nostro pianeta pari in media ad almeno trenta gradi centigradi, per una durata di circa un decennio.[7]

Come ha evidenziato nel 2014 uno studio della rivista americana Earth’s Future, persino un conflitto atomico limitato provocherebbe inevitabilmente delle gravissime e prolungate conseguenze geoclimatiche a livello planetario.

Basandosi sugli effetti riscontrati durante le esplosioni atomiche avvenute a Hiroshima e Nagasaki (in Giappone) sul finire della Seconda Guerra Mondiale, oltre che su vari esperimenti nucleari portati a termine da molti stati nel periodo post-bellico e della Guerra fredda, gli scienziati hanno elaborato diverse teorie riguardanti questa tematica fin dagli anni Settanta.

Per effetto dei venti, le particelle di materia carbonizzata, le polveri radioattive e qualsiasi altra sostanza in grado di alzarsi nell’aria andrebbe infatti a costituire uno scudo impermeabile ai raggi solari, che farebbe a sua volta precipitare le temperature dell’atmosfera: la combinazione tra le basse temperature, la continua oscurità e le radiazioni dovute alle esplosioni atomiche produrrebbero sconvolgimenti climatici tali da compromettere la vita delle specie animali e vegetali, provocando effetti devastanti anche sullo strato di ozono.

L’“inverno atomico” è legato pertanto alla produzione di polveri fini in seguito all’esplosione di testate nucleari su obiettivi civili (e quindi sui mari o nei deserti, come durante i test atomici). Negli studi commissionati durante gli anni Ottanta si tenne conto del fatto che al momento dell’esplosione un moto convettivo (il fungo atomico) trasporta rapidamente tutte le polveri verso strati più alti: e questo fenomeno  dovrebbe creare una uniforme nube di polvere e cenere radioattiva sospesa nell’aria fra i 1000 e i 2000 metri da terra: la nube accumulerebbe l’energia solare e farebbe salire le temperature degli strati della tropopausa e alta troposfera fino a 80°C, mentre la superficie della Terra a sua volta rimarrebbe “protetta” dai raggi solari e si raffredderebbe in media di 30°C.

Sesto fenomeno tipico dell’era delle armi di sterminio: l’ipervulnerabilità delle strutture urbane e ad alta tecnologia in caso di conflitto atomico, persino non considerando i fenomeni sopracitati dell’inverno nucleare e dell’ulteriore vaso di Pandora delle armi chimico-biologiche.

Anche solo l’esplosione di pochi ordigni atomici, infatti, creerebbe un caos indescrivibile nel sistema di trasporti di qualsiasi civiltà urbanizzata, nelle sue forniture di energia e materie prime, nelle telecomunicazioni, ecc.: anche solo quelle ipotetiche, mostruose ma isolate bombe atomiche produrrebbero in qualunque paese un panico sociale e una disorganizzazione politico-materiale di fronte al quale l’11 settembre del 2001 a New York apparirebbe come una pacifica giornata festiva di agosto…

Ulteriore segno distintivo dell’epoca post-Hiroshima: l’ipervulnerabilità dell’economia capitalistica contemporanea ad attacchi militari portati sul suolo delle metropoli imperialistiche, come mostrato anche dagli attentati terroristici dell’11 settembre del 2001 negli Stati Uniti.

Anche nel caso – estremamente improbabile – di una guerra nucleare assai limitata tra le grandi potenze nucleari, la distruzione immane di capitale fisso, il crollo della fiducia degli investitori, la devastazione totale del valore delle proprietà di terreni e la riduzione a zero della rendita fondiaria, i danni tremendi provocati alle infrastrutture e alle telecomunicazioni costituirebbero fattori combinati che, in soli pochi minuti, provocherebbero una depressione economica prolungata e senza precedenti nel processo di riproduzione sociale del capitalismo e nella sua acquisizione di plusvalore, sia a breve che a medio termine.

Ottavo fenomeno globale: almeno dall’inizio degli anni Sessanta, si verificò una presa di coscienza collettiva da parte della stragrande maggioranza dei nuclei dirigenti politici e dei vertici militari di tutto il pianeta, ivi compresi quelli statunitensi, della logica implacabile della “distruzione reciproca” sopracitata in caso di guerra, a sua volta figlia della condizione dialettica tra il salto di  qualità tecnologica militare del luglio-agosto 1945 e il processo di riarmo USA-controriarmo sovietico, con l’accumulazione e controaccumulazione pluridecennale su vasta scala di armi di sterminio da parte delle due superpotenze di quel periodo.

La lucida dichiarazione del 1967 di McNamara, che abbiamo riportato in precedenza, costituisce solo l’iceberg di una massa impressionante di prese d’atto provenienti da quasi tutti i politici e teorici di gran parte del pianeta, ivi compresi quelli di Washington, della dura realtà nucleare e della reciproca distruzione in caso di conflitto di natura atomica.

Tutto ciò non avvenne subito e non si verificò certo in un istante.

L’elemento oggettivo del MAD, innegabile a partire come minimo dal 21 agosto del 1957 e il lancio del primo missile balistico intercontinentale sovietico, non ebbe subìto sul piano soggettivo una ricaduta lucida e completa nei circoli dirigenti delle principali potenze, e specialmente all’interno dell’ala più oltranzista e guerrafondaia del complesso militar-industriale statunitense rappresentata, per circa due decenni e dopo la breve parentesi del generale Douglas MacArthur nel 1950-51, dal “superfalco” Curtis LeMay: ma la tendenza generale che prevalse nell’imperialismo statunitense, seppur solo dopo lo scoppio della prima bomba atomica sovietica nell’agosto del 1949, divenne il rigetto dell’opzione di una guerra nucleare anche basata sul fattore sorpresa contro l’Unione Sovietica.

Come ha rilevato acutamente Roberto Paura, «il piano Halfmoon, approvato nel 1948 dallo Stato maggiore USA, prevedeva dapprima 50, poi 133 bombe da sganciare sull’Unione Sovietica, otto delle quali destinate a Mosca. Quando, l’anno successivo, i sovietici eseguirono con successo il primo test atomico, lasciando pressoché di stucco gli americani, che non si aspettavano un così rapido ripristino dell’equilibrio di forza, il piano Halfmoon divenne il perno operativo di un possibile first strike, l’attacco nucleare da scatenare nel caso in cui l’Armata Rossa avesse invaso l’Europa occidentale – prospettiva considerata talmente imminente che il piano era stato redatto in emergenza – senza che le forze convenzionali alleate riuscissero a contrastarne l’avanzata.

Era questo lo scenario su cui si basava l’idea di una guerra combattuta attraverso le armi nucleari tra le due superpotenze. Per tutta la Guerra fredda, le forze convenzionali della NATO schierate in Europa occidentale furono in inferiorità numerica rispetto alle divisioni sovietiche e un attacco generale orientato all’invasione difficilmente avrebbe avuto altro esito – secondo gli strateghi dell’Alleanza atlantica – di una vittoria totale di Mosca. L’arsenale nucleare americano doveva servire a impedire una simile vittoria, attraverso la minaccia di un contrattacco devastante, del tipo nation-killing, orientato cioè alla completa distruzione dell’Unione Sovietica. Una simile prospettiva inorridiva il presidente Truman, che pure non aveva esitato a far sganciare le atomiche su Hiroshima e Nagasaki: il piano Halfmoon fu rispedito al mittente con la richiesta di svilupparne un altro che non prevedesse l’uso di bombe atomiche. “Una simile guerra non è un’opzione politica per una persona razionale”, dichiarò Truman nel 1953 nel suo ultimo messaggio al Congresso.

Ben presto, negli anni Cinquanta, divenne chiaro che non tutti i gradi di incertezza di una guerra potevano essere quantificati e quindi trasformati in valori calcolabili nell’ambito di una simulazione.

Ma gli scontri con le forze armate erano destinati a proseguire: dapprima per dirimere la “rivolta degli ammiragli”, ossia la reazione della Marina al progetto di LeMay di porre gli ordigni atomici sotto la gestione del SAC e quindi dell’aviazione; poi per contrastare l’ambizione dell’Air Force di assumere il controllo diretto degli ordigni sottraendolo alla decisione di ultima istanza sul loro impiego che Truman intendeva riservare al potere civile, fidandosi poco dei vertici delle forze armate che considerava troppo imbevuti di anticomunismo; infine richiamando e destituendo il generale Douglas MacArthur dal comando supremo durante la guerra di Corea, a causa della sua inclinazione a estendere il conflitto alla Cina, sulla base della convinzione – sostenuta da LeMay – che si potesse far uso dell’arsenale nucleare per distruggere le principali città della Corea del Nord e costringere i cinesi a ripiegare.

L’irrazionalità di simili progetti fu confermata anche dalle prime simulazioni di guerra al computer. Nello specifico il piano di MacArthur in Corea del Nord fu passato al vaglio del SEAC (Standard Eastern Automatic Computer) in dotazione al governo a Washington: l’oracolo informatico concluse che le conseguenze per l’economia americana sarebbero state disastrose. Negli anni Cinquanta la fucina dei war games divenne la RAND Corporation, acronimo di Research And Development (“ricerca e sviluppo”), serbatoio intellettuale al servizio dell’Air Force e delle ambizioni di Curtis LeMay. Vi facevano parte fisici, ingegneri, sociologi, impegnati nello sforzo di rendere “razionali” e “calcolabili” le incertezze della loro epoca; o, per usare le parole di uno dei loro esperti più noti, Herman Kahn, di “pensare l’impensabile”. La guerra nucleare era ovviamente in cima all’elenco di incertezze da domare.

L’armamentario matematico per riuscirci spaziava dall’analisi dei sistemi alla teoria dei giochi fino a un’esotica applicazione di un metodo sviluppato per prevedere il comportamento stocastico delle particelle atomiche, chiamato Monte Carlo per richiamare l’aleatorietà delle roulette del casinò. Ben presto divenne chiaro che non tutti i gradi di incertezza di una guerra potevano essere quantificati e quindi trasformati in valori calcolabili nell’ambito di una simulazione. Alla meglio, osservò ironicamente LeMay, le simulazioni confermavano solo quanto egli già da tempo perorava: che servivano più bombardieri, più bombe, più soldi.

Altri studi giunsero a conclusioni diverse. Per esempio il progetto Vista, condotto dal California Institute of Technology agli inizi degli anni Cinquanta, tra i cui esperti figurava anche Robert Oppenheimer, il “padre” della bomba atomica, suggeriva che fosse possibile sconfiggere le divisioni sovietiche in Europa usando armi nucleari tattiche sul campo, le cosiddette “armi di teatro”, anziché bombardare le città dell’URSS: si sarebbe in tal modo risparmiata la vita ai civili limitando danni e vittime. Il progetto Solarium voluto nell’estate del 1953 dal presidente Dwight Eisenhower, che riunì nel solario della Casa Bianca tre diversi team di consulenti esterni e ufficiali della Difesa per costruire strategie di reazione a un attacco sovietico, condusse il presidente a scartare l’idea di una guerra preventiva. Una stima della CIA richiesta da Eisenhower concludeva che una guerra nucleare avrebbe comportato un totale collasso economico, con due terzi degli americani bisognosi di cure mediche, anche in caso di vittoria. La sua conclusione riecheggiava quella di Truman: “L’unica cosa peggiore di perdere una guerra globale è vincerne una”.

Il generale LeMay non si diede per vinto e suggerì di cambiare strategia: anziché puntare alle città sovietiche, un attacco nucleare avrebbe dovuto prendere di mira gli arsenali nemici e le loro basi aeree e missilistiche, per impedire ogni possibile rappresaglia. Si trattava cioè di progettare un attacco di “controforza” (counter-force) al posto del tradizionale attacco “contro-risorse” (counter-value): ciò avrebbe reso l’eventualità di un attacco preventivo decisamente meno rischiosa, perché il nemico non sarebbe riuscito a lanciare il second strike, l’attacco di rappresaglia. Inoltre, usando una cinica finezza lessicale, si poteva sostenere che un simile attacco non fosse preventivo (preventive) ma pre-eventivo (pre-emptive), vale a dire teso a impedire un evento, in questo caso un first strike sovietico contro gli Stati Uniti: non appena lo Strategic Air Command fosse stato certo dell’imminenza di un attacco nucleare ai danni del territorio americano, sarebbe scattato il blitz controforze per annientare le forze d’attacco nucleare sovietiche prima ancora che si alzassero da terra.

La strategia, tuttavia, non mancava di difficoltà. Perché un attacco di controforza potesse funzionare, occorreva che tutti i bersagli militari nemici venissero distrutti. Se anche solo un bombardiere o un missile balistico fosse sopravvissuto abbastanza da raggiungere il territorio americano e colpire una grande città, le conseguenze sarebbero apparse alla popolazione civile inaccettabili. E tuttavia distruggere una base aerea o un silos missilistico è molto più complicato che distruggere una grande città densamente abitata: richiede enorme precisione e bombardamenti multipli per riuscire a distruggere i depositi spesso costruiti in profondità o al riparo sotto le montagne: si calcolò che per ciascuna base nemica occorressero 4-5 bombe atomiche, costringendo non solo ad aumentare significativamente l’arsenale americano, ma spingendo la corsa agli armamenti lungo una curva esponenziale, dal momento che per ogni nuovo missile costruito dal nemico sarebbe stato necessario costruire un numero di ordigni quattro o cinque volte maggiore. Come conseguenza, in appena cinque anni – tra il 1956 e il 1961 – l’arsenale nucleare americano passò da 4.618 bombe a ben 24.111.

A rendere politicamente credibile l’ipotesi di un loro impiego fu il Segretario di Stato di Eisenhower, John Foster Dulles: pur consapevole quanto il suo presidente della necessità di usare l’atomica a scopo dissuasivo anziché operativo, vale a dire come deterrente, Dulles fu tra i primi a porsi il problema di come rendere tale deterrente credibile ed evitare che l’URSS lo prendesse per un bluff. Secondo la nuova concezione strategica americana definita “New Look” e presentata nel gennaio 1954 da Dulles in un discorso al Council on Foreign Relations di Washington, gli USA avrebbero dovuto “basarsi in primo luogo su una grande capacità di risposta immediata” contro ogni atto ostile da parte dell’URSS attraverso una rappresaglia massiccia (massive retaliation): ciò implicava che un attacco nucleare non si sarebbe verificato solo in caso di attacco diretto agli Stati Uniti, ma anche di fronte a episodi considerati inaccettabili come, per esempio, il tentativo dei sovietici di prendere Berlino. Si trattava di una strategia estremamente rischiosa, tipicamente definita di brinkmanship, ossia giocata sull’orlo del precipizio.

Tra coloro che non erano affatto convinti della bontà di una simile strategia uno dei più influenti fu Paul Nitze, che aveva lavorato nella finanza prima di passare alla consulenza politica nel secondo dopoguerra, divenendo uno dei più ascoltati consiglieri di Truman e membro del National Security Council, l’organo deputato a definire la politica di sicurezza nazionale americana. Qui nel 1957 Nitze fu tra i principali redattori del cosiddetto rapporto Gaither (dal nome del presidente del comitato di studi preposto alla sua definizione, Horace Gaither), che stimava imminente il sorpasso della capacità militare sovietica su quella americana, superando del 100% la spesa militare USA e dotandosi di un arsenale di missili balistici intercontinentali (ICBM) in grado di rendere del tutto obsoleti i bombardieri dell’Air Force.

Anche se le conclusioni principali del rapporto – tra cui l’avvio di un programma nazionale per la costruzione di bunker antiatomici per prepararsi all’attacco sovietico – furono respinte da Eisenhower, che le riteneva fondate su ipotesi fantasiose (e in questo aveva ragione), il rapporto Gaither metteva soprattutto in discussione la fattibilità dell’approccio della rappresaglia massiccia. Che senso aveva minacciare l’URSS di un attacco nucleare devastante dal momento in cui i loro arsenali erano ormai in grado di sferrare un letale second strike a prescindere da quanti sforzi fossero compiuti nel conservare la supremazia nucleare? Il problema che il rapporto Gaither presentava riguardava l’asimmetria della deterrenza o, come lo definì il generale francese André Beaufre, “il potere livellatore dell’atomo”. Nel suo saggio Dissuasion et Stratégie (1964, in italiano tradotto come Difesa della bomba atomica), Beaufre lo spiega così:

«È esatto affermare che due avversari, di cui uno, ad esempio, abbia una capacità di reazione efficace del 90 per cento (capacità effettiva di distruzione del 90 per cento delle risorse del suo avversario) e l’altro abbia una capacità di reazione effettiva del 15 per cento (capacità effettiva di distruzione del 15 per cento delle risorse del suo avversario) si trovino in una situazione di reciproca dissuasione (…). Il fenomeno comporta in effetti un grado d’equilibrio che sarebbe stato inconcepibile, dato questo rapporto di forze con mezzi tradizionali».[8]

Una pratica pluridecennale ha dimostrato la resilienza e la solidità materiale e iperdistruttiva, almeno a livello potenziale, della mutual assured destruction, a dispetto dei fallimentari tentativi statunitensi di scavalcarla attraverso le cosiddette “guerre stellari”.

Nono segno distintivo: anche in base all’esperienza concreta (il precedente di Hiroshima, la pericolosa crisi dei missili a Cuba del 1962, ecc.), si assistette altresì alla presa di coscienza generalizzata da parte dei circoli dirigenti del “club nucleare” rispetto all’estrema difficoltà, se non all’impossibilità di mantenere limitato e non-nucleare il devastante scenario di un eventuale scontro diretto tra le grandi potenze planetarie, tra l’altro con a capo nuclei dirigenti diversissimi per matrice politico-ideologico ma certo non votati alla causa della non violenza, del “porgere l’altra guancia” e del non rispondere con la forza a un’eventuale aggressione, specie se di natura atomica.

Va sottolineato come sia impossibile, sul piano sia politico che militare, una guerra nucleare cosiddetta “limitata” per tre ragioni principali.

Innanzitutto anche le “limitatissime” – si fa per dire, certo – e ancora tecnologicamente arretrate bombe atomiche che distrussero Hiroshima e Nagasaki provocarono come minimo 190.000 morti, secondo le stime più prudenti: un bagno di sangue orrendo che provocherebbe sicuramente una vendetta inevitabile e una rappresaglia di matrice nucleare.

In terza battuta aprire il tremendo vaso di Pandora termonucleare significherebbe spalancare le porte e scatenare su scala planetaria sia i gruppi terroristici che qualunque nucleo dirigente statale o formazione politica  che intendesse svolgere il ruolo di provocatore, di istigatore di un conflitto mondiale su vasta scala: come è avvenuto ad esempio nel caso del governo paranazista diretto da Zelenski e del missile ucraino lanciato nel novembre 2022 sul suolo polacco, che all’inizio si cercò di far passare per russo da parte delle autorità di Kiev.

Su tale materia, potenzialmente incandescente sotto tutti gli aspetti, un analista lucido e preparato come il generale Fabio Mini si è soffermato sui rischi legati alla guerra in Ucraina. «Kiev ha tutte le intenzioni di vincere la propria guerra sul campo, ma le armi convenzionali fornite dai Paesi occidentali non le consentono di rovesciare a tal punto i rapporti di forza. Armi nucleari tattiche possono tuttavia pervenire all’Ucraina con molta facilità, occultate tra le altre che generosamente i Paesi NATO inviano all’Ucraina nel nome della pace. Possono essere montate su missili, ma anche adattarsi a obici e lanciarazzi. A questo punto, scrive Mini, “basta un missile a testata nucleare sulla base russa di Sebastopoli in Crimea o quella di Kaliningrad nel baltico da parte dell’Ucraina, o chi per essa, e saltano una decina di depositi e basi americane in Europa a partire da quelle in Italia e nel Baltico”. La mossa russa dà il via a un’escalation di avvertimenti e contrattacchi che terminano inevitabilmente con la fine del mondo. Chi pensa che questa ricostruzione sia esagerata mediti sull’incidente della settimana scorsa: esso dimostra che gli scenari di escalation sono molti e molto banali. L’Ucraina non ha nemmeno bisogno di ricorrere a un’atomica vera e propria; il bombardamento di Zaporižžja col pretesto di colpire presunti russi nascosti nella centrale fornisce all’Ucraina la più pericolosa delle bombe sporche».[9]

L’ultima, ma non certo per ordine di importanza, e più recente caratteristica dell’epoca delle guerre di sterminio è costituita simultaneamente dal sopracitato tentativo statunitense di spezzare a proprio vantaggio l’equilibrio del terrore nucleare attraverso le “Guerre Stellari” (la cosiddetta iniziativa di Difesa Strategica di Reagan, a partire dal 1983) e dal fallimento clamoroso di quest’ultime, in base anche alle contromosse prese dal 2000 in poi dalla Russia postsovietica attraverso la costruzione dei nuovi missili Topol, RS26 e Rubezh.

Come ha notato giustamente John Mearsheimer, il progetto reaganiano – ripreso e sviluppato da Clinton e dagli altri presidenti americani – di “scudo stellare” e finalizzato a intercettare e distruggere nello spazio i missili sovietici contro gli USA, costituiva un piano strategico a lungo termine teso chiaramente a ricostruire una schiacciante superiorità militare di Washington.

“Inoltre gli Stati Uniti spinsero con forza, ma senza successo, per lo sviluppo di efficaci difese antinucleari mediante missili balistici… La verità è che (per i dirigenti politici americani) ci vogliono le difese necessarie a facilitare il compito di vincere una guerra nucleare con costi accettabili. In sintesi, abbiamo prove inconfutabili che gli Stati Uniti non hanno mai abbandonato gli sforzi per guadagnare la superiorità nucleare durante gli ultimi venticinque anni della guerra fredda. Ciononostante, il margine guadagnato sui sovietici non fu mai significativo”.[10]

Non sempre, infatti, i piani strategici vanno a buon fine e con le contromosse adottate dalla Russia post-sovietica fin dal 2000, mediante la costruzione su larga scala dei missili Topol-M (o RS-24) e degli “Yars”, capaci di penetrare gli “scudi stellari” statunitensi, oltre che con i nuovi vettori  ipersonici russi, la strategia delle Guerre Stellari è fallita quasi in partenza e agli albori del suo dispiegamento concreto.

Al già basso livello di affidabilità e all’alto grado di vulnerabilità dello “scudo stellare” a stelle strisce, alla possibilità concreta di ingannare e “saturare” gli intercettatori e i laser statunitensi attraverso il lancio su vasta scala di finti missili atomici si è ormai aggiunta anche l’introduzione da parte russo (e cinese) della nuova tipologia di missile denominata Topol-M: invulnerabile alle radiazioni e agli impulsi elettromagnetici, il Topol-M è in grado di spostarsi e cambiare traiettoria a piacere durante tutta la sua fase di lancio e può facilmente trasportare alcune testate nucleari manovrabili, oltre ad essere in grado di rilasciare tutta una serie di falsi bersagli per ingannare i missili intercettori americani.[11]

Sempre rimanendo nell’analisi della correlazione di potenza militare su scala planetaria, il nuovo e sofisticato sistema russo missilistico (l’S-500) impiega tutta una serie di missili intercettatori capaci di raggiungere la velocità ipersonica eccezionale di 20.000 chilometri orari, risultando già ora in grado di assicurare un buon livello di protezione all’arsenale missilistico terrestre e a una parte del territorio russo: già dal 2015 la parità nucleare approssimativa tra Washington e Mosca è stata ormai ristabilita via via con i missili ipersonici russi del tipo Zircon e con i loro omologhi strumenti cinesi, portando al collasso i piani più ambiziosi e aggressivi del Pentagono, orfano tra l’altro degli Shuttle ormai non più utilizzabili, mentre in seguito sono arrivati come ulteriore rinforzo e controforza i formidabili missili ipersonici russi e cinesi.[12]

Dalle considerazioni tecnologiche, materiali e politiche finora esposte risulta facile individuare la caratteristica politica fondamentale dell’“epoca delle armi di sterminio”, come minimo dal 1960/65: attraverso di essa il genere umano ha acquisito da alcuni decenni la capacità potenziale di autodistruggersi e di autocancellarsi dalla faccia della terra.

Più precisamente: di autodistruggersi con una guerra termonucleare (e chimico-biologica) estremamente rapida, della durata di poche ore.

Ancora più precisamente: di autodistruggersi attraverso una guerra nucleare (e chimico-biologica) che richiede il “lavoro” – si fa per dire, certo – e l’erogazione collettiva di energie psicofisiche solamente di poche migliaia di uomini, a partire dagli addetti agli agghiaccianti silos di lancio dei missili intercontinentali, ai piloti dei bombardieri strategici e agli equipaggi dei sottomarini dotati di testate atomiche.

Quindi dal 1945-60 siamo via via già diventati una specie magicamente iperpotente, almeno nel campo della distruzione e nel processo di produzione di strumenti di distruzione, in uno scenario storico generale sconosciuto prima del 1945 e solo sfiorato, prima del 1945, anche dalla narrativa di fantascienza e di fantapolitica.

La corsa al riarmo/contro riarmo atomico ha inoltre costituito in passato e rappresenta tuttora una particolare forma di lotta di classe su scala planetaria, nel quale dal 1944-45 ad oggi l’imperialismo statunitense ha costantemente assunto il ruolo della parte attaccante e guerrafondaia: alla ricerca simultanea dell’egemonia mondiale e della distruzione dei paesi socialisti, del movimento comunista e delle forze antimperialiste, finora senza successo strategico.

Per il futuro una possibile sequenza positiva di sviluppo della “guerra fredda atomica” che continua anche ai nostri giorni risulta quella composta dalla creazione del multipolarismo e neutralizzazione dell’imperialismo USA → processi antimperialisti e realmente riformisti nei paesi del Sud del pianeta → rafforzamento ulteriore del multipolarismo/disinnesco dalle forze belliciste degli Stati Uniti → ecc. ecc.

Viceversa e per i decenni futuri la sequenza alternativa/negativa non sarà l’obsoleta alternativa tra guerra o rivoluzione mondiale, esposta da Maurizio Lazzarato di recente, ma viceversa una delle altre seguenti opzioni:

-        l’attacco preventivo degli USA a Cina e Russia, se Washington dovesse acquisire una ipersuperiorità nucleare;

-        il “fattore Malvinas”, su cui si tornerà tra poco.[13]

Una volta individuati, seppur in modo sintetico, i principali segni distintivi dell’epoca delle armi di sterminio si deve passare ad analizzare invece un’altra importante tematica politico-militare, diversa ma strettamente legata alla prima: e cioè la comprensione delle principali forze motrici che spingono uno stato/un blocco di stati a scatenare una guerra, a iniziare un conflitto bellico.

Per effettuare un “identikit” dell’aggressore in campo internazionale serve innanzitutto individuare i multiformi interessi economici, politici e geostrategici che guidano i circoli dirigenti delle nazioni che hanno avviato e scatenato un conflitto bellico: e la categoria fondamentale dell’interesse, del “premio” prefissato e della posta in palio, materiale e politica, che guida e spinge una determinata formazione statale alla guerra è già stata esaminata da molto tempo, con cura e grande successo dalla teoria della politica internazionale, sia in campo marxista che dalla scuola “realista” di matrice borghese (da Machiavelli in poi, arrivando fino a Mearsheimer), diventando ormai un assioma consolidato sia a livello di élite politico-intellettuale che nella coscienza collettiva e di massa (“cui prodest?”, “cosa ci guadagnano a scatenare una guerra?”, ecc.).

È rimasto invece spesso nell’ombra, perché data quasi per scontata, la seconda forza motrice dei nuclei dirigenti degli stati aggressori: e cioè la regola generale della “speranza di vittoria” politico-militare, che emerge dall’esperienza concreta degli ultimi sei millenni di storia.

Si è già notato che la prassi internazionale insegna che di solito i dirigenti politico-militari degli stati che iniziano, che scatenano, che danno la spinta di avvio a un conflitto bellico effettuano tale scelta strategica perché ritengono, a torto o a ragione (anche sbagliando, certo), di avere come minimo delle buone probabilità di vincere nella guerra a cui essi hanno dato inizio sul piano strettamente materiale, senza poi pensare di subire delle perdite di estensione e intensità tali da trasformare il loro successo nell’ormai celebre e aneddotica “vittoria di Pirro”.

In altri termini, un’esperienza plurimillenaria su scala internazionale insegna come di regola i dirigenti dello stato-aggressore abbiano previsto, in base a un calcolo – corretto o sbagliato – dei rapporti di forza globali con il nemico, di poter sconfiggere quest’ultimo in un conflitto bellico almeno con un certo grado di probabilità di successo, se non addirittura con la sicurezza totale o quasi totale di vittoria finale, senza allo stesso tempo mettere in preventivo di subire dei danni e delle perdite devastanti al fine di raggiungere tale obiettivo finale.

Vista la possibilità (e la realtà) di errori anche clamorosi di calcolo rispetto ai rapporti di forza internazionali e alla loro dinamica completa, la regola “della speranza della vittoria” viene confermata, e non certo smentita dai numerosi casi concreti nei quali gli stati-aggressori hanno invece subìto delle sconfitte finali: i loro nuclei dirigenti politico-militari si sono semplicemente sbagliati nelle loro troppo ottimistiche previsioni e progetti iniziali, pre-bellici e pre-conflittuali.

La dialettica tra speranza pre-bellica di vittoria e la successiva disfatta finale sul campo di battaglia ha segnato tra l’altro anche l’inizio e la genesi di tre conflitti bellici recenti di estrema importanza, quali:

-        l’avvio cosciente del primo conflitto mondiale nell’estate del 1914, da parte dell’alleanza tra Germania e Austria-Ungheria, visto che i circoli dirigenti delle due nazioni in via di esame erano allora convinte di poter vincere lo scontro politico-militare contro i loro nemici, Francia e Russia;

-        l’avvio cosciente della seconda guerra mondiale da parte dell’orrendo e genocida nucleo dirigente hitleriano, nell’estate del 1939, visto che quest’ultimo era convinto di poter raggiungere il successo contro il blocco antagonista anglo-francese;

-        l’avvio cosciente dell’aggressione genocida del nucleo dirigente nazista contro l’Unione Sovietica, nel giugno del 1941, visto che Hitler e i suoi aiutanti risultavano allora assolutamente convinti – a torto, per fortuna dell’intero genere umano – di schiacciare completamente “il bolscevismo giudaico” e stalinista al massimo nel giro di tre mesi.

Come tutte le tendenze generali della dinamica politico-sociale delle società classiste, anche la regola “della speranza di vittoria” è certo segnata da eccezioni e controtendenze secondarie, ma costituisce un elemento indiscutibile nell’arena internazionale.

Oltre che da una praxis multiforme e plurimillenaria nell’arena internazionale, la regola generale della “speranza di vittoria” viene supportata del resto dalle analisi teoriche sviluppate dai migliori rappresentanti della scienza politica, partendo dall’importanza giustamente attribuita negli scontri interni-internazionali al calcolo oggettivo dei rapporti di forza e della loro dinamica concreta da geniali pensatori quali Sun-Tzu, Lenin e Mao Zedong, in una linea di continuità che via via è stata incarnata anche dall’indiano Kautilya, da Machiavelli, Hegel e Gramsci; essa è stata ulteriormente confermata anche dalla “legge della speranza politico strategica” elaborata dal generale francese L. Poirier, oltre che da numerose teorizzazioni sulla strategia internazionale di natura assai simile, prodotte negli ultimi decenni e aventi per oggetto anche l’analisi e il calcolo delle probabilità di vittoria e della percezione del rischio di sconfitta (costi eccessivi) da parte dei diversi attori operanti su scala internazionale.[14]

Cambiando e unendo a questo punto i due assi centrali delle analisi finora svolte, sia rispetto ai segni distintivi dell’epoca delle armi di sterminio che alla guerra nucleare vista sotto il profilo degli stati-nuclei dirigenti aggressori, risulta relativamente facile giungere a una prima tesi di carattere generale: e cioè che, nell’era post-Hiroshima, dal 1960-65, la guerra tra grandi potenze nucleari si rivela un progetto politico-militare e un’eventuale praxis sicuramente suicida e autodistruttiva anche per il potenziale aggressore, e quindi un’opzione politico-militare che può essere presa seriamente in considerazione, e soprattutto tradotta in azione nucleare concreta solo da un attore statale disperato, posto e trovatosi forzatamente di fronte a una situazione disperata per cause interne (una devastante crisi economica della sua nazione, ad esempio) o internazionali.

Solo un nucleo dirigente e solo una classe sociale aspirante suicida, solo un “folle” e un “pazzo” (secondo la teoria politica elaborata da R. Nixon agli inizi degli anni Settanta) potrebbe decidere in modo autonomo di attaccare e scatenare il “first-strike” contro un nemico dotato di un arsenale nucleare – e di altre armi di sterminio, chimiche biologiche – e senza considerare l’inevitabile e devastante reazione atomica del suo “target” del paese oggetto del suo progetto di intervento e facente parte del “club nucleare”.

Anche nell’ipotesi “migliore” – si fa per dire, certo –, non vedendo quindi l’avvio del terrificante inverno nucleare su scala planetaria e subendo “solo” – si fa sempre per dire, certo – la  distruzione delle megalopoli del loro paese, un’eventuale nucleo dirigente statunitense che decidesse di procedere all’Armageddon atomica si troverebbe quasi subito a dover contare diversi “megamorti” sullo stesso suolo americano, e cioè come minimo diverse decine di milioni di cadaveri statunitensi: basti solo pensare che la sola estensione metropolitana di Los Angeles comprende tuttora al suo interno oltre 12 milioni di persone, mentre quella di New York più di 21 milioni di esseri umani.

Le inaudite energie distruttive che inoltre colpirebbero, anche nello scenario più ottimistico di “first- strike” a stelle e strisce, l’apparato produttivo, le infrastrutture e il sistema delle telecomunicazioni americane costituirebbero una reazione nemica così devastante da trasformare per molti decenni il “sogno americano” in un tremendo incubo radioattivo, senza poi tener conto del rischio concretissimo di nuovi “colpi di coda” atomici e/o chimico-batteriologici delle forze residue del nemico contro il territorio statunitense.

Nel “migliore” dei casi, pertanto, un eventuale nucleo dirigente guerrafondaio degli USA vedrebbe moltiplicato come minimo per un milione di volte le conseguenze dell’undici settembre 2001, con ricadute negative che questa volta si protrarrebbero come minimo per alcuni decenni, periodo nel quale all’alta borghesia statunitense rimarrebbero come proprietà reale solo i… rifugi atomici.

Una “vittoria” militare americana su Russia e/o Cina perderebbe pertanto di qualunque significato materiale persino nell’opzione “migliore” – si fa per dire, certo – del “day after” atomico: e il cosiddetto “premio” di  tale suicidio statunitense prolungato nel tempo sarebbe solo che uno o entrambi dei paesi più estesi del pianeta – Russia e Cina – si trasformerebbero in nuove Fukushima su scala gigantesca, inavvicinabili e non sfruttabili per molti anni da parte dell’imperialismo statunitense, come del resto l’Europa facente parte della NATO.

A questo punto possiamo tornare alle due domande iniziali di questo capitolo potendo offrire una prima approssimazione di risposta.

Le paurose controindicazioni e i tremendi svantaggi che presenta in ogni caso l’opzione atomica, sempre in presenza di quel “pluralismo nucleare” e del fallimento delle guerre-stellari già analizzato in precedenza, indicano tra l’altro e senza ombra di dubbio il motivo essenziale per cui gli Stati Uniti non hanno ancora utilizzato il loro arsenale atomico contro i loro nemici strategici in campo internazionale, dall’agosto del 1949 fino ai nostri giorni: il contropotere distruttivo accumulato via via dall’Unione Sovietica e dalla Russia postsovietica, oltre che dalla Cina Popolare, hanno costituito infatti, il principale deterrente politico-materiale che è stato in grado di tenere finora a bada i “falchi” e le tendenze più aggressive e militariste dell’imperialismo statunitense.

La risposta alle due domande iniziali risulta pertanto infatti relativamente facile, una volta compresa la natura dell’epoca delle armi di sterminio: anche se odiavano l’URSS per motivi sia ideologici che geostrategici (e detestano la Russia postsovietica per i loro concretissimi progetti di dominio mondiale), l’élite politico-militare di Washington temevano e temono tuttora il contropotere bellico degli avversari prima sovietico e poi russo dal 1992 ad oggi, oltre che dello stato cinese.

Non certo bontà o scrupoli politico-morali (si pensi solo a Hiroshima e Nagasaki), ma i missili, i bombardieri e le armi nucleari sovietico-russe e cinesi hanno costituito finora l’ostacolo principale e finora insuperabile ai progetti di egemonia mondiale di Washington, oltre che allo scatenamento di una nuova terza guerra mondiale da parte degli influenti circoli oltranzisti e guerrafondai che operano negli USA alla luce del sole e senza soluzione di continuità dall’inizio degli anni Quaranta del secolo scorso.

Non certo per bontà o scrupoli politico-morali sono falliti i piani di egemonia statunitense su scala planetaria, tesi a creare una particolare e odiosa “Pax Americana” in tutto il globo, elaborati e cristallizzatisi già all’inizio degli anni Quaranta, attraverso la progettualità politica e l’azione costante dell’allora potentissimo e sopracitati Council on Foreign Relation, un think-tank che operò dal 1939 come gruppo di studio (autorizzato da Cordell Rush, allora segretario di Stato degli Usa) e “Sottocomitati per la sicurezza” all’interno del dipartimento di Stato di Washington.

Pensiamo a Nixon, l’autore della “teoria del folle” che immaginò più volte di usare ordigni atomici in Vietnam, dal 1969 al 1972; oppure a Ronald Reagan, che fu sorpreso ad annunciare “per scherzo” il bombardamento atomico dell’URSS “entro cinque minuti”, nell’agosto del 1984. I loro sogni militaristi si sono in ogni caso scontrati con la dura realtà del contropotere militare e nucleare detenuto dagli avversari degli Stati Uniti operanti sull’arena internazionale.

Un’analoga sorte è toccata del resto anche al sopracitato disegno di dominio mondiale elaborato da Cheney, Rumsfeld e Wolfowitz, esposto nel documento “Rebuilding America’s defences: Strategies, forces and resocres for a New Century” reso pubblico da un settimanale scozzese nel settembre del 2002. In tale progetto su scala planetaria si auspicava apertamente un “cambio di regime in Cina”, oltre alla necessità vitale di assicurare a ogni costo “la nostra leadership” (di Washington) contro qualunque possibile “sfidante”, a partire dalla Russia: ma la realtà internazionale è andata invece in una direzione molto diversa da quella sognata dai “falchi” dell’amministrazione di Bush junior, non solo in Afghanistan e Iraq ma anche e soprattutto nella dinamica del rapporto di forza globale tra le principali potenze del pianeta.

Come ulteriori verifiche incrociate sulla centralità dell’equilibrio – approssimativo, instabile – di forze nucleari su scala planetaria e del MAD, vanno infine citati i “fatti testardi” (Lenin) per cui:

-           dal 1949 ad oggi nessuno degli scontri politici diretti, e dei più gravi “incidenti” verificatisi tra le grandi potenze (crisi USA-URSS per Berlino, nel 1959/61; crisi dei missili a Cuba, nel 1962; incidente tra USA e Cina Popolare dell’aprile del 2001, con la distruzione di un velivolo militare cinese da parte di un aereo-spia di Washington in una zona vicina al confine cinese; ecc.) si è mai trasformato in guerra diretta e aperta tra gli stati-nuclei coinvolti;

-           dal 1949 ad oggi, nessuna delle guerre di liberazione e/o degli scontri “per interposta persona” che hanno via via coinvolto su fronti opposti le grandi potenze (guerra di Corea, 1950-53; prima guerra del Vietnam, 1947-54; seconda guerra del Vietnam, 1960-75, ecc.) si è mai trasformata in guerra diretta e aperta tra gli stati-nucleari coinvolti al loro interno.

In sostanza, l’impasse nucleare del 1949/2023 ha fermato finora anche i progetti di dominio statunitense con la loro derivata-connessa “cassetta degli attrezzi” bellica, ossia l’avvio e lo scatenamento di un’aggressione su scala planetaria contro i principali antagonisti dell’imperialismo americano, URSS/Russia (quest’ultima, a partire dal 1999) e Cina Popolare.

Questo per quanto riguarda il passato.

Per quanto riguarda presente e futuro, l’esperienza concreta e pluridecennale del 1945-2023 rende molto improbabile lo scoppio di una guerra atomica per errore e a causa di uno sbaglio umano, visti i sistemi di controllo a più livelli sviluppati nel corso degli ultimi decenni e i vari “telefoni rossi” da usare in caso di gravissime emergenze.

Visto inoltre l’avanzato e sempre crescente processo di costruzione di missili intercontinentali ipersonici, capaci inoltre di far variare la rotta e di spandere in volo le loro numerose testate atomiche ancora prima di entrare nello spazio, da parte sia della Russia che della Cina Popolare; vista tale dura realtà e dinamica politico-militare, risulta estremamente improbabile che gli Stati Uniti possano acquisire una superiorità bellico-atomica in grado anche solo di innescare, almeno nei “falchi” americani più intransigenti, una piccola speranza di potere vincere un eventuale conflitto nucleare nei prossimi dieci anni.

Escluso per ovvi motivi l’arrivo al potere di un presidente statunitense allo stesso tempo pazzo e desideroso di suicidare se stesso, con la sua famiglia, alla luce abbagliante di funghi nucleari del tipo di Hiroshima e Nagasaki, l’unica variante credibile che potrebbe portare davvero a una terza guerra mondiale e all’inevitabile uso di armi di sterminio risiede nel “fattore Malvinas”.

Il fattore Malvinas prevede l’incombere di una gravissima crisi economico-sociale all’interno degli Stati Uniti, collegata a un’evidente inefficacia nel contrastarla persino da parte della rete di protezione offerta dallo stato e della parastatale Federal Reserve, che conduca come sua (evitabile) conseguenza alla vittoria dell’ala più oltranzista e reazionaria dell’imperialismo americano con il suo mantra: “non abbiamo più niente da perdere. Meglio tentare di vincere ad Armageddon che avere le masse in rivolta armata a Los Angeles, Washington e in giro per tutto il paese”.

O tutto, o niente.

In pratica gli aspiranti dottor Stranamore a stelle e strisce imiterebbero, ma purtroppo su scala planetaria, i feroci generali argentini che nel 1982 di fronte al collasso economico del gigante sudamericano, alla ripresa su vasta scala delle lotte operaie e all’assenza di strumenti politico-materiali in grado di far fronte efficacemente alla catastrofe che si presentava davanti ai loro spaventati, ma cinici occhi, scelsero di scatenare un conflitto armato contro la potenza atomica britannica: essi occuparono pertanto le isole Malvinas, a loro volta sottoposte al controllo coloniale inglese a partire dal 1833, sperando di coprire da un lato sul piano interno il disastro produttivo e sociale da esso generato in sei anni di malgoverno e, su quello internazionale, di cercare di ottenere un compromesso onorevole con Londra, dopo la loro “vittoriosa” occupazione militare nel 1982 dello sperduto arcipelago atlantico in oggetto.

Sviluppiamo dunque a questo punto alcune tesi sul “fattore Malvinas”.

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