L’attentato al premier iracheno e l'"accordo minimale" sul nuclerare iraniano
Il 29 novembre a Vienna riprenderanno i colloqui sul nucleare iraniano, nodo cruciale per la pace globale. Dopo un lungo stallo, l’Iran ha accettato di sedersi nuovamente al tavolo dei negoziati, nonostante finora essi non abbiano dato alcun frutto concreto a causa della sconsideratezza degli Stati Uniti.
In altra nota abbiamo riferito come gli Usa finora si siano attestati sulla richiesta di bloccare l’arricchimento dell’uranio senza però dare alla controparte nessuna garanzia in merito alla durata dell’accordo, che potrebbe essere dichiarato nullo perfino nel corso della stessa presidenza Biden, anche laddove Teheran fosse rimasta conforme ai vincoli stabiliti.
Dato il precedente avvenuto durante l’amministrazione Trump, che ha visto gli Usa stracciare l’accordo senza nessun motivo, Teheran ha trovato del tutto inaffidabile la controparte, da cui un ritiro dal tavolo dei negoziati in attesa che l’amministrazione Usa uscisse dallo stato confusionale (causato dal conflitto di spinte contrastanti, tra quanti vogliono l’intesa e quanti, invece, stanno stanno tentando di sabotarla per addossare le responsabilità agli iraniani).
L’attentato al premier iracheno
Evidentemente qualcosa è cambiato e, il 29, i duellanti torneranno a trattare. Un appuntamento che rischiava di saltare quando, poco l’annuncio, si è registrato l’attentato al premier iracheno, che per fortuna non ha causato morti, che i media mainstream hanno subito attribuito all’Iran.
Ciò a causa della situazione irachena: da poco nel Paese hanno avuto luogo le elezioni, che hanno visto la sconfitta dei partiti filo-iraniani, i quali hanno però accusato le autorità di frode elettorale. Da cui un profluvio di proteste e manifestazioni di piazza.
Se si fosse scoperto una qualche responsabilità iraniana dietro l’attentato, sia diretta che ad opera delle milizie sciite locali, il tavolo dei negoziati sarebbe saltato, e probabilmente era questo lo scopo dello stesso. Per fortuna gli Stati Uniti hanno rifiutato di cedere alle pressioni, mediatiche e non, chiedendo alla magistratura irachena di far piena luce sul caso (cosa che presumibilmente non avverrà…).
Allo stesso tempo, l’Iran si è mosso per sedare le contestazioni con una visita del generale generale Ismail Qaani in Iraq, nel corso della quale ha calmato l’animosità delle fazioni filo-sciite e ha dichiarato che Teheran rispetterà il risultato delle elezioni irachene che sarà emesso dall’Alta Commissione elettorale indipendente, incaricata di rivedere lo scrutinio (Tansim).
Scongelare i beni iraniani
Incidente risolto, ma c’era un altro ostacolo da superare perché l’Iran accettasse di riprendere i negoziati. Le autorità iraniane, infatti, avevano chiesto un gesto tangibile di buona volontà da parte dei negoziatori, che oltre agli Stati Uniti sono Francia, Gran Bretagna, Germania, Russia e Cina.
Avevano cioè chiesto che parte dei beni iraniani congelati all’estero in seguito alla recessione dell’accordo stabilito al tempo di Obama fossero scongelati. A quanto pare tale richiesta è stata evasa.
A darne notizia è al Manar, che riporta una dichiarazione in tal senso del presidente iraniano Ebrahim Raïssi.
“L’annuncio – prosegue al Manar – giunge pochi giorni dopo il tweet di Ali Naderi, direttore generale dell’agenzia di stampa della Repubblica islamica dell’Iran (IRNA), nel quale si spiegava che oltre 3,5 miliardi di dollari di risorse iraniane sono state rilasciate da uno dei paesi che le detengono”.
Gli iraniani non hanno specificato il Paese artefice di tale apertura, ma è significativa la conclusione della nota di al Manar: “Recentemente, Teheran ha dichiarato che il suo ritorno al tavolo dei negoziati sul programma nucleare era subordinato allo sblocco di questi beni da parte di Washington”.
Insomma, nonostante sabotaggi e turbolenze, il dialogo sottotraccia tra Washington e Teheran prosegue. Difficile, però, che il 29 novembre si giunga a una qualche intesa, date le distanze delle parti.
Ma sembra che gli Stati Uniti stiano cercando una via che consenta di tenere in vita il dialogo dilatando la tempistica delle trattative, per evitare il collasso del negoziato, anche perché un mancato accordo sarebbe sicuramente usato dai variegati ambiti anti-iraniani per alimentare una nuova escalation.
L’accordo minimale
L’amministrazione Usa, secondo una nota di Axios, avrebbe immaginato un escamotage per congelare lo status attuale e proseguire il dialogo.
Attualmente, dopo la rescissione dell’accordo da parte Usa, l’Iran ha proceduto a incrementare l’arricchimento dell’uranio in suo possesso, portandolo al 60%, cioè più prossimo alla soglia necessaria per produrre una bomba atomica (anche se tale soglia è ancora lontana).
Gli Usa, a stare al resoconto di Axios, chiederebbero a Teheran di bloccare a tale livello l’arricchimento dell’uranio, in cambio “gli Stati Uniti e i suoi alleati potrebbero liberare alcuni fondi iraniani congelati o fornire deroghe alle sanzioni sui beni umanitari”.
Insomma, un pre-accordo minimale, che sarebbe comunque un successo perché aprirebbe prospettive. Ma ci sono ostacoli da superare. Nella sua visita in Israele, riferisce ancora Axios, Bob Maley, inviato Usa per l’Iran, ha incontrato sia il premier Naftali Bennet che il ministro della Difesa Benny Gantz ed “entrambi hanno sostenuto che l’unico modo per riportare l’Iran all’accordo del 2015 era aumentare piuttosto che allentare la pressione”.
Un approccio sul quale concordano anche influenti ambiti americani, che l’amministrazione Usa non può ignorare. In attesa del 29 novembre, le trattative fervono: i costruttori di pace sono all’opera, come denota anche l’annuncio che lunedì prossimo Rafael Grossi, direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), si recherà a Teheran.
Ma la trattativa è appesa a un filo, che un incidente di percorso potrebbe tagliare facilmente. Vedremo.