L’avversario della democrazia partecipativa: il neoliberismo e il nemico: l’etno-nazionalismo sovranista e populista

L’avversario della democrazia partecipativa: il neoliberismo e il nemico: l’etno-nazionalismo sovranista e populista

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di Michele Blanco*

La bella novità proposta dagli autori liberali di Liberalismo inclusivo è che oggi l’avversario è il neoliberismo[1]. Infatti «Che il liberalismo sia in crisi, specie dopo la crisi finanziaria del 2008, è un’affermazione su cui c’è un vasto consenso. Non solo, come è naturale, tra i critici del liberalismo, sia a sinistra che a destra, ma anche tra i suoi sostenitori. Questa autocritica dei liberali, cominciata in sordina, nelle discussioni tra accademici, si è spostata nel corso del tempo anche su pubblicazioni di più larga diffusione, come l'“Economist” o il “Financial Times”. Un settimanale e un quoti­diano da sempre considerati baluardi del liberalismo, non solo economico, che negli ultimi anni –con accenti via via più drammatici dopo l'elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti- hanno cominciato a solle­vare questioni essenziali relative alla­ sostenibilità della versione del libera­lismo diventata egemone dopo il 1989, quello che molti, per mancanza di un termine migliore, chiamano "neoliberalismo"»[2].

Il nemico contro il quale bisogna schierarsi, e non avere compromessi, è il ritorno dell’etno-nazionalismo[3], infatti la democrazia liberale d’Occidente è assediata dall’esterno dagli Stati autoritari, Russia e Cina e, dall’interno, dai populismi vincenti negli Stati Uniti con Donald Trump e in Ungheria con Viktor Orbán. L’etnonazionalismo o nazionalismo etnico “fa proprie e rivendica le tradizioni di un gruppo etnico, di un popolo” (Treccani), ma diventa molto pericoloso in quanto fa scattare rivendicazioni politiche su basi di “identità” costruite ad-hoc per centrare obiettivi, nel migliore dei casi, elettorali, ma a volte mira a sovvertire le istituzioni democratiche. L’etnonazionalismo populista[4] è un modo di pensare e vedere la società che preoccupa, oggi più che mai, in quanto siamo testimoni di una risalita degli estremismi che non hanno mai avuto esiti particolarmente democratici, inclusivi e partecipativi anzi hanno sviluppato forme di razzismo e di esclusione dalla vita sociale e politica di larghi strati di popolazione[5].

Nei singoli Stati abbiamo, sempre più, larghi strati di popolazione che si sentono minacciati da continui cambiamenti che arrivano da lontano e generano una precarizzazione diffusa, in particolare nei contratti di lavoro. Specialmente coloro che hanno un basso livello di qualificazione (bassi salari, poca istruzione, etc.) si sentono molto più direttamente minacciati. Essi così cercano i responsabili della crisi tra quelli che ritengono essere gli autori: immigrati in primo luogo[6], per la presunta concorrenza sul mercato del lavoro caratterizzato da bassi salari, ma anche altre categorie sociali borden line sospettate, molto spesso, di qualsiasi misfatto. Abbiamo una situazione di forte percezione d’impotenza da parte dei cittadini normali di fronte al capitale finanziario che caratterizza questa fase del capitalismo globalizzato: «del resto, nonostante le dichiarazioni di crisi del capitalismo c’è generale [almeno finora] consenso sulle strategie di intervento (alternanza di deregolamentazione e liberalizzazione e di cicli di intervento pubblico in momenti di instabilità).

Fino ad ora, tutti i governi democratici, di destra e di sinistra, hanno perseguito l’obiettivo di salvare il capitale finanziario e il “big business” implementando programmi di austerità con il risultato di generare più povertà e più precarietà. Da qui il sorgere del populismo di destra e sinistra, del sovranismo nazionalistico e molto probabilmente anche dell’integralismo religioso, specialmente dalle seconde generazioni di immigrati nelle nazioni occidentali. E le rivolte, a tratti anche violente, come quella dei gilets jaunes francesi o le reazioni populiste non cambiano questa situazione … questo sistema è basato sulla produzione di povertà, di ingiustizie e di dominio»[7].

 Quindi, il vero rischio che porta l’affermarsi delle idee di etnonazionalismo è quello di un «imbarbarimento» dei rapporti umani, la crisi della democrazia con l’affermarsi dell’antipolitica e, più in generale, il nuovo, non del tutto chiaro nelle sue effettive applicazioni, assetto istituzionale imposto dalla società postindustriale e post-moderna con la sempre più acuta crisi dello stato sociale.

 Già Habermas, nell’ormai lontano 1998, allarmato dal risorgere dei conflitti etnici, si domandava «quando, e in che misura, le popolazioni moderne comprendono se stesse come una nazione di appartenenti etnici [Volksgenossen] piuttosto che come una nazione di cittadini?»  Perché a ben vedere «questa doppia codificazione riguarda la dimensione della chiusura o, al contrario, della inclusione», e si osserva che «la coscienza nazionale oscilla oggi, in maniera caratteristica, tra un allargamento dell’inclusione e un rinnovamento della chiusura»[8].

A questo riguardo Habermas sottolinea nella critica alla globalizzazione, che soprattutto dal punto di vista economico, le disuguaglianze sono diventate insopportabili, tanto da trovarci di fronte a una vera e propria crisi della modernità come era intesa dagli Illuministi (che resta un progetto incompiuto tra gli individui per quanto riguarda il raggiungere le uguali possibilità). Nondimeno che dal punto di vista culturale, «Il postmodernismo ha per così dire disarmato l’autocomprensione della modernità. La gente non capisce più bene se la concezione democratica della società - di una società che dovrebbe trasformare politicamente se stessa a partire dalla volontà e dalla coscienza dei cittadini riuniti - non debba essere considerata altro che un’utopia graziosamente antiquata»[9]. Habermas riesce a mettere in evidenza come il neoliberismo ci abbia portato ad assuefarci ad una situazione mondiale dove disuguaglianza sociale ed esclusione dalle decisioni importanti sono da considerare come dei dati di fatto. Egli contrappone a questa triste situazione di fatto un ritorno alle leggi e ai principi espressi nelle Costituzioni degli Stati «democratici e di diritto sociale».

Questi principi sono caratteristici delle nazioni dell’Europa, ma anche del mondo anglosassone, (qui possiamo intravedere la rivalutazione in senso giusnaturalistico delle costituzioni e delle leggi che caratterizzano le nazioni democratiche). «Le costituzioni politiche vigenti negli stati di diritto ci suggerirebbero ben altra prospettiva»: quella in cui le diseguaglianze e le esclusioni vengono combattute e limitate dalle leggi. Si vede chiaramente in Habermas una rivalutazione della partecipazione politica democratica contro la “legge” economica del neoliberismo, come unico modo per contrastare il diffondersi delle ineguaglianze, sempre più stridenti. La conclusione del saggio su Marcuse[10] è la sottolineatura di un impegno “emancipativo” per favorire la riscossa della modernità (intesa in senso kantiano) e della rinascita della partecipazione democratica e deliberativa. Ci sembra essenziale che per mantenere la libertà, la giustizia e la pace come li abbiamo conosciuti, e come fondamenti cardine delle nostre società, è fondamentale il «riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana, e dei loro diritti, uguali ed inalienabili», in quanto «il disconoscimento e il disprezzo dei diritti dell’uomo hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità»[11].

Per Piketty, il fatto che gli appartenenti alle classi popolari votino, o simpatizzino, per partiti e movimenti antipolitici, di ispirazione etnonazionalistica e anti-immigrati, i colpevoli sono proprio i tradizionali partiti di sinistra, ormai incapaci di difendere le classi più povere, che costituivano il loro serbatoio tradizionale di voti. Perché di fronte alla globalizzazione, ed a tutti i fenomeni connessi, la sinistra tradizionale di governo non ha saputo o voluto costruire una politica fiscale sovranazionale, basata sul principio di progressività, non c’è stata nessuna legislazione sovranazionale a difesa del lavoro. L’eguaglianza nei processi formativi si è fermata alle scuole secondarie, mentre la nuova economia richiedeva professionalità più elevate. Le conseguenze sulla stessa constituency della sinistra elettorale, alla fine, sono state esplosive.

Questa dimostrata inadeguatezza, a livello mondiale delle sinistre politiche, a partire dalla fine degli anni Ottanta del XX secolo, ha provocato un «sentimento di abbandono delle classi popolari di fronte ai partiti socialdemocratici [ed] abbia costituito un terreno fertile per i discorsi anti-immigrati e le ideologie nativiste. Fino a che l’assenza di ambizione redistributiva che è all’origine di questo sentimento di abbandono non sarà stato corretto, non si vede cosa possa impedire che questo terreno sia sempre più sfruttato»[12]. Ancora, in occasione del ballottaggio alle elezioni presidenziali francesi del 2022 Piketty ribadisce il suo pensiero con argomentazioni forti: «Questa esplosiva miscela fatta di retorica contro l’immigrazione e di misure di stampo sociale pensate per le classi popolari bianche ha già funzionato in Polonia e in Ungheria.

Il rischio è che questa impostazione, che potremmo definire social-razzista, prevalga in Francia. Se Macron non farà un gesto forte sulla giustizia sociale, la sua arroganza rischia di fargli perdere il secondo turno contro Le Pen»[13]. Una sinistra che Piketty definisce brahmina, «internazionalista inegualitaria», costituita dai ceti colti e internazionalisti, perché fautori della globalizzazione finanziaria allo stesso modo delle destre liberali: «Inadeguati, (proimmigrati, pro-ricchi)»[14], che sostengono cioè le politiche antisociali, come molti partiti conservatori senza alcuna differenza tangibile, esempi concreti di questa sinistra, o meglio centrosinistra[15], più di centro che di sinistra, perché sono sempre più partiti che propongono politiche centriste, sono stati Macron, in Francia, e Renzi, in Italia. In entrambi i casi abbiamo avuto, nell’azione di governo, politiche indiscutibilmente, dal punto di vista fattuale, pro-ricchi, riuscendo ad indebolire le classi medie: In Francia, ad esempio, l’abolizione dell’imposta sul patrimonio[16]; In Italia, con il governo Renzi, abbiamo avuto l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, che garantiva i lavoratori dipendenti dall’ingiusto licenziamento[17], con gravi conseguenze sulla fiducia delle classi popolari nell’operato della sinistra politica.

Abbiamo avuto in questi ultimi decenni una presunta «Sinistra intellettuale benestante» e una «destra mercantile» – scrive Piketty – che incarnano valori ed esperienze in qualche modo complementari. E condividono anche non pochi tratti comuni, a cominciare da una certa dose di ‘conservatorismo’ di fronte all’odierna situazione di disuguaglianza. Sono evidenti le ragioni che hanno portato una parte crescente dei gruppi sociali svantaggiati a sentirsi scarsamente rappresentati (o addirittura abbandonati) dalla sinistra che ha anche governato, per molti anni, in molte nazioni europee favorendo, solo ed esclusivamente, le elitarie classi sociali più benestanti. Della stessa opinione registriamo il parere di Sahra Wagenknecht, esponente della sinistra radicale tedesca, che ritiene i tipici rappresentanti della sinistra liberale come: «Spocchiosi Arroganti. Ossessionati dal politically correct. Persuasi di stare sempre dalla parte del Bene, e di ciò che fa bene al pianeta»[18]. Inoltre esattamente come osserva Piketty la sinistra di governo, oltre ad essere neoliberale, è «Modaiola e arrogante, neoliberale e lontana dai suoi temi classici: salari, diritti, welfare»[19].

La Wagenknecht osservando la situazione tedesca dei nostri tempi, spiega con grande precisione perché la sinistra neoliberale abbia perso i voti della classe operaia. Infatti rivela che: «nei quartieri più alla moda di Berlino, i figli dei professionisti e dei nuovi ricchi non incontrano più quelli del precariato; vanno a scuole diverse e i meno abbienti li vedono solo quando gli portano la posta o la cena».

Abbiamo di fronte una società globalizzata sempre più divisa a compartimenti stagni, come avevano già descritto Ulrich Beck[20] e Zygmunt Bauman[21]. Divisa da un lato fra chi la globalizzazione la cavalca, come gli accademici e i loro pupilli, «che vivono agiati e cullandosi nei loro stili di vita così verdi, ma vissuti come fossero dei dogmi, dei precetti autoritari». E, dall’altra parte, la larga fascia dei perdenti dell’era digitale, l’esercito del precariato e dei pensionati che, dopo aver sgobbato una vita, si ritrova a frugare nei cassonetti. Il resto, dalle crisi delle sinistre alla marea nera di destra che monta in mezzo mondo, è storia quotidiana.

Conclude la Wagenknecht che «Non è vero dunque che nel 21° secolo la gente abbia virato a destra.  Dal punto di vista socio-economico le masse richiedono più salario, diritti e welfare, i classici temi cioè di sinistra. Peccato solo che i partiti di sinistra siano sempre più orientati a politiche e atteggiamenti neoliberali», aggiunge: «È un fatto che le garanzie del welfare, i sistemi sociali e sanitari funzionino solo all’interno di uno Stato nazionale. E non possono essere estese, ecumenicamente, a tutti senza pregiudicarne le prerogative». Come la gestione statale nell’emergenza-virus ha drammaticamente mostrato[22].

Considerazioni simili le ha espresse il noto sociologo italiano Domenico De Masi che, senza mezzi termini, afferma che la sinistra liberale è responsabile dell’impoverimento delle classi sociali più povere e del declino della classe media. Infatti, con grande lucidità di analisi, sostiene che «nell’ultimo mezzo secolo i leader di sinistra hanno fatto a gara per disorientare i cittadini. Si pensi, ad esempio, agli esperimenti di “terze vie” alla Tony Blair. Ma in Italia il disorientamento è iniziato subito dopo la morte di Enrico Berlinguer, quando le sinistre caddero in un insano innamoramento per il neoliberismo considerato come salvifica modernizzazione. Se si pensa che, negli anni 90, quando Mario Draghi fu Direttore generale del Tesoro e presidente della Commissione per le privatizzazioni, la furia privatizzatrice contro le industrie di Stato e il settore pubblico non fu sferrata da leader neoliberisti come Berlusconi o Dini, ma da socialisti e comunisti come Amato, Bersani e D’Alema, ci si rende conto del disorientamento in cui è stato via via trascinato il popolo di sinistra. Il capolavoro perverso, allora compiuto sotto l’accorta regia di Draghi, negli anni successivi si è ripetuto più volte, sotto altre regie meno raffinate. Si pensi all’articolo 18[23] abolito non da Berlusconi, leader di Forza Italia, partito liberale e conservatore, ma da Renzi già citato, leader del Pd. E si pensi, da ultimo, allo stesso Pd che, per fare fede alla sua natura di sinistra, dovrebbe esibire con orgoglio un programma socialdemocratico e che invece fa sua l’agenda di un liberista come Draghi, dopo essere stato il massimo sostenitore del suo governo»[24]. De Masi paventa: le «Politiche economiche, pandemia e guerra legittimano l’ipotesi che nel prossimo autunno almeno 12 milioni di italiani vivranno in condizioni penose.

A essi vanno aggiunte le centinaia di migliaia di stranieri, clandestini e non, che subiscono uno sfruttamento sistematico. Ma la questione non riguarda solo i poveri. Anche molti giovani e meno giovani che superano la soglia della povertà vivono in uno stato di precarietà perenne, imposta dalla politica economica neo-liberista che della precarietà e del rischio diffusi ha fatto i suoi principi fondamentali»[25].

Dunque se i partiti di sinistra non intercettano i voti delle classi popolari, dei precari e degli emarginati, che aumentano sempre di più, vuol dire che non funzionano gli apparati e i rappresentanti dei partiti che dicono di essere di sinistra ma hanno chiaramente perso di vista il carattere distintivo della sinistra che è sempre stato l’egualitarismo. Ribadisce De Masi in modo inequivocabile: «si può dire che oggi la contrapposizione frontale è tra neoliberismo, che si risolve fatalmente in aumento delle disuguaglianze, e socialdemocrazia che le riduce».

Quindi tutto il fenomeno presentato come populismo altro non è che il risultato delle difficoltà della democrazia liberale, nelle sue svariate articolazioni, di affrontare il problema centrale della nostra epoca, la fortissima sensazione di insicurezza, che non caratterizza solamente l’aspetto economico, ma tutti gli ambiti della vita delle singole persone. Di certo in una situazione sociale e economica cosi precaria per molte persone «È improbabile che un posto di lavoro flessibile diventi un punto dove voler costruire un nido»[26]. Questa è la grande questione che lascia una grave eredità di delusione, disillusione e di fallimento, e che porta l’intera società ad una disperata ricerca di nuove forme di rappresentanza, vista la poca differenza, negli effetti pratici, dell’alternanza nei governi di destra e sinistra, sia nei paesi di consolidata tradizione democratica sia nei casi di nazioni di nuova democrazia, come ad esempio Polonia e Ungheria.

Per questo, abbiamo visto, l’affermarsi di governi e relativi leader che sembravano, o si atteggiavano, a possibili demiurghi. In altri casi la nascita di movimenti sociali che hanno portato a una nuova mobilitazione e protesta[27] per cercare un orizzonte diverso da quello attuale, ma con rischi e pericoli ancora sconosciuti per la tenuta democratica[28] anche con la sempre più “discesa in campo” di Gigacapitalisti[29] in politica, o che ricordano momenti della storia non particolarmente tranquilli.  Abbiamo, di converso chi sostiene sempre e a spada tratta la democrazia liberale, come baluardo ultimo della democrazia tour court. Anche di fronte a quelle che sono evidenti e gravi contraddizioni: «Malgrado i difetti economici e culturali, la democrazia liberale resta il migliore sistema per garantire la convivenza nelle società complesse. Certo, la crisi liberale non è nuova: fin dalle origini il liberalismo è stato sfidato dal rozzo comunitarismo a destra e dall’ambiguo egualitarismo a sinistra. E tuttavia non si vede come il ripudio dei valori liberali possa portare ad altro che a violenti conflitti».[30] Ma molti, come abbiamo visto, anche progressisti hanno, evidentemente perso il senso e il segno che dovrebbe caratterizzare la propria politica.

Stefano Rodotà nel 2013 ne aveva tracciato un principio importante, almeno per chi si definisce di sinistra: «Un principio inaccettabile per la sinistra è la riduzione della persona a homo oeconomicus, che si accompagna all'idea di mercato naturalizzato: è il mercato che vota, decide, governa le nostre vite. Ne discende lo svuotamento di alcuni diritti fondamentali come istruzione e salute, i quali non possono essere vincolati alle risorse economiche. Allora occorre tornare alle parole della triade rivoluzionaria, eguaglianza, libertà e fraternità, che noi traduciamo in solidarietà: e questa non ha a che fare con i buoni sentimenti ma con una pratica sociale che favorisce i legami tra le persone. Non si tratta di ferri vecchi di una cultura politica defunta, ma di bussole imprescindibili. Alle quali aggiungerei un'altra parola-chiave fondamentale che è dignità»[31].

Questo è il punto focale anche nelle nazioni più ricche. Per esempio in Italia abbiamo 5 milioni 770 mila poveri assoluti che dispongono di meno di 2 dollari al giorno. A questi vanno aggiunti circa 7 milioni di poveri relativi. Siamo a oltre dodici milioni di poveri in un paese che ha 60 milioni di abitanti e che è l’ottavo al mondo per ricchezza su 196. Ciò accade nonostante 3 milioni e 700 mila persone prendano quel minimo reddito di cittadinanza[32]. Non si vede un partito che si faccia carico di questa gente e dei loro bisogni e diritti.

Socialdemocrazia o socialismo partecipativo e neoliberismo.

La differenza fondamentale fra neoliberismo e socialdemocrazia è costituito dalla possibilità della presenza dello Stato, e della politica democratica partecipativa, nelle decisioni economiche: ed è proprio questo il terreno sul quale la costruzione teorica del neoliberismo sembra crollata, perché le crisi ricorrenti degli ultimi anni dovrebbero aver dimostrato l’assoluta incapacità del mercato di provvedere a sé stesso razionalmente. Non solo crisi economiche che si ripetono ma anche le grandi diseguaglianze di reddito e distributive della ricchezza che sono enormemente aumentate proprio nei paesi considerati, dagli economisti neoliberisti, avanzati[33]. In queste nazioni ci troviamo di fronte al grande paradosso che l’eguaglianza dei cittadini è un forte principio ribadito nelle carte costituzionali, nonostante questo, «le disuguaglianze di fatto che si originano dalle disparità economiche sono rafforzate» da molte altre cause. Infatti ci troviamo di fronte a disparità di «genere, dall’appartenenza etnica, dall’età, in un sistema complesso in cui status ascritti e acquisiti definiscono le opportunità di vita di ciascuno»[34]. Le conseguenze sulla vita degli individui sono sempre più dure e si registra un ritorno ad una forte rigidità sociale, perché la persistenza delle diseguaglianze sembra, come in anni che sembravano molto lontani, essere dovuta più che alle capacità personali alle possibilità di avere risorse economiche, culturali e relazionali di origine famigliari e sociali preesistenti.

Nel periodo antistatalista del predominio culturale ed economico neoliberista la ricerca della scienza economica ha guardato solo alla crescita dell’economica e non alla distribuzione dei redditi. Tutto ciò ha portato nei «paesi economicamente sviluppati … [ad] un allarmante grado di disuguaglianza. La disoccupazione prolungata, la riduzione dei salari, un crescente accumulo di ricchezza da parte di pochi individui associata ad una  stagnazione dei redditi del resto della popolazione, una scala sociale più ripida e un accesso all’istruzione ostacolato dalle difficili condizioni  finanziarie … la globalizzazione non ha prodotto ciò che prometteva in termini di crescita e uguaglianza tra paesi, e sta influenzando in modo decisivo – e non sempre positivo – i processi economici e distributivi all’interno delle singole nazioni. … [abbiamo più] disuguaglianza economica»[35].

Il problema diventa sempre più grave e potrebbe, in prospettiva, avere gravi conseguenze per il sistema democratico perché «un grado elevato di disuguaglianza economica può compromettere l’uguaglianza politica o rallentare la realizzazione del suo potenziale anche in un regime democratico» figuriamoci in regimi non democratici o autoritari e in giovani democrazie non consolidate. Infatti «Può generarsi una spirale allarmante in cui i processi democratici possono a loro volta rafforzare la disuguaglianza deteriorando la democrazia e producendo poi forme di oligarchia» come sembra che stia realmente accadendo.

Questo è uno dei temi fondamentali da affrontare nel dibattito tra liberalismo inclusivo e socialismo partecipativo. Non si può più eludere «il ruolo che la disuguaglianza gioca nelle democrazie ricche e consolidate, dove la crescente concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi induce grossi timori per la salute delle istituzioni democratiche»[36]. Il grande ideale dell’eguaglianza giuridica si dimostra ampiamente insufficiente in quanto grandi settori della popolazione continuano a essere trattati in maniera fortemente diseguale. I pregiudizi razziali e sessuali sono divenuti autonome identità che hanno prodotto spinte antiliberali come la revisione storica con la cancel culture[37].

Lo storico Massimo Salvadori titola, in un suo importante lavoro, il capitolo dedicato ai nostri giorni: «L’età della globalizzazione e la vittoria delle nuove oligarchie»[38]. Interessante la parte dedicata all’Italia, dove si pone l’interrogativo se, a seguito della grande svolta europea della Next Generation EU, l’Italia riuscirà ad essere parte trainante in un processo politico che porterà, si spera, un cambiamento sostanziale della situazione socioeconomica nazionale.

Naturalmente visto il degrado della realtà italiana non sarà per nulla facile. Il libro è stato scritto da due economisti che pensano a una nuova fase di liberalismo che sia inclusivo per il maggior numero di persone possibili. Ma purtroppo il liberalismo inclusivo, questo è il suo limite, riguarda solo gli aspetti più generali di una nuova fase internazionale per i paesi economicamente avanzati retti da democrazie liberali e, si spera, non più liberiste. La cosa importante della proposta dei sostenitori del liberalismo inclusivo e della democrazia partecipativa è il contrasto con le strategie politico-economiche nazionali neoliberiste (che non rispettano l’inclusività sociale) o etno-nazionaliste[39] (che non rispettano i principi di uno stato democratico di diritto). Essi prevedono per ogni singolo stato una grande varietà di strategie politiche iscrivibili nel vasto genere del liberalismo inclusivo. Infatti la scelta politica richiede altre informazioni e valutazioni relative a circostanze economiche, sociali e culturali proprie del momento storico di ogni paese. Nei prossimi anni ci saranno prove alle quali le democrazie liberali saranno chiamate. 

Questa forma di governo è fragile e tollera male tensioni estreme –dovute a guerre, epidemie, dissesti ambientali, scarsità di risorse essenziali. E’ il frutto di un lunghissimo e drammatico processo storico iniziato in Europa quattro secoli fa e giunto a maturazione solo nel secondo dopoguerra: la democrazia liberale non ha fondamenta culturali in altre parti del mondo e, si è visto, non è assolutamente esportabile. Date queste premesse, malgrado viviamo in un mondo globalizzato e inter-connesso, secondo i sostenitori del liberalismo inclusivo[40] sarà difficile un liberismo che possa riguardare realmente tutti i popoli del globo, tutte le culture e quindi tutte le nazioni.

 Quindi l’idea di una libertà economica inclusiva, che persegua i necessari obiettivi di benessere sociale sembra indirizzata, limitatamente, alle potenziali classi dirigenti del «nostro angolo di mondo» che corrisponde solo ai cosiddetti paesi occidentali. Sinceramente non sono d’accordo perché di fronte alle sfide che ci attendono, il mondo intero ha bisogno di libertà, uguaglianza e partecipazione di tutti gli esseri umani. Dello stesso parere Bauman che ritiene tutto il mondo troppo iperconnesso, tutti dipendiamo dal rapporto con persone che appartengono ad altre culture.

Infatti «La globalizzazione ha raggiunto ormai il punto di non ritorno. Ora dipendiamo tutti gli uni dagli altri, e la sola scelta che abbiamo è tra l'assicurarci reciprocamente la vulnerabilità di ognuno rispetto ad ognuno e l'assicurarci reciprocamente la nostra sicurezza condivisa. Detto brutalmente: nuotare insieme o affogare insieme.

Credo che per la prima volta nella storia dell'uomo l'interesse personale e i principi etici di rispetto e aiuto reciproco puntano nella stessa direzione e richiedono la stessa strategia. Da maledizione, la globalizzazione può perfino trasformarsi in una benedizione: “l'umanità” non ha mai avuto una occasione migliore! Se ciò accadrà effettivamente e si riuscirà a cogliere l'occasione prima che vada perduta è una questione ancora aperta. La risposta dipende da noi»[41]. Dunque le tesi dei sostenitori del liberalismo inclusivo sono indubbiamente interessanti ma sembrano limitate solo al mondo occidentale e alla loro «difesa della democrazia rappresentativa liberale in un contesto di mercato» e sulla «libertà economica intesa come garanzia della proprietà privata e della libertà d’impresa». O meglio ancora sempre incentrate sulla crescita economica[42] come prerequisito di ogni riforma sociale, sul ruolo dello stato nell’economia «diverso e meno diretto di quello esercitato nel periodo del compromesso socialdemocratico» e, ultimo, sul realismo necessario a elaborare strategie politiche nazionali e internazionali cooperative, non demagogiche che abbiano qualche speranza di successo.

La loro insistenza su questi temi, dicevo, può essere senz’altro bene accolta anche da chi simpatizza per culture politiche liberali e democratiche ma non di sinistra. Mi sembra di vedere una dura risposta alle tesi del socialismo partecipativo di Piketty.

 Infatti esplicitamente le criticano «le cui chance di successo sono quasi inesistenti». Invece storicamente possiamo verificare che non il liberalismo ma una forma di socialismo democratico, negli anni Trenta, con il New Deal rooseveltiano e l’esperienza di governo delle socialdemocrazie scandinave mostrarono la validità del paradigma teorico keynesiano, ponendo così le basi per il successo di quello che gli autori chiamano “il compromesso socialdemocratico” degli anni del secondo dopoguerra.

Senza un forte intervento dello Stato non avremmo mai avuto il modello politico e sociale che ha dominato nelle nazioni dell’Europa occidentale e in gran parte del mondo anglosassone, in particolare: Australia, Nuova Zelanda, Canada, durante più di mezzo secolo, questo modello ha associato la crescita economica al progresso sociale e alla lotta alle diseguaglianze. Nonostante le differenze nazionali, gli effetti sostanziali in questi paesi, sono stati un’eccellente qualità della vita, scuole pubbliche e sanità gratuite, relativamente alti salari tutti effetti dovuti anche alla tassazione progressiva[43], specialmente nell’Europa occidentale. Quindi, sia nel New Deal statunitense, sia negli stati del nord e centro Europa, sia nel mondo anglo-sassone in generale dobbiamo indiscutibilmente all’intervento diretto dello stato nell’economia la crescita economica e l’enorme progresso sociale avutosi dopo il 1945 fino all’avvento del neoliberismo.

Un motivo di differenza sostanziale tra liberalismo e socialismo democratico e partecipativo lo troviamo in questa considerazione di Zygmunt Bauman: «Normalmente si misura la tenuta di un ponte a partire dalla solidità del suo pilastro più piccolo. La qualità umana di una società dovrebbe essere misurata a partire dalla qualità della vita dei più deboli fra i suoi membri»[44]. Abbiamo infatti la convinzione che: «Le spese sociali in materia di salute, istruzione e di occupazione sono anche le spese economicamente più produttive, dato che da esse dipendono la tutela e lo sviluppo della produttività, sia individuale che collettiva. Ne è prova non solo la maggior ricchezza dei paesi nei quali, come in Europa, si è sviluppato lo Stato sociale rispetto ai paesi poveri e al loro stesso passato, ma anche nei paesi ricchi, il confronto tra crescita economica negli anni della costruzione dello Stato sociale e la recessione odierna provocata dai tagli alla spesa pubblica e dalla riduzione dell’occupazione messi in atto dalle attuali politiche di austerità [e dalle crisi finanziarie sempre più ricorrenti nel sistema capitalistico odierno]»[45].

Tutti gli investimenti per ridurre le disuguaglianze possono essere orientati «alla formazione e riqualificazione del capitale umano» per avere quindi un «welfare [che] deve essere considerato un investimento sociale»[46]. Naturalmente sarà possibile solo se si daranno a tutte le donne e a tutti gli uomini le stesse parità di chances, quindi se si forniranno i mezzi affinché possano diventare esseri pensanti, per essere individui creativi, capaci di esprimere la propria diversità, comunicandola agli altri.

Tra le pari opportunità vanno considerate come irrinunciabili, nel mondo di oggi, l’istruzione permanente, gratuita per tutti e l’accesso ai mezzi di comunicazione indipendenti. Inoltre vogliamo e dobbiamo sempre ricordare che «La valorizzazione delle risorse umane e sociali è una necessità materiale e un imperativo spirituale»[47]. Ancor di più dobbiamo considerare che se si danno le stesse «Opportunità Senza uguali condizioni di partenza il merito è un inganno … [Bisogna] correggere le condizioni che tendenzialmente determinano la disuguaglianza. …, il rispetto della persona e delle sue potenzialità ha bisogno delle uguali condizioni di partenza, senza le quali il merito è un trucco e la compassione un atto ipocrita per risarcire gli altri di un privilegio che è arduo dimostrare di meritare»[48].

La difficoltà di tenere insieme contesto sociale e familiare (capitale sociale e culturale) con le specificità dei talenti di ciascuno ha spinto i teorici della giustizia sociale a non affidarsi al merito. “Le qualità accidentali della nascita, della ricchezza e della conoscenza”, scriveva John Dewey nel 1916, “tendono sempre a restringere le opportunità di alcuni in comparazione a quelle degli altri”.

In Una teoria della giustizia (1971) John Rawls fissava i principi di giustizia distributiva che dovevano servire a correggere l’”ineguale eredità della ricchezza” e a  togliere potere “alle circostanze, alle istituzioni, e alle tradizioni storiche”. «Il presente di ogni individuo potrà contare come evidenza dei suoi meriti solo se e fino a quando gli accidenti della nascita e della condizione sociale non peseranno sulla formazione delle capacità, sull’espressione dei talenti e infine sulla possibilità di carriera»[49]. Conclude, questo interessante articolo, la Urbinati mettendo in risalto la fondamentale necessità che sia sempre l’uguaglianza di trattamento e di opportunità il principio fondamentale che deve governare la giustizia, non il merito, il quale semmai è una conseguenza di un ordine sociale giusto e di un impegno individuale calibrato e contestualmente competente.

Una visione interessante che viene condivisa dallo studioso di origine indiana, di economia e di morale, A. Sen che sostiene, anche, l’assoluta importanza del ruolo delle istituzioni educative e delle misure pubbliche rivolte alla riduzione delle differenze di reddito e di status, quindi alla valorizzazione del “capitale umano” e della democrazia[50]. Egli ritiene fondamentale che l’economia sia sottoposta alle leggi dell’etica. Sen ritiene la democrazia un “valore universale” perché «la partecipazione politica e sociale ha un valore intrinseco per la vita e il benessere dell’uomo»[51].

La partecipazione attiva è una caratteristica «innata» dell’uomo, in tutte le culture. La democrazia è la forma «compiuta» nella quale la partecipazione è garantita, finalmente, a tutti gli individui. Egli ritiene che la democrazia sia un valore che accomuna tutti i popoli del mondo, infatti, sempre con esempi storici concreti, riesce a dimostrare che elementi fondamentali per la democrazia come la tolleranza, la partecipazione e le diverse forme di democrazia partecipata, diretta, siano state e sono, caratteristiche non solo del mondo occidentale. Molteplici sono gli esempi storici che Sen, porta alla nostra attenzione[52], nella Spagna medioevale, sotto il dominio islamico, nell’India del periodo Moghul, venivano rispettate le libertà religiose: nello stesso periodo nella cristiana Europa medioevale fioriva l’inquisizione, non veniva tollerata nessun’altra religione e pochissime erano le libertà consentite. Molte società non occidentali hanno iscritto nella loro storia e quotidianità esempi di tolleranza.

Chi ritiene, ignorando fatti storici incontrovertibili, che valori come tolleranza, libertà e rispetto reciproco sono «culturalmente specifici» e li attribuisce solo alla civiltà occidentale, non fa che avere un «limite culturale». Chiunque sostiene qualsiasi concezione comunitarista per «giustificare l’autoritarismo» commette un grave errore. «La tesi a favore della libertà e dei diritti politici è una tesi valida in Asia e ovunque»[53].

Sen sostiene che la globalizzazione non è da considerarsi come un fatto nuovo e, tanto meno, un fenomeno di «occidentalizzazione»[54], semmai un continuo influenzarsi reciproco tra le varie culture[55]. La globalizzazione non è un problema in se stessa, essa in economia, nelle scienze, in matematica, nella musica, è qualcosa che arricchisce l’umanità, è un fatto positivo. Il vero problema è l’ineguaglianza, tra i popoli e le persone, nel partecipare e raccogliere i frutti della globalizzazione stessa. In un sistema con una forma democratica di governo e con libertà di stampa garantita non si è mai verificata storicamente una carestia, quindi sostiene Sen, con una vera democrazia il benessere economico diffuso è garantito. Il benessere economico deve essere legato, indissolubilmente, alla giustizia sociale e al rispetto dei diritti della persona.

L’intero percorso intellettuale dell’economista Sen è stato rivolto a risolvere le disuguaglianze economiche e a garantire uno sviluppo economico più omogeneo. Il caso specifico: l’India è la più grande, per numero di abitanti, democrazia al mondo, con cittadini appartenenti a religioni diverse (l’Induista e l’Islamica, spesso in conflitto tra loro), dove, malgrado le enormi differenze di reddito, le regole della democrazia vengono rispettate e il sistema scolastico-universitario riesce a garantire ottimi risultati valorizzando il capitale umano anche se persistono povertà e disuguaglianze. Tutto ciò dimostra che libertà e democrazia portano sicuramente maggiori possibilità per lo sviluppo umano. La proposta di Sen può sicuramente dare indicazioni importanti per il futuro: suscitare nei governanti delle nazioni definite dei valori asiatici[56] che essere solo giganti economici, senza esserlo dal punto di vista “politico”, quindi dal punto di vista della democrazia e del rispetto dei diritti umani[57], non porta ad un futuro tollerabile nella prospettiva della convivenza pacifica tra gli stati, all’interno di ogni stato, nel mondo intero. Gran parte del lavoro di Sen è indirizzato a stimolare la crescita, non solo economica, di una società civile dove la singola persona sia messa in condizione di sviluppare appieno le proprie “capacitabilità” (la traduzione non letterale di capability sarebbe capacità)[58], in collaborazione con gli altri e senza limiti derivanti dalle diseguaglianze sociali[59].  Così la speranza di avere una comunicazione “illimitata e non autoritaria” diventerà realtà in un mondo che sarà sicuramente migliore.

Ma queste opportunità solo con l’intervento legislativo di uno stato democratico e forte, nel senso di istituzioni approvate e sentite rappresentative da tutti, saranno garantite. Abbiamo la necessità di una democrazia, non solo come costruzione giuridica, ma che è soprattutto una costruzione sociale e politica che si basa sulla partecipazione dei cittadini alla vita pubblica, con la consapevolezza che solo così si forma il senso civico, il Patriottismo costituzionale come pensato da Habermas[60].

Con il comune sentire dei diritti fondamentali, della pace, dell’uguaglianza, sia formale che sostanziale, avremo lo sviluppo del senso comune e della consapevolezza degli interessi pubblici che riguardano tutti. Oggi più che mai abbiamo «bisogno di “politica” nel senso forte del termine, perché solo così possiamo promuovere quella cultura comune, quel modo condiviso di rapportarsi alla sfera della convivenza entro uno stesso spazio pubblico (idem sentire de re publica) senza il quale non si costruisce quella che è la base di ogni aggregazione politica … la tensione verso il conseguimento del bene comune»[61].

 A maggior ragione oggi il rispetto della persona umana, nei suoi aspetti economici e sociali deve essere la base della convivenza civile nel mondo di oggi come è stato affermato a partire dalla “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” del 1948 e da tutte le altre, innumerevoli e articolate, che sono seguite fino ad oggi. Interessante mi sembra anche il richiamo fatto da Axel Honneth alle idee socialiste democratiche che hanno portato a «grandi conquiste sociali e politiche» e hanno mostrato che lottare per ottenere diritti è giusto e che cambiare è possibile[62]. Egli mette in evidenza che l’idea di socialismo è attuale e utile mettendola in dialogo con le leggi del mercato e conciliando il profitto con l’emancipazione.

Quindi, il socialismo democratico, è visto come motore per la libertà che si realizza nella appartenenza e nel riconoscimento di «tutti e di ciascuno», una libertà che fa rima con solidarietà, «un’utopia necessaria»[63]. Quindi per potere avere future politiche realmente progressiste «la sinistra dovrà riconciliare le classi popolari di origini diverse, oggi divise, e riconquistare chi non crede più alle promesse sociali ed economiche ma si affida alle misure contro l’immigrazione per cambiare il suo destino. Per farlo servirà un ambizioso programma di ridistribuzione delle ricchezze e un’autocritica sugli errori commessi. Ci vorrà tempo, perché la frattura con le classi popolari viene da lontano. I diversi partiti (France insoumise, ecologisti, socialisti, comunisti eccetera) dovranno superare i loro rancori e ritrovarsi in una nuova federazione popolare, democratica e internazionalista. Non si può criticare il presidenzialismo e poi rifiutare la democrazia interna quando si tratta di scegliere il proprio candidato. Non si può sostenere l’internazionalismo e al tempo stesso limitare la difesa della democrazia alle frontiere nazionali. E bisogna cominciare a lavorarci da subito»[64].

Dobbiamo avere in prospettiva futura la possibilità di una cittadinanza globale che attraverso i suoi rappresentati riesca a controllare i flussi finanziari attraverso diversi vari livelli di Governance. Diventa oggi possibile, almeno immaginare, per diversi motivi dovuti all’evoluzione e alla crisi dello Stato nazionale e al fenomeno multicomplesso della globalizzazione, la nascita di nuovi modelli di cittadinanza inclusiva.

Come l’esempio dell’Unione Europea che dovrebbe dare un impulso straordinario ad altre strutture sovranazionali presenti in vari continenti e subcontinenti, e dovrebbe inoltre portare, in prospettiva, ad una forma di cittadinanza globale basata sul rispetto razionale universale reciproco. In realtà, al momento, date le enormi difficoltà avutesi nell’approvare la Costituzione europea, sarebbe auspicabile che il cammino iniziato con la cittadinanza europea continui e riesca ad evolversi, anche se lentamente, perché i vantaggi concreti per le persone  sono assoluti: uno per tutti, mai in Europa si è avuto un periodo così lungo di pace, tra le maggiori nazioni dell’Europa occidentale; mai una crescita costante aveva permesso la creazione di un sistema di assistenza sociale così evoluto e diffuso. Lo studioso statunitense J. Rifkin elogia il “modello europeo” di sviluppo e di redistribuzione delle ricchezze, della sanità gratuita e delle meraviglie del Welfare state abbastanza diffuso in tutte le nazioni dell’Europa occidentale. Secondo Rifkin: Il sogno americano non c’è più, viste le tante diseguaglianze presenti nella terra delle “possibilità per tutti”, ora la terra dove la qualità della vita è superiore è l’Europa[65].

La nostra Unione Europea, in itinere, dovrà, sempre più, essere un’entità multiculturale con alla base valori fondamentali condivisi. Questi valori, già presenti nelle carte Costituzionali nazionali, sono le nostre istituzioni democratiche, i diritti umani e sociali fondamentali, le responsabilità civiche, la coesistenza pacifica. Esse devono, sempre più, caratterizzare le fondamenta delle “istituzioni comuni”, assieme al rispetto delle differenti culture, lingue e tradizioni. Il modello dell’Unione Europea, malgrado l’enorme deficit di partecipazione popolare[66], sempre più evidente, consiste nella ricerca dell’unità attraverso il rispetto delle reciproche diversità, per questo «ci sembra il modello adeguato ai nostri tempi»[67], il modello basato sui «valori della pluralità riconosciuta e vissuta, che pervadono tutte le istituzioni sociali e i contesti storici»[68].

Un modello europeo che si deve basare, sempre più, sui diritti sociali, senza i quali i diritti di cittadinanza attiva verranno sempre più messi in discussione, sul rispetto degli ideali democratici, perché «senza democrazia l’Europa sarebbe un’Europa senza identità e senza bussola»[69]. Si sta aprendo una nuova dimensione[70], popolata da persone che vivono secondo modalità plurali, sovranazionali, libere di lavorare e andare dove vogliono nel mondo, nel contesto di una cornice globale di rispetto dei diritti, dei doveri e delle norme di convivenza democratica e civile.

 Quindi sappiamo che «L’intero modello economico deve essere ripensato, in modo più equo e sostenibile dopo la pandemia»[71], come sostiene Thomas Piketty. Dare un volto umano alla globalizzazione[72] e fare in modo che la democrazia[73] continui ad essere un sistema politico credibile e partecipato, dipenderà da come risolveremo la questione della diseguaglianza a livello mondiale[74]. Per farlo bisogna partire dal presupposto che le questioni economiche sono fondamentali, troppo importanti, per lasciarle a una piccola minoranza elitaria di specialisti, tecnocrati, manager e dirigenti. I disastri che hanno combinato, i cosiddetti esperti, sono sotto gli occhi di tutti. Quindi, si ritiene fondamentale nella lotta per l’uguaglianza la “riappropriazione di questo sapere [economico] da parte dei cittadini”, di tutti i cittadini nessuno escluso.

[1] «Sono gli anni in cui dalle nostre parti, in Europa e in giro per il mondo, la sinistra conosce un inesorabile destino di perdita e dissipazione. Perdita di popolo e di consenso e dissipazione di culture che sono eredi, nel bene e nel male, di una grande tradizione che sembra ormai irrevocabilmente alle nostre spalle. Per la prima volta nella nostra storia repubblicana una politica populista e sovranista occupa il discorso pubblico e lavora per smantellare la prospettiva di civiltà e di arte della convivenza nella diversità». Secondo Salvatore Veca, c’è un compito difficile ma ineludibile al quale non possiamo sottrarci: «ragionare insieme sulla prospettiva alternativa di una sinistra europea per il ventunesimo secolo»; in S. Veca, Qualcosa di sinistra: Idee per una politica progressista, Milano, Feltrinelli, p. IV di copertina.  

Il rinunciare, nel periodo che va dal 1980 circa ai giorni attuali, a questa sfida ha significato arrendersi a una classe politica disposta a cancellare il principio della pari dignità per tutti e l’impegno a rimuovere gli ostacoli al pieno sviluppo della persona nella libertà e nell’uguaglianza. Ma noi abbiamo ragioni fondamentali contro la trasformazione della democrazia in oligarchia, in dominio della maggioranza, in tirannia populistica delle maggioranze impoverite. Abbiamo ragioni fondamentali contro la demonizzazione del disaccordo e del dissenso, che sono invece il succo della democrazia. Abbiamo ragioni fondamentali contro lo spettro che ritorna e si aggira, dalle nostre parti, di una società fortemente castale, caratterizzata da una insostenibile e crescente e intollerabile forbice delle disuguaglianze economiche e sociali. Ecco cosa ha perso l’umanità in questi anni: l’idea di sviluppo umano come libertà di chiunque, ovunque. Bisogna aprire un dibattito, per ragionare insieme e restituire al presente un futuro disegnato da una nuova visione politica.

Lo sostiene ancora Salvatore Veca: «Sembra che il mantra del ‘non c'è alternativa' sia destinato a dominare i nostri modi di pensare. Non c'è alternativa alle politiche di austerità, al giudizio dei mercati, alla resa al capitale finanziario globale, alla crescita delle ineguaglianze. Non c'è alternativa alla dissipazione dei nostri diritti e delle nostre opportunità di cittadinanza democratica. In nome di un realismo ipocrita, la dittatura del presente scippa il senso della possibilità e riduce lo spazio dell'immaginazione politica e morale. L'esito è un impressionante aumento della sofferenza sociale. Abbiamo un disperato bisogno di idee nuove e audaci, che siano frutto dell'immaginazione politica e morale. Che non siano confinate allo spazio dei mezzi e chiamino in causa i nostri fini», in S. Veca, Non c’è alternativa: Falso!, Roma-Bari, Laterza, 2014, p. IV di copertina .

[2] M. Ricciardi, Il liberalismo che serve all’Italia, Il Sole 24-0re, del 07/11/2021, p. 2.

[3] Sul tema etno-nazionalismo, populismo e autoritarismo nella situazione politica attuale si veda: A. Appalebaum, Il tramonto della democrazia. Il fallimento della politica e il fascino dell’autoritarismo, Milano, Mondadori, 2021, p. 3, «Nell’ultimo decennio il mondo è divenuto protagonista di mutamenti politici, economici e sociali sempre più rapidi, che stanno portando alla creazione di nuove realtà politiche volte a cambiare, o addirittura stravolgere, le regole della democrazia occidentale. Una nuova generazione di élite fautrici di idee illiberali e autoritarie sta ottenendo un crescente consenso tra le masse e, dunque, una maggiore influenza. Oltreoceano, la presidenza di Trump, con il suo «America First», ha infiammato gli animi dei suprematisti bianchi. Guardando all’Europa, Polonia e Ungheria sono oggi governate da due partiti apertamente autoritari. Nel Regno Unito, Boris Johnson si è fatto portavoce di una nostalgia «restauratrice» mirata a rovesciare le odierne istituzioni britanniche e a inculcare un sentimento anti-UE che ha condotto alla Brexit. L’aumento esponenziale della popolarità del partito nazionalista Vox in Spagna ha messo in allerta i più anziani, che avvertono nella sua retorica degli echi franchisti, un richiamo nazionalista da cui neanche l’Italia è immune», con una successiva affermazione a p. 22, «Come vincono i demagoghi».

[4] Incentrato sull’analisi delle democrazie dell’Est europeo un ottimo lavoro da tenere in considerazione è A. Pipino, Nazionalismi. Democrazie illiberali, tentazioni autoritarie e identità nell’Europa centrorientale, Milano, Editrice Bibliografica,2019.

[5] N. Urbinati, Io. Il popolo. Come il populismo trasforma la democrazia, Bologna, Il Mulino, 2020, dove nell’intero capitolo: Dall’antiestablishment all’antipolitica, vengono ben messe in evidenza quelle caratteristiche che portano alle reazioni popolari che facilitano l’affermarsi del populismo: «Il populismo approfitta dello scontento, che è endogeno alla democrazia, nel confronto del dominio esercitato dai pochi che operano nello stato», p. 75; Sull’argomento, con puntuali riferimenti all’intero sistema democratico-costituzionale, con considerazioni riguardanti le garanzie che il diritto deve assicurare a tutti i cittadini, molto interessante il recente contributo di L. Ferrajoli, La costruzione della democrazia. Teoria del garantismo costituzionale, Roma-Bari, Laterza, 2021, che a p. VII introduce molto bene l’attuale situazione: «La democrazia è oggi in crisi anche in paesi nei quali, fino a qualche anno fa, sembrava irreversibile. Le ragioni e i fattori della crisi sono molteplici ed eterogenei: il crollo della rappresentatività e della qualità dei ceti di governo; la crescita delle disuguaglianze e il tramonto, dall’orizzonte della politica, dei principi di libertà e di giustizia; la dislocazione dei poteri politici ed economici che contano fuori dai confini degli Stati nazionali e dai loro controlli politici e giuridici; l’inerzia generale di fronte alle minacce che provengono, al futuro della democrazia, della pace e della stessa abitabilità del pianeta, dallo sviluppo di poteri globali incontrollati e di attività industriali ecologicamente insostenibili», in un altro passo troviamo: «Come dobbiamo concepire, sulla base delle tante carte costituzionali e internazionali dei diritti umani che affollano i nostri ordinamenti, i milioni di morti ogni anno per fame, sete e malattie non curate, vittime della crescita della disuguaglianza e della povertà …», p. 411;

[6] Z. Bauman, Stranieri alle porte, Roma-Bari, Laterza, 2016.

[7] N. Urbinati, Il rapporto tra capitalismo e democrazia. Tassare le ricchezze è l’inizio dell’uscita dal nuovo feudalesimo, in “Domani”, del 16/05/2021, p. 11.

[8] J. Habermas, L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica, Milano, Feltrinelli, 1998, p. 143. Habermas è il grande sostenitore della cittadinanza fondata sul diritto, sui diritti umani, sulla razionalità espressa con la partecipazione attiva potenzialmente illimitata di tutti i cittadini. Scrive De Simone: «il modello habermasiano di sfera pubblica discorsiva si fonda su un’intuizione normativa originaria fondamentale: il pubblico come discorso razionale e come modalità di formazione discorsiva della volontà», in A. De Simone, Destino moderno. Jürgen Habermas. I pensiero e la critica.La metamorfosi del pensiero occidentale, Perugia, Morlacchi, p. 606. Pensare, discutere, informarsi, studiare, riflettere, dibattere pubblicamente, “farsi sentire” nella società e dal Potere, diventano in tal modo le armi di questa politica che deve essere essenzialmente deliberativa, esplicando le due funzioni: l’ordinaria di formare opinione e volontà, la straordinaria con la mobilitazione di potenziali di attenzione collettiva.

[9] J. Habermas, Profili politico-filosofici, Milano, Guerini e Associati, 2000, pp. 282-283.

[10] Ivi.

[11] Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, preambolo.

[12] Piketty, Capitale e ideologia, La nave di Teseo, Milano, pp. 1002-1003.

[13] T. Piketty, Un ballottaggio tra destra ed estrema destra, in “Internazionale”, del 15/04/2022, p. 40; Si veda anche Id. Macron faccia qualcosa di sinistra o la Francia diventerà l’Ungheria, in “La Stampa”, del 14/04/2022, p. 25.

[14] Ivi. P. 898.

[15] Lo stesso partito socialdemocratico tedesco, si distinse per politiche moderate e di austerità, che nel 1998 riuscì a riprendere la guida del governo, alla testa di una coalizione con i Verdi e presentando come candidato alla cancelleria il moderato Gerhard Schröder, fautore di una politica di "nuovo centro" (Neue Mitte), che non si distinse affatto dalle politiche sostenute dai governi precedenti e successivi guidati dai democristiani tedeschi.

[16] Ivi, p. 901, «Dal punto di vista economico e fiscale, l’azione politica di Macron nel 2017-2018 ha visto l’abolizione dell’ISF [imposta sul patrimonio] e la tassazione progressiva sui redditi da capitale: queste misure sono state finanziate con un aumento delle imposte indirette sui carburanti». Piketty insiste sul fatto che esistono ragioni materiali ben precedenti alla crisi economica del 2008 per questo allontanamento della parte più povera della popolazione dalla sinistra: le politiche fiscali e scolastiche in primo luogo (la riduzione delle tasse sugli alti redditi, per esempio, si è tradotta in un aumento delle tasse indirette, che colpiscono i consumatori, quindi penalizzano la parte economicamente più debole della popolazione).

[17] «Le politiche condotte dal PD – in particolare la facilitazione delle procedure di licenziamento (il cosiddetto “Jobs Act”) decisa dal governo Renzi poco dopo l’arrivo al potere, che ha provocato una forte opposizione dei sindacati e grandi manifestazioni (1 milione di persone a Roma nell’ottobre 2014) – hanno contribuito ad aumentare l’impopolarità del partito presso i ceti popolari e i lavoratori delle classi più povere. Il forte sostegno a queste riforme manifestato pubblicamente dalla cancelliera tedesca, la cristiano-democratica Angela Merkel, e la certezza che la loro approvazione in Parlamento sarebbe stata garantita da un accordo implicito tra PD e Forza Italia hanno contribuito a consolidare l’opinione che il partito non avesse più nulla a che fare con le sue origini socialiste-comuniste del dopoguerra». Ivi, p. 993.

[18] In S. Vastano, La sinistra? È un Lifestyle, in “L’Espresso”, del 29/05/2022, p. 76.

[19] Ibidem.

[20] Si vedano in particolare U. Beck,Che cos’è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria, Roma, Carocci, 1999; Id., Conditio Humana.Il rischio nell’età globale, Roma-Bari, Laterza, 2008; Id., Disuguaglianza senza confini, Roma-Bari, Laterza, 2011, in questi lavori Beck descrive due classi sociali separate gli integrati nel mondo globalizzato una classe sempre più composta da poche persone e la stragrande maggioranza della popolazione esclusa da tutto.

[21] Z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Roma-Bari, Laterza, 1999; Id., La solitudine del cittadino gobale, Milano, Feltrinelli, 2000, Dove Bauman sostiene che la società attuale porta l’individuo in uno stato di isolamento e di perenne insicurezza verso il mondo che lo circonda perché non riesce a stare al passo con i cambiamenti frenetici dovuti alla società del consumo sfrenato, della deindustrializzazione e delle nuove tecnologie che tutto controllano. 

[22] Le tesi dell’autrice sono rafforzate dal suo bel saggio di oltre 400 pagine, S. Wagenknecht, Contro la sinistra neoliberale, Roma, Fazi, 2022, l’autrice mette bene in evidenza come la sempre citata espressione liberalismo di sinistra è fuorviante. A guardar bene la corrente che designa non è né di sinistra né liberale, ma contraddice nella pratica l’orientamento di entrambi gli schieramenti; è una sinistra ipocrita, saccente, imborghesita, che si crede detentrice della verità e non ascolta gli elettori che chiedono «equilibrio sociale, regolamentazione dei mercati, maggiori diritti per i lavoratori, welfare state». Temi di cui la sinistra alla moda – come la definisce Wagenknecht – non si occupa più, perché la questione del lavoro è scomparsa dai suoi radar, e la lotta di casse è roba ottocentesca. Insomma questa ristretta élite autodefinitasi di sinistra, che spopola sui media, orienta la sua attenzione su globalismo, europeismo, ambientalismo, temi importanti, per carità. Ma, nella realtà fattuale, se difendi ciecamente la natura, senza curarti dei posti di lavoro di una moltitudine di persone penalizzate dall’ambientalismo radicale, il risultato è che mette la classe operaia in fuga verso destra. È purtroppo un dato di fatto. L’intero pacchetto legislativo sul clima scrive Wagenknecht come «formulato dal governo tedesco… colpisce in maniera sproporzionata i poveri e chi vive nelle regioni rurali», dunque: «Tale maggioranza ritiene… che non valga la pena sostenere l’impegno di Greta Thunberg” (Ivi, pp. 261-262). È solo un esempio di come questa sinistra – ambientalista e attenta solo ai diritti civili – abbia perso di vista i problemi più urgenti dei cittadini (economia, lavoro, occupazione). Perdendo anche i loro voti. Perché questo è il punto: i neoliberali di sinistra non pongono al centro della loro azione problemi sociali ed economici, bensì domande riguardanti lo stile di vita alla moda tra l’élite borghese. Ecco spiegata la crisi elettorale in Germania di una sinistra che non fa più la sinistra e non capisce quanto e fino a che punto l’esperienza di milioni di persone, oggi, “non sia più l’ascesa professionale, ma la caduta sociale o la paura che ciò accada” (Ivi, p. 93). Ecco perché i presunti leader riformisti italiani (da Letta a Renzi a Calenda), non godono del consenso della classe operaia e del ceto più umile: semplicemente perché non lo rappresentano più. Si occupano d’altro. Il libro demolire l’ipocrisia e “la malafede – per dirla con Sartre – di certa borghesia piena di sé” e demistificare la demagogia della loro narrazione: quel parlare di “società aperta”, mentre costruiscono muri tra le classi (si vedano le pp. 163-177); quel parlare di democrazia mentre creano un’oligarchia (Ivi, pp. 322-352); quel predicare la giustizia, mentre negano l’equità sociale e sono subalterni alla finanza.

[23] Articolo 18 della Legge del 20 maggio 1970, n. 300, definita Statuto dei lavoratori, che stabilisce “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori…”.

[24] D. De Masi, La lenta fine della sinistra, in “Il Fatto quotidiano”, del 29/07/ 2022, p. 16.

[25] Ibidem. A questo proposito  i dati sulla gravità della situazione sociale ed economica italiana sono confermati dalla recente pubblicazione del rapporto Caritas 2022: «Tra gli “anelli deboli”, i giovani, colpiti da molte forme di povertà: dalla povertà ereditaria, che si trasmette “di padre in figlio” per cui occorrono almeno cinque generazioni a una persona che nasce in una famiglia povera per raggiungere un livello medio di reddito; alla povertà educativa, tanto che solo l’8% dei giovani con genitori senza titolo superiore riesce a ottenere un diploma universitario», in Rapporto Caritas 2022 su povertà ed esclusione sociale in Italia “L’anello debole”, presentato il 17 ottobre 2022.

[26] R. Sennet, L'uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo nella vita personale, Milano, Feltrinelli, 2001, p. 91.

[27] Il movimento dei gilet gialli o giubbotti gialli, in francesemouvement des gilets jaunes, è un chiaro esempio di grande partecipazione spontanea. Nato come movimento di protesta sui social network nel novembre del 2018 che ha provocato scontri in Francia e con diverse manifestazioni più pacifiche in altre nazioni. Il movimento era nato dalla protesta contro l’aumento dei prezzi del carburante e l'elevato costo della vita, esso sostiene che un onere sproporzionato delle riforme fiscali dei governi sta cadendo sulle classi lavoratrici e medie, specialmente nelle aree rurali e suburbane. I manifestanti chiedevano, in particolare, la diminuzione delle tasse sul carburante, la reintroduzione della tassa di solidarietà sulla ricchezza, tolta dalle politiche economiche neoliberiste del presidente Macron, un aumento dei salari minimi, e l'attuazione di alcuni referendum d'iniziativa dei cittadini, su svariate tematiche. Il simbolo dei gilet gialli è un giubbotto giallo catarifrangente che tutti i motociclisti in Francia devono indossare e che deve essere presente in tutte le auto, da indossare come misura di sicurezza in caso di incidente stradale. Il movimento si è segnalato per le numerose azioni perpetrate dall'ala più radicale, come blocchi stradali, scontri con la polizia, vandalismo su opere architettoniche e devastazione di proprietà private, soprattutto banche e simboli del capitalismo, e, purtroppo, anche beni pubblici. Circa tre milioni, ma si pensa anche a numeri superiori, di persone hanno partecipato alle manifestazioni che sono durate molti mesi e che solo la pandemia del covid, secondo molti osservatori, con le restrizioni relative ha fermato le proteste. Sull’argomento si è espresso Jean Paul Fitoussi, in una delle sue ultime interviste, che ritiene la possibilità di rivolte popolari molto alta: «Ricorda la rivolta dei gilet gialli nella mia Francia? Attenzione perché la brace arde», in A. Caporale, C’è troppa povertà: con la guerra è a rischio anche la pace sociale, in “Il Fatto quotidiano”, del 21/03/2022, p. 9.  Anche le rivolte note come primavera araba, possono essere un esempio di grande mobilitazione di massa spontanea, che in questo caso aveva anche la rivendicazione di maggiore democrazia e del l fatto che le persone non si sentono più ascoltate da chi le governa. Una caratteristica importante, anche come novità, simile alla rivolta francese dei gilet gialli, è stato il massiccio utilizzo dei social network per la comunicazione tra i rivoltosi, infatti non sarebbe stata possibile nessuna rivolta senza i servizi di messaggistica, visto che i mezzi di comunicazione tradizionali erano controllati dai governi contro i quali si manifestava.  Per primavera araba si intende un termine di origine giornalistica, utilizzato per lo più dai media occidentali, per indicare una serie di proteste ed agitazioni cominciate tra la fine del 2010 e l'inizio del 2011. La rivolta iniziò il 17 dicembre 2010, in seguito alla protesta estrema del tunisino Mohamed Bouazizi, il quale si diede fuoco in seguito a maltrattamenti subiti da parte della polizia, il cui gesto innescò l'intero moto di rivolta tramutatosi nella cosiddetta “Rivoluzione dei Gelsomini”. Per le stesse ragioni, un effetto domino si propagò ad altri Paesi del mondo arabo e della regione del Nord Africa. In molti casi i giorni più accesi, o quelli dai quali prese avvio la rivolta, sono stati chiamati giorni della rabbia o con nomi simili. Nel 2011, quattro capi di Stato furono costretti alle dimissioni, alla fuga e in alcuni casi portati alla morte: in Tunisia Zine El-Abidine Ben Ali (14 gennaio 2011), in Egitto Hosni Mubarak (11 febbraio 2011), in Libia Mu?ammar Gheddafi che, dopo una lunga fuga da Tripoli a Sirte, fu catturato e ucciso dai ribelli, con l'aiuto determinante di Stati Uniti e Francia, il 20 ottobre 2011, e in Yemen Ali Abdullah Saleh (27 febbraio 2012).I paesi coinvolti dalle sommosse furono L'Egitto, la Siria, la Libia, la Tunisia, lo Yemen, l'Algeria, l'Iraq, il Bahrein, la Giordania e il Gibuti, mentre ci sono stati moti minori in Mauritania, in Arabia Saudita, in Oman, in Sudan, in Somalia, in Marocco e in Kuwait.

[28] I pericoli per la democrazia sono sempre più evidenti, soprattutto se consideriamo il grande potere degli ultramiliardari, la filosofa Giorgia Serughetti lo ha messo molto bene in evidenza, in questo suo articolo: «Di chi vi fidate di meno? Dei politici o dei miliardari?. Con un sondaggio su Twitter, Elon Musk pone quella che chiama una “vera domanda”, che ha però fin dal principio un suono retorico. Il risultato infatti appare scontato, considerato l’emittente del messaggio: il 76 per cento dei 3,4 milioni di utenti che hanno votato indica i politici come meno degni di fiducia. Se l’eccentrico patron di Tesla non è nuovo a provocazioni via social, l’episodio merita tuttavia qualche attenzione, sia per ciò che rivela del rapporto tra i super miliardari, il potere politico e la moltitudine dei senza-potere, sia per la dimensione massiccia della partecipazione al sondaggio che, anche al netto di possibili profili fake, segnala un pericolo nuovo, persino visto da un’Italia che di uomini ricchi pronti ad aizzare il pubblico contro politici di professione ne ha conosciuti più d’uno. Il tweet esprime la quintessenza dell’antipolitica di una classe proprietaria che dipinge il lavoro di parlamenti e governi come inutile, dannoso e fondamentalmente avverso non solo al proprio interesse ma all’interesse del “popolo” che, sgravato da oneri e imposizioni, sarebbe più libero di perseguire la propria felicità. “La politica è un generatore di tristezza”, scrive Musk in un altro post. Fino a qui, siamo su un terreno che conosciamo. In Italia, Silvio Berlusconi ha lungamente contrapposto la propria abilità di uomo d’impresa all’inerzia dei politici di professione. Però il suo caso, come quello di altri imprenditori milionari che “scendono in campo”, implica ancora il desiderio di partecipare al gioco della politica, conquistare il governo, fino magari a impadronirsi della macchina dello stato; non quello di fare a meno dello stato, o di sostituirsi al suo potere. L’aspetto storicamente inedito dei super ricchi con patrimoni a dodici cifre, quelli di cui parla Riccardo Staglianò nel suo libro Gigacapitalisti (Einaudi), è che “si tratta di privati cittadini in grado di fare cose prima appannaggio solo degli stati”: dalla gestione di scambi a livello planetario alla sorveglianza di massa, fino ai viaggi spaziali. Privati che fanno tutto ciò come privati, senza l’ambizione di conquistare il potere politico. Cosa significa allora «fidarsi» dei miliardari, che non rendono conto a nessuno, più che dei politici che rispondono all’elettorato? Significa vedere nei primi una promessa di felicità, anche se le loro innovazioni paiono lontane anni luce dalla vita e i problemi quotidiani delle persone comuni? E pur sapendo che nella crisi pandemica questi hanno moltiplicato i propri guadagni, mentre milioni di persone regredivano sotto la soglia minima di benessere? Sono domande che trovano risposta solo guardando il rovescio della medaglia, osservando la perdita generale di fiducia in partiti politici che faticano a rappresentare componenti sempre più ampie del demos, e la distruzione del credo nell’uguaglianza che tiene in vita la democrazia. Solo che di queste dinamiche i “gigacapitalisti” come Musk, Jeff Bezos o Mark Zuckerberg non sono spettatori interessati, sono attori. L’informazione tossica delle piattaforme social, l’attentato ai diritti dei lavoratori, il ricatto esercitato verso gli stati, sono solo alcuni dei modi con cui favoriscono la crescita del malessere individuale, insieme alla sfiducia nel collettivo e nella politica. Per questo, come scrive Staglianò, dire che rappresentano una minaccia per la democrazia “non è un’iperbole”. E poiché la loro ambizione è globale, nessuna democrazia può dirsi al sicuro», in G. Serughetti, Il caso Elon Musk. L’antipolitica dei miliardari minaccia la democrazia, in “Domani”, del 30/05/2022, p. 5.

[29] R. Staglianò, Gigacapitalisti, Torino Einaudi, 2022, che già in copertina ci dice in che preoccupante situazione siamo «Bezos, Musk, Zuckerberg e il resto del club degli ultraricchi valgono, da soli, piú di molti Stati. E spesso contano anche di piú. Ma le fortune troppo concentrate non fanno bene né al mercato né tantomeno alla società. È il momento di intervenire, prima che sia troppo tardi» e continua, considerando l’attualità dei nostri giorni, facendo degli esempi: «I ricchi sono sempre esistiti e sempre esisteranno. Ma se quelli di una volta erano megacapitalisti, quelli di oggi sono gigacapitalisti. La pandemia, il periodo piú calamitoso di sempre per i nove decimi dell’umanità, è stata una pacchia per loro. Jeff Bezos ha aggiunto un’ottantina di miliardi di dollari al suo già cospicuo patrimonio. Elon Musk, per un momento, l’ha superato come uomo piú ricco al mondo. La nazione virtuale da due miliardi di utenti fondata da Mark Zuckerberg, se fosse reale, sarebbe la piú popolosa al mondo. Ma il punto non è soltanto la quantità del denaro in sé. È che tale quantità dà a singoli individui un potere che, un tempo, competeva solo agli Stati sovrani. Come si fa a fermare la cavalcata verso nuovi tipi di monopoli di questa manciata di plutocrati che non ambiscono a influenzare solo che cosa compriamo ma anche che cosa pensiamo? Con tasse giuste, leggi migliori, piú diritti ai lavoratori sfruttati e una nuova consapevolezza collettiva. Perché se continui a dire di mangiare brioche a moltitudini senza pane, la storia insegna, di solito non va a finire bene».

[30] Sostiene tutto questo M. Teodori, Integrare Liberalismo E democrazia Assetti politico-sociali. Senza questo binomio non si proteggono le diversità e non si limita il potere delle maggioranze: di qui l’insorgere dei populismi, in “Il Sole - 24 ore inserto domenica”, del 12/06/2022, p. II, l’articolo è tratto dalla recensione al libro di F. Fukuyama, Il liberalismo e i suoi oppositori, Torino, Utet, 2022.

[31] Dall'intervista di Simonetta Fiori, Stefano Rodotà: "Dignità, la parola chiave", in "la Repubblica", 23 luglio 2013, in https://www.repubblica.it/la-repubblica-delle-idee/2013/07/23/news/stefano_rodot-63509800/, visitato il 27 giugno 2022.

[32] Repot Istat, Istituto nazionale di statistica, dove troviamo «Il valore dell’intensità della povertà assoluta - che misura in termini percentuali quanto la spesa mensile delle famiglie povere è in media al di sotto della linea di povertà (cioè “quanto poveri sono i poveri”) - registra una riduzione (dal 20,3% al 18,7%) in tutte le ripartizioni geografiche. Tale dinamica è frutto anche delle misure messe in campo a sostegno dei cittadini (reddito di cittadinanza, reddito di emergenza, estensione della Cassa integrazione guadagni, ecc.) che hanno consentito alle famiglie in difficoltà economica - sia quelle scivolate sotto la soglia di povertà nel 2020, sia quelle che erano già povere - di mantenere una spesa per consumi non molto distante dalla soglia di povertà», p. 2.

[33] Interessanti a questo proposito sono alcuni studi specifici, come M. Franzini, M. Pianta, Disuguaglianze. Quante sono, come combatterle, Roma-Bari, Laterza, 2016, dove si spiega che ci sono: «quattro motori della disuguaglianza: il potere del capitale sul lavoro, l’ascesa di un ‘capitalismo oligarchico’, l’individualizzazione delle condizioni economiche, l’arretramento della politica. L’azione congiunta di questi motori sta cambiando i modi di funzionamento non soltanto del sistema economico ma anche di quello politico: l’economia diventa meno dinamica, la società più ingiusta, la politica meno democratica», a p. IV; Dello stesso tenore, con particolare riferimento alle disuguaglianze dei redditi tra tutti i cittadini del mondo, che documenta l’elevata e crescente disuguaglianza al tempo della globalizzazione, il testo di B. Milanovic, Mondi divisi. Analisi della disuguaglianza globale, Milano, Bruno Mondadori, 2007.

[34] M. S. Perra, Forme e pratiche delle disuguaglianze sociali, Milano , Guerini, P. IV di copertina.

[35] M. Alacevich, A. Soci, Breve storia della disuguaglianza, Roma-Bari, Laterza, 2019, p. 99.

[36] Ivi, p. 100.

[37] Secondo il dizionario Treccani on line «Atteggiamento di colpevolizzazione, di solito espresso tramite i social media, nei confronti di personaggi pubblici o aziende che avrebbero detto o fatto qualche cosa di offensivo o politicamente scorretto e ai quali vengono pertanto tolti sostegno e gradimento». Il termine si è diffuso a partire dal 2017 dal cosiddetto Black Twitter (una comunità informale su Twitter composta per lo più da utenti afroamericani) e definiva inizialmente lo "smettere di dare supporto a una determinata persona" con mezzi come il "boicottaggio" o la "mancata promozione" delle sue attività. Ciò nel tentativo di danneggiare anche economicamente quella persona, giudicata moralmente o socialmente deprecabile. Questa locuzione si è rapidamente estesa a tutti quegli ambiti di revisionismo e della moderna iconoclastia che chiedono a vario titolo la rimozione di monumenti, riconoscimenti e toponomastica e in generale all'azione del politicamente corretto. Nel 2020 il linguista Noam Chomsky ha riconosciuto l'esistenza della “cultura della cancellazione”. Anche in questo senso in Italia la locuzione è utilizzata per lo più come «termine ombrello in cui troviamo l'iconoclastia, la censura preventiva degli editori, le polemiche sulle favole», o anche «Vuol dire "l'atteggiamento all'interno di una comunità che richiede o determina il ritiro del sostegno a un personaggio". Vale a dire una forma di ostracismo, o boicottaggio, di un personaggio che, per esempio, ha espresso opinioni razziste o è accusato di molestie sessuali,  si veda  P. R. AdragnaCancel culture, che cos'è davvero la "cultura della cancellazione", In “La Repubblica”, del   09/06/2021,https://www.repubblica.it/cronaca/2021/06/11/news/cancel_culture_le_parole_per_dirlo-304598775/.Per converso, chi ne contesta il valore euristico sostiene che il sintagma "cancel culture" rende più difficili le conversazioni complesse, raggruppando varie situazioni sotto un unico termine, in Jonah E. Bromwich, Why ‘Cancel Culture’ Is a Distraction, A reporter’s last thoughts before putting the phrase to rest, New York Times, Aug. 14, 2020, che prosegue: «sono ancora interessato alla varietà di modi in cui i social media stanno cambiando il comportamento sociale. Ma la frase cancel culture è troppo vaga: una distrazione da un esame più approfondito del potere nella società».

[38] M. L. Salvatori, Democrazia. Storia di un’idea tra mito e realtà, Roma, Donzelli, 2015, pp. 453-481.

[39] Come spiega René Girard, quando si determina una crisi sociale, i soggetti, spaventati, si raccolgono in gruppi identitari e, non avendo gli strumenti per capire le ragioni del malessere vissuto, né di conseguenza potendo agire per contrastarne le cause, tendono ad incolpare in modo indifferenziato coloro che, per qualche ragione, sembrano essere particolarmente nocivi e, sviluppando nei loro confronti un crescente risentimento, ne fanno «un capro espiatorio» in R. Girard, Il capro espiatorio, Milano, Adelphi, 2001. Nei singoli Stati abbiamo, sempre più, strati di popolazione che si sentono minacciati da continui cambiamenti che arrivano da lontano e generano una precarizzazione diffusa. Specialmente coloro che hanno un basso livello di qualificazione (bassi salari, poca istruzione, etc.) si sentono più direttamente minacciati. Essi così cercano i responsabili della crisi tra quelli che ritengono essere gli autori: immigrati in primo luogo si veda Z. Bauman, Stranieri alle porte, Roma-Bari, Laterza, 2016, ma anche altre categorie sociali considerate borden line sospettate di qualsiasi misfatto.

[40] N. Dilmore, M. Salvati, Liberalismo inclusivo. Un futuro possibile per il nostro angolo di mondo, Milano, Milano, Feltrinelli, 2021.

[41] Zygmunt Bauman (a cura di Benedetto Vecchi), Intervista sull’identità, Roma-Bari, Laterza, 2003, pp. 100-101.

[42]  Sembra sempre più difficile avere una crescita economica che sia diffusa all’intera società perche abbiamo un sistema capitalistico dove: «la ricchezza è sempre meno la risultante di processi competitivi e della cosiddetta “distruzione creatrice” di Joseph Schumpeter e sempre più legata alle rendite monopoliste, protezione alla concorrenza e bolle immobiliari e finanziarie», in E. Occorsio, S. Scarpetta, Un mondo diviso. Come l'Occidente ha perso crescita e coesione sociale, Roma-Bari, Laterza, 2022, p. 59; In concetto di distruzione creatrice, anche riferito come “Schumpeter’s gale”, è (secondo l’economista di origine austriaca Joseph Schumpeter, che lo derivò dal lavoro di Karl Marx) una teoria dell’innovazione economica e del ciclo economico secondo la quale il «processo di mutazione industriale rivoluziona continuamente la struttura economica dall’interno, distruggendo incessantemente quella vecchia, creandone incessantemente una nuova»,  si veda, per tutti i riferimenti: J.A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia, Milano, Etas, 2001.

[43] Nel caso Italiano lo prevede esplicitamente l’articolo 53 della Costituzione nel quale si sostiene che l’imposta che i cittadini, anche apolidi e stranieri, sono tenuti a versare è proporzionale all’aumentare della loro possibilità economica. In altre parole, l’imposta cresce con il crescere del reddito. Il rilievo del criterio di progressività risiede nel gravare sulle classi sociali più abbienti così da poter soccorrere e sostenere le classi sociali in difficoltà, garantendo i diritti e i servizi sociali fondamentali quali la pubblica istruzione, l’assistenza sanitaria, la previdenza sociale e l’indennità di disoccupazione, criteri sui quali si basa, o si dovrebbe basare, lo Stato Sociale Italiano. L’articolo 53 della Costituzione, che difende il dovere di concorrere alle spese pubbliche, richiama senza dubbio gli articoli fondamentali 2 e 3 della Costituzione, i quali manifestano il principio di solidarietà e di eguaglianza di tutti i cittadini nello Stato Italiano. Come nella Costituzione Italiana anche in altre Costituzioni europee vengono esplicitamente richiamati questi importanti principi.

[44] Z. Bauman, Homo consumens. Lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli esclusi, Trento, Erickson, 2007, p. 93.

[45] L. Ferrajoli, La democrazia costituzionale, Bologna, Il Mulino, 2016, p. 94. 

[46] C. Trigilia, Stare al passo coi tempi. Il capitalismo democratico è vivo ma deve sconfiggere le disuguaglianze, in “Domani” del 27/03/2022, p. 12.

[47] L. Corchia, La democrazia nell’era di Internet Per una politica dell’intelligenza collettiva Con un saggio inedito di Pierre Lèvy, Firenze, Le Lettere, 2011, p. 127, proseguendo la lettura nella stessa pagina troviamo l’interessante citazione di Pierre Lèvy che ci parla di legame sociale: «l’arte di far vivere collettivi intelligenti e di valorizzare al massimo la diversità delle qualità umane», in P. Lèvy, Cyberdemocrazia. Saggio di filosofia politica, Milano, Mimesis, p. 24, ritenendo che Il “progresso” di cui parla Lèvy non può che essere anche morale nel senso dell’allargamento degli orizzonti esistenziali e dell’accrescersi della potenza umana: «questo progresso morale non deve essere inteso nel senso stretto di un avvicinamento asintotico ad un polo fisso del “bene”. Al contrario l’accrescersi della potenza umana, allargando il nostro campo di azione, ci permette di intravedere costantemente dei nuovi orizzonti di senso che richiedono da parte nostra il rimettere in discussione le vecchie categorizzazioni e di esercitare pienamente la nostra capacità di discernimento. Essendo un processo di creazione, il progresso morale implica che noi forgiamo costantemente degli strumenti di orientamento etico adattati a spazi di significato sempre più vasti ed a conflitti di valori sempre più numerosi e più complessi», Ibidem.

[48] N. Urbinati, La favola bella della meritocrazia che giustifica le disuguaglianze, in “Domani”, del 12/06/2022, p. 11, La Urbinati, dimostra la necessità delle pari opportunità, continua a chiarirlo nel suo articolo «Alla metà degli anni Sessanta, il presidente degli Stati Uniti Lyndon B. Johnson … raccontò questa storia per giustificare i suoi programmi pubblici di giustizia sociale: immaginiamo una gara di velocità tra due persone che partono dallo stesso punto, ma una delle quali con dei lacci alle caviglie che le impediscono di usare interamente le proprie forze, cosicché dopo pochi metri si troverà in irrimediabile svantaggio. Si può ignorare questa differenza di capacità nel giudicare il merito del vincitore? Evidentemente no. In questo caso infatti il vincitore non ha merito, semmai gode di un privilegio. Perché ci sia una gara effettivamente gareggiata occorre rimuovere gli ostacoli che limitano uno dei due competitori, e lo si può fare in tre modi: o si libera la persona impedita a gara cominciata e si finge che ci sia giusta competizione (si accetta il privilegio); o si dà a chi è oggettivamente impedito un vantaggio a gara cominciata (programmi di aiuto ai bisognosi); o si offrono opportunità a tutti i gareggianti prima che la gara cominci (politiche di giustizia sociale). Tre soluzioni molto diverse che la favola bella della “meritocrazia” nasconde. Non ci può essere merito meritato se alcuni partono avvantaggiati o se non si correggono le disuguaglianze di opportunità di accesso e poi non si monitora la formazione, strada facendo, di nuove disuguaglianze. Se si cancellano le tasse di successione o si allentano i sistemi di tassazione progressiva sui redditi, parlare di merito assomiglia a un bluff», Ibidem.

[49] Ibidem.

[50] A. K. Sen, Lo sviluppo e la libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia, Milano, Mondadori, 2000; Id., Etica ed economia, Roma-Bari, Laterza, 1988.

[51] A. K. Sen, Globalizzazione e libertà, Milano, Mondadori, 2002.

[52] A. K. Sen, La democrazia degli altri. Perché la libertà non è un’invenzione dell’occidente, Milano, Mondadori, 2004.

[53] A. K. Sen, Laicismo indiano, Milano, Feltrinelli, 1998, p. 165.

[54] A. K. Sen, Globalizzazione e libertà, Milano, Mondadori, 2002.

[55] Tesi sostenuta dal filosofo tedesco P. Sloterdjk, L’ultima sfera. Breve storia filosofica della globalizzazione, Roma, Carocci, 2002.

[56] Sen si rivolge in modo particolare ad alcune nazioni non occidentali (asiatiche e africane), dove oggettivamente esistono sensibilità e tutela dei diritti delle persone molto diversi dal nostro modo di vedere e considerare: si tratta dei cosiddetti “valori asiatici”. L’atteggiamento di queste nazioni sulla questione del rispetto dei diritti umani e sociali - si veda in particolare la “Dichiarazione di Bangkok (1993), ratificata da alcune nazioni del Sud-est asiatico (come Cina, Taiwan, Malesia, Singapore) - è indicativo di una grande diversità, giustificata con argomentazioni comunitaristiche, nei confronti della stragrande maggioranza degli Stati occidentali. Il carattere paternalistico di questa concezione di “valori” è evidente: il volere affermare il potere di pochi in una “società ben ordinata” per comprimere i diritti dei singoli, per limitare al massimo la possibilità di manifestare dissenso verso l’autorità costituita, qualsiasi autorità, quella del presidente di Taiwan, paese capitalista, come quella della repubblica popolare Cinese “comunista”. Nelle istituzioni politiche formali, Lee Kuan Yew, ideatore politico dei “valori asiatici” ex presidente di Singapore, sostiene che «il “modello” occidentale è stato il più delle volte accettato per motivi di carattere storico e politico, finendo per costruire una “sovrastruttura” di facciata, il cui ruolo è quello di garantire al Paese una posizione non subordinata in ambito internazionale. Quindi abbiamo solo una “facciata”, utile per garantire le alleanze internazionali, l’appartenenza alle organizzazioni internazionali, in primis L’ONU e, quello che più conta, il poter esportare, senza problemi, in tutto il mondo i propri prodotti. Merci estremamente competitive sui mercati mondiali perché prodotti con la manodopera che non sciopera, disciplinata, con salari molto più bassi, specialmente al confronto con quelli delle nazioni occidentali e orari di lavoro molto più lunghi e flessibili. Abbiamo una miscela che non conosce rivali un sistema economico capitalistico che viene applicato, in queste nazioni, dalle “società ordinate”, dove i diritti soggettivi e sociali non sono “culturalmente” riconosciuti. Le obiezioni riguardano “il taglio individualistico dei diritti umani”. Lo stesso atteggiamento dei suddetti paesi asiatici viene sostenuto da alcuni Stati africani che, facendo riferimento alle culture parentali e tribali non concepiscono i diritti della persona e le uguaglianze sociali come nella concezione occidentale.

[57] Il Tema viene ben introdotto in M. Gilardi, Singapore: Quale democrazia. Influenza esterna e valori asiatici nel processo di formazione di un modello democratico, Cagliari, La Riflessione, 2006, nelle dominanti dinamiche politico-economiche dei giorni nostri ricorre, con forza e veemenza crescente, il dibattito sulla relazione tra la cultura occidentale e le "culture altre". In quest'analisi si evidenzia come esportare un modello politico democratico liberale e partecipativo, tendenzialmente includente nella gestione del potere, di innegabile matrice occidentale, in aree del mondo caratterizzate da un sostrato proprio, conosciuti come ad esempio i valori asiatici, con particolarità e differenze, e da caratteri di assoluta unicità, sia, quanto meno, di difficile realizzazione. Infatti vengono fatti gli esempi paradigmatici di Singapore e del Giappone, che dimostrano come i valori propri di una cultura non siano forzosamente, in toto, modificabili dall'esterno. Quindi mettendo bene in evidenza come più che esportare o adattare sia il caso di pensare come i popoli non occidentali possano cercare, in autonomia e nel rispetto dei diritti umani fondamentali inventare un loro sistema partecipativo democratico.

[58] «Approccio delle capacità» è la formulazione con cui, a partire dalla Tanner Lecture del 1979, (trad. it., in A. Sen, Scelta, benessere, equità, Bologna, Il Mulino, 1986),  compare per la prima volta quest’espressione con la quale viene comunemente caratterizzata la proposta normativa sostenuta da Amartya Sen. Un assetto sociale o una determinata politica pubblica sono tanto migliori quanto più consentono agli individui di avere maggiori capacità di conseguire funzionamenti di valore: «l’approccio della capacità – dice Sen – è fondamentalmente attento all’identificazione degli oggetti di valore e concepisce lo spazio di valutazione in termini di funzionamenti e di capacità di funzionare», in Id., La diseguaglianza. Un riesame critico, Bologna, Il Mulino, 1994, p. 68; «la scelta fra diversi assetti sociali deve essere influenzata dalla loro attitudine a promuovere le capacità umane», in A. Sen, La libertà individuale come impegno sociale, in AA. VV, La dimensione etica nelle società contemporanee, Torino, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, 1990, p. 34; poi Id., La libertà individuale come impegno sociale, Roma-Bari, Laterza, 1997.

[59] A. K. Sen, Il tenore di vita. Tra benessere e libertà, Venezia, Marsilio, 1993; Id., La libertà individuale come impegno sociale, Roma-Bari, Laterza, 2003.

[60] Il patriottismo costituzionale (in tedesco: Verfassungspatriotismus) è l'idea che le persone possono formare un sentire comune e solidarietà reciproca sia in senso etico che politico alle norme e ai valori di una costituzione pluralista democratica liberale, con diritti sociali riconosciuti e di alta qualità, piuttosto che una cultura nazionale etnica. È associato all'identità post-nazionalista perché basato sui valori della costituzione, del reciproco riconoscimento anche nelle diversità, piuttosto che su una cultura nazionale. In sostanza, si tratta di un tentativo di ri-concettualizzare l'identità di gruppo con un focus sull'interpretazione della cittadinanza come una lealtà reciproca che va oltre l'identificazione etnoculturale degli individui. Habermas, maggiore teorico, e i sostenitori di questo concetto ritengono che ciò sia più difendibile rispetto ad altre forme di impegno condiviso in uno stato moderno diversificato con più lingue e identità di gruppo. Infatti diventa particolarmente rilevante negli stati democratici post-nazionali in cui coesistono più gruppi etnici e culturali. Fu influente nello sviluppo dell'Unione Europea e una chiave per l'europeismo come base per più paesi appartenenti a un'unione sovranazionale. In tutti gli Stati democratici di diritto, in cui si è avuto il passaggio dalla nazione di popolo alla nazione di cittadini, grazie allo sviluppo di un comune riconoscimento nella costituzione questo è il pensiero di Habermas, come ricostruito in M. Ampolla, L. Corchia, Dialogo su Jürgen Habermas. Le trasformazioni della modernità, Pisa, 2007, 263; il testo di riferimento rimane: J. Habermas, Die Einbeziehung des Anderen, (trad. it. a cura di L. Ceppa), L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica, Milano, Feltrinelli, 2002².

[61] P. Pombeni, Lo stato e la politica. Quando contano nel mondo globale di oggi, Bologna, Il Mulino, 20202, p. 165.

[62] A. Honneth, L’idea di socialismo. Un sogno necessario, Milano, Feltrinelli, 2016.

[63] S.Rodotà, S., Solidarietà un’utopia necessaria, Roma-Bari, Laterza, 2014.

[64] T. Piketty, Un ballottaggio tra destra ed estrema destra, in “Internazionale”, del 15/04/2022, p. 40, Il riferimento di Piketty è, evidentemente, alla politica francese ma in prospettiva lui auspica una sinistra internazionalista e democratica e socialista a livello internazionale.

[65] J. Rifkin,  Il sogno europeo, Milano, Mondadori, 2004.

[66] J. Habermas, (2012), Questa Europa è in crisi, Roma-Bari, Laterza, 2012; Id., Il ruolo dell’intellettuale e la causa dell’Europa, Roma-Bari, Laterza, 2011.

[67] J. Habermas, Nella spirale Tecnocratica. Un’arringa per la solidarietà europea, Roma-Bari, Laterza, 2014.

[68] U. Beck, (2010), Potere e contropotere nell’età globale, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. II. Malgrado il grande valore della pluralità democratica delle nostre società, Beck ritiene che i pericoli tipici della nostra società del rischio non possono essere considerati mere conseguenze collaterali dei parziali fallimenti della modernità che il complesso istituzionale e burocratico dello Stato moderno è chiamato a controllare, essi sono gli effetti stessi dei successi della modernità. In particolare lo sviluppo tecnologico avrebbe in sostanza raggiunto una soglia oltre la quale le strutture politiche, giuridiche ed economiche deputate a controllare e compensare gli effetti collaterali della manipolazione dell’ambiente da parte dell’uomo risultano inefficaci. Nella società del rischio l’idea stessa che guidava la modernità, vale a dire l’idea della controllabilità degli effetti collaterali e dei rischi prodotti dalle decisioni dell’uomo è entrata in crisi, diventando di non facile controllabilità.

[69] L. Canfora, L., (2017), La schiavitù del capitale, Bologna, Il Mulino, 2017, p. 111.

[70] S. Benhabib, Cittadini globali. Cosmopolitismo e democrazia, Bologna, Il Mulino, 2008.

[71] Articolo pubblicato su Le Monde, Thomas, Piketty : « L’urgence absolue est de prendre la mesure de la crise en cours et de tout faire pour éviter le pire », Face à la crise sanitaire due au coronavirus, l’urgence est de créer une fiscalité plus juste afin de pouvoir mettre à contribution les plus riches et les grandes entreprises autant que nécessaire, estime l’économiste dans sa chronique au « Monde », sito visitato il 07/04/2022: lemonde.fr/idees/article/2020/04/10/thomas-piketty-l-urgence-absolue-est-de-prendre-la-mesure-de-la-crise-en-cours-et-de-tout-faire-pour-eviter-le-pire_6036282_3232.html.

[72]  In un «mondo [che] è sempre più interconnesso. I confini territoriali, statali, economici, sociali e culturali continuano a sussistere, ma non coesistono più. L’aumento di intrecci e interazioni al di là delle frontiere nazionali, empiricamente ben documentato, impone la “rimisurazione” della diseguaglianza sociale», in U. Beck, Disuguaglianza senza confini, Roma-Bari, Laterza, 2011, p. 15.

[73] Il tema della democrazia effettiva e partecipata è sempre in primo piano nel pensiero di Piketty, anche il modo migliore per contrastare il capitalismo selvaggio: «Ma, a mio avviso, se si vuole riprendere davvero il controllo del capitalismo, non esiste altra scelta se non quella di scommettere fino in fondo sulla democrazia», in Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Milano, Bompiani, 2013, p.842.

[74] T. Piketty, Una breve storia dell’uguaglianza, Milano, La Nave di Teseo, 2021, pp. 242 e ss.

*PUBBLICATO SUGLI ANNALI DI “RIVISTA PERSONA, PERIODICO INTERNAZIONALE DI STUDI E DI LETTURA”, ANNO 2022, PRIMO VOLUME, PP. 65-88.

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