Massacro a Gaza: quale ruolo per il diritto internazionale? Intervista all’Ambasciatore Haissam Bou-Said (IHRC)

Massacro a Gaza: quale ruolo per il diritto internazionale? Intervista all’Ambasciatore Haissam Bou-Said (IHRC)

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di Alessandro Bianchi

 

Si rimane basiti, impotenti, esterrefatti dinanzi le immagini del massacro israeliano a Gaza. Come l’AntiDiplomatico ci sentiamo così. Recentemente la relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati, Francesca Albanese, ha coniato il termine secondo noi perfetto di “ground zero dell’umanità”.  

Dal 7 ottobre sono morti 12 mila civili palestinesi (tra questi 5 mila bambini), ci sono oltre 1 milione e 600 mila sfollati nella parte settentrionale della striscia e le persone hanno iniziato a bere l’acqua del mare per il criminale e disumano blocco dello stato di Israele. Dinanzi alla portata di questa catastrofe umanitaria senza precedenti, resta il dato oggettivo dell’impotenza del diritto internazionale e degli organismi preposti a porre un freno a quello che molti giuristi ed esperti del diritto internazionale hanno qualificato come un genocidio in fieri, una pulizia etnica da manuale.

Abbiamo avuto l'onore di discutere di tutti questi temi con l’Ambasciatore Haïssam Bou Said, alla guida dell'ufficio amministrativo della Commissione internazionale dei diritti umani delle Nazioni Unite con sede a Ginevra.

 
L’INTERVISTA


Ambasciatore, le immagini che arrivano da Gaza sono strazianti. Il numero dei bambini morti dagli attacchi israeliani ha superato cifre difficili solo da commentare. Il direttore dell’Ufficio di New York dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani dell’Onu, Craig Mokhiber, nel comunicare  le sue dimissioni con una lettera recente ha affermato che quello in corso è “un genocidio da manuale”. E’ d’accordo con questa definizione?

Si certo che sono d'accordo. Tra l'altro non sono certo l'unico a descrivere in questo modo quello che sta accadendo a Gaza. Un gran numero di funzionari della sicurezza e delle organizzazioni internazionali che seguono da vicino il corso di questa dolorosa vicenda e di questi crimini sostengono apertamente che equivalgono a un genocidio, a pulizia etnica e all'allontanamento di un intero popolo dalle proprie radici e dalla propria terra. E questo lo ha sostenuto anche il signor Mokhiber, ma mi è dispiaciuto che si sia dimesso, avrei preferito che non lo avesse fatto. Su Twitter ho scritto un commento al riguardo, gli ho chiesto apertamente di ritirare le sue dimissioni per continuare a lottare insieme e realizzare dall’interno ciò che è giusto, non importa quanto sia difficile il suo percorso. Tutti noi stiamo subendo enormi pressioni.


La “Commissione internazionale indipendente di Inchiesta sui Territori Palestinesi Occupati, inclusa Gerusalemme Est, e Israele” creata dal Consiglio dei diritti umani di Ginevra ha presentato lo scorso maggio il suo primo rapporto durante la 50esima seduta ordinaria del Consiglio Diritti Umani. La maggior parte delle raccomandazioni riguardanti le ragioni alla base del conflitto sono indirizzate ad Israele, a riprova dell’asimmetria del conflitto e come dimostrazione concreta che la situazione è caratterizzata da uno Stato che ne sta occupando un altro. Ritiene che i media internazionali stiano comunicando correttamente questo messaggio delle Nazioni Unite sulla natura del conflitto in corso in Palestina?

In tutta franchezza, non possiamo certo affermare che ci sia un effettivo impegno da parte dei media a diffondere quanto espresso dalle Nazioni Unite sulla vicenda, in particolare per quel che riguarda i diritti umani. Se analizziamo le ragioni effettive nei vari organi di informazione, possiamo dire che alcuni di essi hanno una propria agenda, politica o economica o sociale, da portare avanti. Altri ragioni personali. Altri rispecchiano il pensiero intellettuale dei loro capi redattori. Per il fine di una corretta informazione sulle risoluzioni delle Nazioni Unite relative ai diritti umani,  abbiamo istituito un'agenzia specializzata che si chiama “International Rights, International News for Human Rights”, registrata presso le Nazioni Unite e presso alcuni ministeri dell'Informazione in tutto il mondo.



E’ noto come le raccomandazioni ricevute in passato da Israele dalle Nazioni Unite siano state largamente ignorate. Il fatto che la comunità internazionale di fatto tolleri quest’impunità ha generato un senso di totale impotenza nella popolazione palestinese. Lei crede che si possa veramente arrivare alla fine dell’occupazione israeliana e del conflitto seguendo il diritto internazionale? Quali possono essere gli strumenti della comunità internazionale per sanzionare le violazioni palesi e ripetute di Israele?

Violazioni. Ha usato il termine giusto. Oggi possiamo affermare con certezza che c'è un netto allineamento di alcuni Paesi che si schierano a fianco dell'entità israeliana senza accettare che questa sia chiamata a rispondere dei crimini che sta commettendo, non importa la loro atroce portata. Il violare impunemente le leggi e le costituzioni internazionali non comporta reazioni dai paesi alleati di Israele. E questo è il problema principale di tutta la crisi. Ritengo che il percorso delle soluzioni legali sia il sentiero da percorrere per costringere Israele ad accettare la soluzione legale e rispondere dei propri crimini. È pacifico come la maggior parte di queste soluzioni sarà in netto contrasto con le sue politiche espansionistiche e coloniali. Ma su questo dobbiamo essere estremamente chiari, ci sono due vie percorribili: la soluzione diplomatica o quella militare. Essendo totalmente contrario a quest'ultima e aver basato tutta la mia vita alla ricerca di quelle diplomatiche, sono favorevole ai mezzi di persuasione attraverso la pressione popolare. Ritengo che questo debba essere quello il sentiero cui muoversi per costringere lo stato di Israele ad accettare quanto sancito dal diritto internazionale.


Il presidente algerino Abdelmadjid Tebboune ha invitato "i difensori dei diritti umani a portare l'occupazione israeliana davanti alla Corte penale internazionale per i crimini che sta commettendo contro i palestinesi di Gaza". E’ una strada percorribile?

Se si prepara il terreno politico e popolare di cui parlavo prima è una strada percorribile, ma richiede un lavoro politico importante che richiede pazienza, saggezza e un confronto oggettivo per raggiungere l’obiettivo di far rispondere Israele dei suoi crimini. L’alternativa sarà il caos, con le risoluzioni delle Nazioni Unite che fungeranno da carta straccia.

 

Crede che la soluzione dei due stati e due popoli sia ancora quella corretta o ritiene più attuabile, come sempre più commentatori, quella di un unico stato totalmente laico?

Per rispondere vorrei richiamare la vostra attenzione sul fatto che tutti gli accordi internazionali di riferimento si basano su questo principio. Abbiamo la Risoluzione 181 delle Nazioni Unite del 1947, che ha diviso la Palestina in tre parti. Una prima parte era lo Stato ebraico, la seconda quella araba e una terza internazionale. Abbiamo i dibattiti e i negoziati nel 1993, che si sono conclusi con una firma nel 1995 tra entrambe le parti - che non hanno partorito nessun risultato concreto per l’assenza di buona fede nell’applicazione. Se volete la mia opinione personale, credo che non ci sia oggi altra soluzione a quella dei due Stati. Perché agire al di fuori di questa logica significa proporre soluzioni estremiste o che richiedono un lavoro di negoziazione da zero al momento irrealizzabile. E quello che assistiamo oggi è proprio il trionfo di un linguaggio di odio e discriminazione in entrambe le comunità e in entrambe le società. Abbiamo un gruppo di lavoro nel Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, di cui sono membro, che è il gruppo di lavoro sulla discriminazione, l'odio e la xenofobia e siamo molto preoccupati per i messaggi che provengono da Israele. Assistiamo a qualcosa di estremamente rischioso che deve essere debellato con l’intervento degli organismi delle Nazioni Unite o dalle organizzazioni internazionali accreditate. Le istituzioni esistono, ma devono essere messe in grado di poter attuare le norme esistenti.

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