Nell'Unione Europea vince e vincerà sempre Apple

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di Andrea Zhok*
 

Ieri il tribunale UE ha annullato la decisione della Commissione Europea che aveva imposto all'Irlanda di farsi restituire dalla Apple 13 miliardi di imposte non riscosse.

La mossa della Commissione era volta a limitare la competizione fiscale suicida che si sta svolgendo da tempo nell'Unione Europea, dove, per poter avere il privilegio di ospitare aziende internazionali, capaci di portare posti di lavoro, alcuni paesi come l'Irlanda hanno sostanzialmente eliminato ogni tassazione per le multinazionali (le tasse annue pagate dalla Apple in Irlanda ammontavano allo 0,01% dei ricavi.)

Anche ai meno brillanti (purché non siano economisti di professione) non sfugge che una concorrenza fiscale al massimo ribasso, tra paesi appartenenti ad un medesimo mercato, finisce tendenzialmente per schiacciare gli introiti da tassazione sempre più verso il basso, fino a rendere uno Stato incapace di operare.

Esempi di 'stato minimo' con tassazioni ridotte fino all'inconsistenza per essere 'accoglienti verso gli investimenti esteri' esistono già. Sono quasi tutti brillanti nazioni del centro Africa, da cui scappano milioni di persone verso nord per venire a vivere il "sogno europeo".

Siccome una condizione del genere in fondo non è raccomandabile neanche per i ceti affluenti europei, e dunque neanche per i tecnocrati di Bruxelles, la Commissione ha cercato di porre una pezza, intervenendo con i mezzi che riteneva di avere a disposizione.

Ora, chi fosse preso dall'impulso di dare fuoco al Tribunale UE, per quanto susciti magari la nostra umana simpatia, starebbe commettendo un'ingiustizia. Infatti nei termini della normativa europea la decisione è perfettamente corretta.

"Il Tribunale annulla la decisione in questione perché la Commissione non è riuscita a dimostrare in modo giuridicamente adeguato l’esistenza di un vantaggio anticoncorrenziale ai sensi dell’Articolo 107".

Di fatto la Commissione ha cercato di torcere le leggi esistenti, adattandole allo scopo, e per farlo ha cercato di argomentare che quella sconcezza suicida che è l'esistenza di un porto esentasse per le multinazionali - in grazie del loro potere contrattuale - fosse un'attività "anticoncorrenziale".

Insomma un evento dovuto al parossismo della competizione fiscale senza limiti poteva e doveva essere sanzionato solo se dimostrato "anticoncorrenziale".

Infatti nella concettualità malata che pervade la legislazione europea, qualcosa può essere male solo se ostacola la concorrenza.

Se invece consegna tutte le risorse nelle mani del grande capitale, mentre dissolve le funzioni pubbliche della stato democratico, è un tenero peluche.

Il problema è che la normativa europea è da parte a parte pervasa dal furore ideologico del neoliberalismo di trent'anni fa, e dunque, molto semplicemente, ha costruito un sistema in cui compito dello Stato è garantire e alimentare la competizione (approssimare la 'concorrenza perfetta'); ha insomma costruito un grande schiaccianoci economico-legale dove la forza lavoro recita il grato ruolo della noce.

Oramai in molti si rendono conto, anche tra gli europeisti affluenti e i tecnocrati dell'establishment, che per evitare il collasso delle forze produttive, e disordini sociali come l'Europa non ne ha ancora conosciuti, è tassativamente necessario cambiare rotta, introducendo quanto meno elementi 'keynesiani', capaci di moderare il competitivismo decerebrato inscritto nei trattati. Se ne rendono conto, ma non sanno davvero come fare, perché i trattati possono essere piegati solo fino a un certo punto, e solo provvisoriamente, da un mutamento della volontà politica, ma alla fine, se non li si riscrive, sono destinati a ritornarci in faccia (come nel caso Apple in oggetto).

La morale della storia è vecchia, ma resta valida. I trattati fondativi dell'UE possono avere solo due sorti: possono essere riscritti radicalmente, svuotandoli del loro impianto neoliberale; oppure possono essere distorti e rappezzati con interpretazioni ad hoc, fino ad un punto di rottura, dopo il quale si passerà inesorabilmente al "si salvi chi può".

Entrambi gli scenari presentano rischi ed opportunità, ma per farne opportunità bisogna partire da una consapevolezza di fondo: l'attuale impianto istituzionale e normativo dell'UE è una macchina impazzita che sta divorando sé stessa. Prima lo si capisce, meno male ci si fa (anche se farsi male sarà comunque inevitabile).


*Professore di Filosofia Morale all'Università di Milano

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