Perché lo scandalo Weinstein è la fine politica dei Clintons

Perché lo scandalo Weinstein è la fine politica dei Clintons

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PICCOLE NOTE


Sembra ormai tramontato l’impero della Clinton sul partito democratico, che l’aveva portata quasi alla presidenza degli Stati Uniti d’America.
 

Un declino imprevisto, avvenuto proprio quando, orma ripresa dallo shock della sconfitta elettorale, l’ex Segretario di Stato stava tentando di rilanciarsi. Il tramonto della sua oscura stella non sarà senza conseguenze per l’America e per il mondo.


Ma andiamo per ordine, tornando a quando era sostenuta da tutto l’establishment del partito democratico, che si schierò compatto al suo fianco nel corso delle primarie, quando fu messa a dura prova dall’outsider Bernie Sanders.


L’appoggio del partito risultò decisivo. La quasi totalità dei delegati del partito, quelli per intenderci non eletti dai cittadini, la votò compatta.


E la  favorì in ogni modo, anche scorretto, come documentato da alcune mail rivelate da wikileaks. Tanto che il presidente del Partito, nonché responsabile della consultazione interna, dovette dimettersi.


Nonostante lo scandalo e la sconfitta elettorale la sua presa sul partito resta ferrea. Tanto che la Clinton inizia a sognare il gran ritorno.
 

Simbolica in tal senso la recente pubblicazione del libro: “Come ho perso“, nel quale ascrive ad asserite interferenze russe la sua débacle elettorale.


Il senso della pubblicazione è chiaro: Trump è un presidente illegittimo e lei è pronta a riprendersi il maltolto.


Purtroppo, appena avviata, l’operazione riconquista si è infranta su uno scoglio del tutto imprevisto: lo scandalo Weinstein.


Il caso che travolge il potente produttore holliwoodiano, chiamato a rispondere di molestie sessuali ai danni di decine di attrici, la colpisce come un maglio.


La sua frequentazione e la lunga intimità con Weinstein mandano in mille pezzi l’immagine di paladina dei diritti delle donne che si era faticosamente costruita.


Accusata di aver ricevuto soldi dal produttore prova a difendersi, devolvendo la donazione in beneficienza.
 

Non basta. Alcuni giorni fa il Washington Post rivela che è stato proprio Weinstein a pagare le spese legali dello scandalo Lewinsky, l’intrecciata vicenda della stagista che aveva avuto una relazione con il marito, e presidente, Bill.


Lo scoop del quotidiano americano stavolta non si limita a colpire la Clinton. L’affonda.


Tanto che anche lo stratega di casa, MarK Penn, che aveva guidato il marito alla conquista del secondo mandato e aiutato anche lei, prende la penna e la dileggia sul Wall Street Journal.


«Non puoi comprare la presidenza con centomila dollari», spiega Penn (tanti sarebbero i soldi spesi dai russi per favorire la corsa di Trump).


È un articolo di fuoco, quello dell’ex stratega di casa. Il quale ricorda alla Clinton che nella campagna elettorale ci sono stati tre confronti televisivi; che la Tv ha seguito le convention dei partiti; che per la campagna sono stati spesi  2.4 miliardi di dollari… altro che i quattro spicci dei russi.


Una sconfessione a tutto campo delle tesi esposte nel libro di Hillary. Un fuoco amico che indica che anche i suoi la stanno abbandonando al suo triste destino.


Ma la politica non conosce vuoti, che vanno subito a riempirsi. Così ecco tornare alla ribalta Barack Obama, ridotto al silenzio dall’irresistibile ascesa della potente rivale di partito.


Dopo tanto tempo l’ex presidente torna a far politica, come riporta John Whitesides sulla Reuters del 19 ottobre.


Un’uscita pubblica secondaria, un semplice comizio. Ma più che significativo: Obama appare restituito alla politica attiva.


Un ritorno che ha un peso non secondario, soprattutto per un aspetto particolare. Nei prossimi giorni il Congresso degli Stati Uniti deve decidere sull’accordo riguardante il nucleare iraniano.


Il presidente Trump ha denunciato l’intesa per asserite violazioni di Teheran, investendo il Congresso della facoltà di emanare o meno sanzioni conseguenti.


Se il Congresso non emanerà sanzioni, di fatto, anche in mancanza di un accordo formale, l’intesa continuerà a essere valida e vincolante per entrambe la parti.


I repubblicani non hanno i numeri per emanare sanzioni. Sono minoranza in Senato.


L’unica speranza era Hillary. L’ex segretario di Stato si era dichiarata favorevole all’accordo durante la campagna presidenziale, ma solo per incassare il sostegno di Obama che quell’accordo aveva fortemente voluto.


In realtà era avversa, dati i suoi antichi legami con i neocon, irriducibili avversari di Teheran (peraltro l’avevano appoggiata alle presidenziali).
 

L’ex segretario di Stato avrebbe quindi potuto usare la sua influenza sui congressisti democratici per aiutare i neocon a vincere la cruciale battaglia. Il suo declino sembra vanificare tale possibilità.


Allo stesso tempo, il ritorno di Obama dovrebbe aiutare i congressisti del suo partito a conservare la linea.

Non sembra un caso che, in coincidenza con il ritorno di Obama, anche l’ex segretario di Stato americano John Kerry, dopo un lungo silenzio, abbia riacquistato il dono della favella.

Un dono che ha usato per difendere l’intesa con Teheran, che ha negoziato fianco a fianco con il suo presidente. Un accordo, ha detto, che impedirà all’Iran di avere la bomba atomica per i prossimi 15-25 anni. Todo cambia.

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