Pino Arlacchi - Perché il golpe in Bolivia e non in Venezuela

Pino Arlacchi - Perché il golpe in Bolivia e non in Venezuela

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di Pino Arlacchi

E’ appena avvenuto in Bolivia un colpo di stato che ha messo temporaneamente da parte un presidente molto popolare, che lungo 13 anni di governo ha guidato la fuoriuscita del paese dalla marginalità politica e dalla povertà.
I resoconti e le analisi correnti evitano di citare la ragione principale del golpe contro Evo Morales: il suo esempio di buongoverno socialista che ha fatto della Bolivia la maggiore storia di successo dell’America del Sud. Un esempio che doveva essere soppresso ad ogni costo.

Da chi? Dal solito 1% che tenta di tirare le fila del pianeta, dagli Stati Uniti di un palazzinaro bancarottiere diventato presidente all’elite compradora bianca della Bolivia ferocemente avversa a Morales ed a tutte le sue politiche.
Sotto Morales, il PIL della Bolivia è quadruplicato crescendo per oltre un decennio a ritmi asiatici. Il salario minimo è triplicato, la povertà ridotta a meno del 16%, l’analfabetismo eliminato, l’inflazione e il tasso di cambio sono rimasti stabili, e la maggioranza della popolazione india - i due terzi di quella totale - ha avuto accesso per la prima volta in 500 anni a istruzione, sanità, pensioni, e protezione sociale a largo raggio.

Tutto questo durante il boom dei prezzi delle materie prime durato fino al 2014, ed anche dopo, perché il governo boliviano, a differenza degli altri esecutivi del continente, è riuscito a sconfiggere la “maledizione delle materie prime” (il petrolio del Venezuela, il rame del Cile, il litio della stessa Bolivia..) nazionalizzando le industrie di base e convogliando massicci investimenti al di fuori del settore minerario e degli idrocarburi.

Ne è risultata un’economia a guida statale, diversificata, robusta e ad alta crescita. Un modello quasi-cinese che rischiava di essere imitato dall’Argentina appena ridiventata “rosa”, e dal Venezuela e dal Cile in cerca di una via di uscita dalla vulnerabilità intrinseca nella dipendenza da un singolo prodotto i cui prezzi fluttuano nei mercati internazionali.

Un modello socialista avanzato che non poteva essere più tollerato dal risvolto violento del capitalismo neoliberal.

Se la Bolivia di Morales era così forte, viene allora da chiedersi perché è caduta così rapidamente sotto l’urto della minaccia militare, delle manifestazioni di piazza e del diniego di legittimazione da parte degli USA e delle loro estensioni nella regione?

In effetti, è stato seguito in Bolivia un copione venezuelano di disordini violenti scatenati da una contestazione pretestuosa di risultati elettorali, un copione di pressioni sulle forze armate per spingerle alla sedizione, e perfino di un presidente designato da Washington che si autoproclama tale in alternativa a quello legittimo.

Perché ciò che non ha funzionato in Venezuela ha avuto successo in Bolivia?

La risposta sta in due differenze cruciali, che corrispondono ad altrettanti limiti del modello socialista boliviano. Morales ha creduto, in primo luogo, che i benefici delle sue politiche sociali parlassero da soli, assicurandogli un primato elettorale permanente presso la grande maggioranza dei cittadini, senza tenere nel dovuto conto la necessità di strutturare e radicare in profondità i suoi consensi.

Il suo partito, il MAS, è rimasto un arcipelago rissoso e composito di fazioni, abituate a scendere in piazza al minimo segno di disagio anche contro il loro stesso governo. Nulla di paragonabile alla mobilitazione capillare e all’autogestione ben organizzata di risorse comuni (dai beni alimentari all’educazione musicale) dei colectivos venezuelani, capaci di far scendere in piazza in poche ore centinaia di migliaia di persone a sostegno di Maduro.

In secondo luogo, il governo Morales non ha curato una riforma della polizia e delle forze armate abbastanza profonda da democratizzarle e renderle parte del progetto socialista. Cultura, addestramento e tattiche di intervento di soldati e ufficiali sono rimasti quelli dei tempi bui delle dittature e dei governi corrotti del passato. Ho conosciuto Morales durante il mio mandato ONU, alla fine degli anni Novanta, quando l’establishment politico e militare lo riteneva un pericoloso capo dei cocaleros di Cochabamba. Diventato presidente, ha preferito glissare in tema di organizzazione della sicurezza nazionale. La nuova costituzione boliviana del 2009 non dice nulla sul tema, e nel momento più cruciale questa omissione è costata molto cara.

Nulla di simile alla situazione venezuelana, dove esercito e polizia sono immersi nella popolazione chavista e sono un architrave del sostegno a Maduro. Non è facile trasformare entità di questo tipo in una forza golpista e antipopolare in un paese la cui costituzione proibisce alla guardia nazionale di detenere armi da fuoco in servizi di ordine pubblico. Divieto fatto osservare talvolta fino all’assurdo.

Detto questo, cosa può succedere adesso?

E’ evidente che, per quanto poco strutturata, la base di consenso a Morales non svanirà tanto facilmente. Anzi, è probabile che la durezza della repressione golpista, i tentativi di smantellare le protezioni sociali dell’era Morales e la crisi economica conseguente contribuiranno tutti ad una sua possibile nuova vittoria alle elezioni di Gennaio 2020.

Ma vedremo davvero queste elezioni?

La risposta sta più a Washington che a La Paz.

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