Primo maggio a Istanbul: dove i migranti in Libia vengono chiamati lavoratori-schiavi
Questa storia è cominciata 4 anni fa a Istanbul e a Istanbul oggi torna per chiudere il suo cerchio.
Quattro anni sembrano un’eternità. Ma nel mezzo c’è stata una pandemia, ma soprattutto l’incubazione di una grande guerra, quella che sta esplodendo ai confini dell’Europa e che presto rischia di trascinarci con sé.
Come avviene l’incubazione di una guerra? Con la rimozione dei fatti. Con l’incomunicabilità dei concetti.
Se scrivessi che ci sono 700mila migranti in Libia, avreste una reazione.
Se scrivessi che ci sono 700mila migranti-schiavi, già forse la vostra reazione cambierebbe.
Come reagireste invece se vi dicessi che oggi in Libia ci sono 700mila lavoratori in stato di schiavitù?
E come reagireste se lo scrivessi oggi, il primo maggio del 2022, aggiungendo che questo massa di forza lavoro è sostanzialmente in trappola da diversi anni?
In questi ultimi 4 anni, circa 50mila africani hanno raggiunto le coste italiane dalla Libia. Quasi mai da soli, sempre con la complicità delle ONG (i gommoni sgonfi che partono dalla Libia da soli mai possono raggiungere le coste italiane), che hanno sparso le narrazioni fiabesche in tutta Africa con il passaparola delle mafie africane.
Sempre in questi ultimi 4 anni circa 20mila africani sono stati rimpatriati volontariamente dalla Libia al paese di origine attraverso voli gratuiti messi a disposizione dall’OIM (Organizzazione Internazionale delle Migrazioni), ma moltissimi di più non hanno potuto godere dello stesso servizio perché i Libici hanno fatto di tutto per non farsi sottrarre gli schiavi, la forza lavoro.
Negli stessi 4 anni poche migliaia di rifugiati africani sono arrivate in Europa dalla Libia attraverso voli di evacuazione organizzati dall’UNHCR.
Rispetto quindi a 4 anni fa, solo circa 75mila su 700mila neri africani allora presenti in Libia ora stanno altrove. L’UNHCR conferma questi dati.
Questo significa 2 cose: circa 75mila in questi anni sono entrati in Libia dall’Africa Subsahariana, ossia più o meno quanti ne sono usciti.
Ma significa soprattutto un’altra cosa: 625mila lavoratori africani erano già in Libia 4 anni fa e sono ancora lì a fungere da manovalanza gratuita per le milizie di Tripoli, quelle milizie che noi paghiamo, non perché fermino i migranti (quello lo fanno già da sole con molto piacere di estorcere 4.000 euro sotto tortura a ciascuno dei ragazzi intercettati in mare), ma che paghiamo perché mantengano il controllo militare della Tripolitania al fine di contrabbandare fino al 40% del petrolio libico ogni anno.
Allora il concetto andrebbe espresso in questo modo: da 4 anni (molti anche da più tempo) 625mila lavoratori africani sono trattenuti in stato di schiavitù in Tripolitania.
Non necessariamente detenuti in catene. Possono anche arrangiarsi per conto loro, ma se vogliono un tozzo di pane, devono rivolgersi a un libico e lavorare gratis per lui ogni giorno.
UNA SCONFITTA STORICA DEL TUTTO IGNORATA
Come dicevo all’inizio il cerchio si chiude oggi a Istanbul 4 anni dopo. Perché fu 4 anni fa qui a Istanbul che, un po’ per caso, con uno stratagemma basato sulla geolocalizzazione, cominciai ad entrare in contatto con centinaia di questi lavoratori-schiavi in Libia. E successe proprio all’indomani della mia partecipazione al Festival Internazionale del Film dei Lavoratori di Istanbul.
Ora, 4 anni più tardi, sono di nuovo qui sulle sponde del Bosforo per presentare “L’Urlo”, il film che racconta tutta questa storia, in questo stesso festival, l’unico in tutta Europa e Mediterraneo che ha osato darmi la possibilità di scoperchiare questa storia.
Un film che in Italia e in Europa non si può proiettare. Perché c’è la censura subdola di regime. Ma anche in Turchia di censura ce né quanta ne volete.
E’ che qui i 700mila in Libia, questo popolo in trappola da anni, li chiamano lavoratori, non migranti.
E’ che sulle sponde del Mediterraneo in questi anni si è sviluppato un fenomeno atroce, disumano e complementare al saccheggio del petrolio libico.
E’ che tutto ciò è una sconfitta per tutti coloro che considerano il lavoro il fondamento della vita politica e sociale dell’uomo.
E questa è una sconfitta talmente storica, da essere stata completamente ignorata.
COME INCUBARE LA GUERRA
E qui torno all’incubazione della guerra.
La guerra che stiamo vivendo oggi in Ucraina è stata incubata anche in Libia, perché un atto di sfruttamento di questa portata avvenuto sotto i nostri occhi, raccontato in un modo completamente rovesciato, con le narrazioni fiabesche dei salvataggi in mare e il teatrino di chi è a favore e di chi è contro, è il prodromo cristallino della guerra incombente.
“L’Urlo” è questo. E’ vedere la guerra nella sua essenza, vederla avvicinarsi nello sfruttamento dell’uomo sull’uomo e nella capacità del potere di rimuovere la realtà e di raccontarla capovolta, senza che nessuno faccia lo sforzo di andare al di là delle narrazioni per trovare la verità.
Perché i migranti, alla fine, se la sono cercata, pensano i più.
E non avranno mai la nostra solidarietà, aggiungono.
Ma se io oggi li chiamo lavoratori-schiavi e nessuno oggi tra noi ancora muove un dito, allora io posso urlare quanto volete, ma la guerra è inevitabile.
Chiamare le cose con il loro nome è forse l’ultima speranza che abbiamo per arrestare il crollo di un continente.
A patto che alle parole, seguano i fatti.
IL CAMBIO DI MODELLO NON SARA’ GRAZIE A NOI
Oggi, 700mila lavoratori africani sono in stato di schiavitù in Tripolitana per servire gruppi armati che noi finanziamo per saccheggiare le risorse energetiche della Libia.
Questo modello non si decostruisce salvando poveri disgraziati spinti a forza tra le onde.
Lo si decostruisce con un cambio di modello militare e politico a Tripoli.
Noi Europei non lo vogliamo. Gli Stati Uniti ancora meno.
Allora non saranno i nostri buoni sentimenti a cambiare questo modello, nemmeno la nostra solidarietà (inesistente) con i lavoratori-schiavi in Libia.
Allora forse sarà la guerra a cambiare questo modello. Quando Russia e soprattutto Turchia metteranno le mani su Tripoli. Il loro uomo infatti, Fathi Bashagha, votato dal parlamento libico lo scorso febbraio, attende da allora di entrare a Tripoli ed insediarsi al proprio posto.
Poche milizie all’interno di Tripoli e le minacce non pubbliche della NATO per ora hanno congelato la situazione.
Il giorno in cui entrerà a Tripoli cambierà tutto. Per noi. Ma soprattutto per i lavoratori-schiavi africani che noi abbiamo ignorato per lunghi anni chiamandoli migranti.
Quel giorno sarà un bel giorno.