Alberto Bradanini - L’Iran e il Vicino Oriente: intrighi regionali e grandi potenze

Alberto Bradanini - L’Iran e il Vicino Oriente: intrighi regionali e grandi potenze

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di Alberto Bradanini*

11 maggio 2020

 
Il groviglio mediorientale

Il rispetto per la nozione di complessità consiglia cautela quando si tenta un’analisi degli accadimenti mediorientali, frutto di sedimentazioni storiche e interessi strategici che s’intrecciano con sovrastrutture religiose e arretratezza culturale, e che si dipanano sul corpo di popolazioni giovani, oppresse e prive di prospettive di vita. Su tale scenario deve poi aggiungersi un diffuso risentimento antioccidentale, che affonda le radici in secoli di colonialismo europeo e ora nelle interferenze economico-militari americane, e nella manipolazione mediatica al servizio delle oligarchie dominanti di ogni latitudine, principali beneficiarie di questo caos indotto.

Come in altre parti del mondo, anche in Medio Oriente i fattori identitari sono costituiti dalla lingua, l’etnia, il colore della pelle, la religione (a sua volta suddivisa in numerose famiglie teologiche), le cui differenze vengono esaltate per proteggere i privilegi di potentati locali o quelli delle Grandi Potenze, in primis gli Stati Uniti le cui basi militari sono disseminate quasi ovunque nella regione.

A seconda di tempi e luoghi, alcuni di tali fattori prevalgono su altri. La religione poi – per sua natura messaggera di orizzonti messianici – occupa un posto centrale nelle identità mediorientali, vittima e insieme protagonista di fanatismi, arretratezze socioculturali e posture antimoderne, su cui prosperano gerarchie ecclesiastiche e oligarchie economiche di ogni risma. È invece assente un’agenda di rivendicazioni sociali in ragione della scarsa coscienza politica e culturale nella quale sono relegate le classi subalterne locali. Oltre che dalla scarsa consapevolezza, il cammino verso l’uscita dal sottosviluppo è ostacolato dalla perenne instabilità politica, alla quale ricorrono le istanze dominanti per impedire l’emersione di priorità centrate sullo sviluppo umano e la giustizia sociale. Invece di aggredire la polarizzazione dei redditi, la scarsità di lavoro e le misere prospettive di vita, gli strati sociali emarginati vengono sedotti nell’illusione di rivolte etniche o religiose, divenendo vittime del fanatismo e dello sfruttamento migratorio. È così che il capitalismo transnazionale prospera indisturbato sulle attività predatorie delle corporazioni multinazionali, sostenute dalle onnipresenti truppe imperiali americane, con la complicità espropriativa delle oligarchie locali.

Anche il terrorismo, filiazione riflessa di tale intelaiatura, affonda le radici nelle frustrazioni politiche e nelle ingiustizie sociali, frutto avvelenato delle interferenze neocoloniali delle potenze esterne, attirate dalle ricchezze energetiche della regione e in lotta perenne tra loro a danno sistemico di quelle povere genti. Prevenire e neutralizzare i terroristi con maggiore efficacia, come pure occorre fare, non sarà mai sufficiente.
 
Nella regione della turbolenza, che va dal Caspio al Mediterraneo, al Nord-Africa, la cognizione degli schieramenti in atto sfida persino la logica aristotelica: Israele è contro i palestinesi, in verità più contro Hamas che contro l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). ANP e Hamas si fronteggiano a Gaza, ma unite (sebbene con modalità diverse) contro Israele. L’Egitto appoggia l’ANP, ma non Hamas, e ha relazioni distese con Israele. Hamas e Iraq hanno lo stesso nemico, Israele, ma non hanno buone relazioni tra di loro. La Turchia è vicina ad Hamas, ma ha oggi rapporti distesi con Israele (il tragico episodio della Mavi Marmara del 2010 è archiviato).

Hezbollah ha pessime relazioni con i paesi sunniti ed è alleata di Iran e Siria, sebbene quest’ultima sia governata dalla minoranza sciita/alawita che secondo una certa dottrina non farebbe nemmeno parte dell’Islam (un po’ come i drusi libanesi e i turchi aleviti).
La Siria è alleata di Iraq e Iran e ha relazioni di convenienza con l’ANP. L’Iraq a sua volta è ostile all’Arabia Saudita (AS), ma è vicino all’Egitto, che ha invece buoni rapporti con Riad. Al-Sisi, in linea con i suoi predecessori, ha qualche problema con l’Iran, diffida di al-Assad, ma diffida ancor più di Ankara (che infatti in Libia è schiarata sul fronte opposto). L’AS è ai ferri corti con Siria, Iran, Iraq ed Hezbollah, ha un rapporto pragmatico con Israele in funzione anti-iraniana, ma è sospettosa della Turchia. L’AS poi finanzia Hamas, ma è nemica dei Fratelli Mussulmani, i quali, pur coltivando le rispettive agende nazionali, tornano però compatti a favore di Hamas e contro Israele. Quest’ultimo è beninteso nemico di Hezbollah, che è sostenuto dall’Iran, il quale finanzia Hamas (che riceve tuttavia assistenza soprattutto dalle monarchie sunnite) a sua volta ostile sia ad al-Assad che alla cosiddetta opposizione moderata siriana la quale, sostenuta dagli Stati Uniti, dai paesi del Golfo e dall’AS, è poi confluita nello Stato Islamico. Teheran ha relazioni neutrali con al-Sisi (nemico di Hezbollah) è ostile alle monarchie del Golfo (con eccezione del Qatar), sostiene gli Houthi (sciiti zaiditi) nello Yemen, paese aggredito dall’AS senza mandato delle Nazioni Unite e con il sostegno americano. La Turchia è nemica di al-Assad, che l’Iran beninteso sostiene, sebbene Turchia e Iran mantengano tra loro ottimi rapporti in funzione anti-curda (per entrambi un nemico esiziale) e per ragioni economico-energetiche.

I curdi iracheni godono di un elevato livello di autonomia (grazie all’esercito dei Peshmerga), assicurano un relativo sostegno alla lotta contro l’Isis e hanno rapporti distesi con Ankara, sebbene quest’ultima continui a diffidare di tutti i curdi, i quali considerano compagni di viaggio anche gli aderenti al PKK, il Partito Curdo dei Lavoratori, che si batte da anni contro il nazionalismo turco monoetnico. Per ragioni etniche i curdi iracheni, prevalentemente sunniti, sono ostili agli arabi iracheni-sunniti, mentre per ragioni etniche e religiose sono ostili anche agli iracheni sciiti. In Iraq l’appartenenza etnica prevale su quella religiosa. Almeno per il momento invece, in Iran è l’appartenenza religiosa – insieme alla repressione politico-militare - a prevalere su quella etnica (il 90% del popolo iraniano è sciita, ma solo il 50% è di etnia persiana), sebbene i curdi iraniani, divisi tra sunniti e sciiti, coltivino anch’essi il sogno di uno Stato curdo, quando le condizioni lo consentiranno.

Tutti, sulla carta, sono nemici dell’Isis. L’AS, le monarchie del Golfo e gli americani però, seppure per ragioni diverse, mirano soprattutto alla caduta di al-Assad e al ridimensionamento del ruolo di Iran e Hezbollah in Siria, e a questo fine non si fanno scrupoli a lasciare spazi di manovra allo Stato Islamico. Ankara vive come un incubo il consolidamento curdo nel Rojava (la striscia siriana lungo la sua frontiera) da parte dell'YPG[1] che, fungendo da magnete per i curdi turchi, iracheni e iraniani, proietta uno scenario da incubo su una Turchia ancorata a un egemonismo panturco in ritardo con la storia. Erdogan e i suoi fiancheggiatori islamisti non intendono infatti riconoscere vera rappresentanza politica alla minoranza curda interna che costituisce il 25% della popolazione del paese.

I sunniti, nemici accaniti degli sciiti (siano essi iraniani/duodecimani, alawiti, aleviti, ismaeliti, houthi o altro), sono a loro volta divisi tra loro: wahabiti contro salafiti, al-Qaeda contro governi sunniti; fratelli mussulmani contro altri fratelli e contro i wahabiti-sauditi; emiri, principi o sovrani di sorta tornano però alleati contro chiunque attenti ai loro privilegi di classe.

Sulla carta, gli Stati Uniti sono nemici di Isis e al-Qaeda (in verità, a seconda di contingenze e convenienze), ma sono soprattutto nemici di Hamas ed Hezbollah, entrambi avversari di Israele. Hezbollah è un gruppo terrorista per gli Stati Uniti, i quali tuttavia distinguono il braccio militare da quello politico e mantengono un Ambasciatore accreditato in Libano, dove il Partito di Dio è al governo con Sunniti, Drusi e Cristiani. Hezbollah non è però considerata un’organizzazione terrorista per gli europei e nemmeno per la Turchia, alleata di Teheran, sebbene combatta a fianco di al-Assad, nemico di Ankara.
Gli Stati Uniti inoltre, nemici di Iran e al-Assad, sostengono al-Sisi e sono alleati dell’Iraq, che è invece alleata della Siria, amica dell’Iran e di Hezbollah, tutti nemici degli Stati Uniti. Questi ultimi sono anche i principali sponsor politici e militari di Israele, ma finanziano l’ANP e sono alleati dell’AS, la quale è oggi un pragmatico alleato dello Stato Ebraico e ostile all’Iraq. L’AS finanzia in modo più o meno occulto talebani, Al-Qaeda e Isis, che sempre sulla carta sarebbero nemici degli Stati Uniti.

In tempi recenti, Russia e Turchia hanno ritrovato una buona intesa politica. Da parte di Ankara, paese Nato, cresce tuttavia la diffidenza verso Washington sospettata persino di aver orchestrato il fallito golpe del 2016 contro Erdogan. Ankara ha poi sviluppato una solida intesa energetica con Mosca (è stato da poco inaugurato il gasdotto Turkish Stream che collega la città russa di Russkaya a Luleburgaz a nord di Istanbul), la quale coltiva a sua volta il sogno di una crepa nelle relazioni tra Turchia e Nato-Stati Uniti.

Anche senza aggiungere ulteriori ramificazioni di alleanze/ostilità di Libia, Libano, Afghanistan, Giordania e paesi minori del Golfo, ci troviamo di tutta evidenza di fronte a un vero e proprio rompicapo.

Che fare dunque?

Un primo sussulto originato dal buon senso, dall’etica politica e da quel poco di diritto internazionale che la comunità delle nazioni è riuscita a costruire al termine del secondo conflitto mondiale (e che gli Stati Uniti, considerandolo un ostacolo al loro dominio bulimico sul mondo, stanno cercando di smantellare) imporrebbe alle potenze esterne di lasciare la regione, in primis agli Stati Uniti d’America, “la nazione voluta da Dio per governare un mondo irrequieto”, secondo l’esaltata patologia della destra americana, e “la nazione indispensabile” nel lessico mitologico coniato da Bill Clinton negli anni ’90, al quale come ai suoi immediati predecessori e successori andrebbe invece ricordato che l’egemonia valoriale degli Stati Uniti è centrata su un nichilismo militarista ipertrofico che sta avvelenando l’intero pianeta.

Una volta eliminate le interferenze neocoloniali e quelle delle corporazioni multinazionali, le nazioni della regione potrebbero lentamente avviarsi verso un graduale equilibrio geopolitico. Solo allora, associazioni e gruppi sociali sensibili al progresso umano, qualora richiesti, potrebbero contribuire alla (ri-) costruzione di impianti istituzionali che pongano al centro la persona umana e l’equità sociale. Non è tutto, ma sarebbe già molto.
 
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Oggi, lo scenario regionale è diverso da quello sognato dal giovane ambulante tunisino, Mohamed Bouazizi, che nel dicembre 2010 aveva innescato con il suo sacrificio la miccia della primavera araba. I frutti germinati da quell’impeto sussultorio hanno aperto spazi preziosi per il futuro della Tunisia (unico paese della regione incamminato su un percorso di crescita istituzionale), ma in parallelo hanno acceso la miccia che al finale della corsa ha portato alla destabilizzazione della Siria, alla frantumazione sociopolitica dell’Iraq, alla fugace affermazione del califfato, all’espansione militare della Turchia, all’ingresso nella regione della Russia e allo sgretolamento della Libia. Nel complesso più segni meno che segni più.

Gli americani, dopo aver invaso illegalmente un paese sovrano che nulla aveva a che vedere con il terrorismo e il possesso di armi letali, frantumando il diritto internazionale e provocando la destrutturazione dell’Iraq e la morte di almeno 600.000 persone (Lancet[2]), hanno finanziato e poi armato la cosiddetta opposizione moderata siriana (che insieme ai residui dello sconfitto esercito di Saddam ha dato vita all’Isis), violato i confini di un’altra nazione, la Siria, in barba a qualsiasi rispetto delle norme internazionali, bombardato illegalmente la Libia (2011), insieme a francesi, britannici e altre 16 nazioni tra cui l’Italia sotto la guida della Nato, devastando il territorio e aprendo la porta a migrazioni di massa che stanno destabilizzando l’Italia e l’Europa.

Allo Stato profondo americano è del tutto indifferente il nome di colui che occupa temporaneamente la Casa Bianca. Ecco quindi che, dopo le imprese militari di Bush e Obama, anche Trump percorre gli stessi sentieri di guerra, ordinando bombardamenti etici illegali contro asseriti utilizzatori siriani di gas poi risultati inesistenti, procede al riconoscimento di Gerusalemme quale capitale di Israele e della sovranità israeliana sulle alture del Golan (per il diritto internazionale territorio siriano) e promuove un piano di pace in Palestina, in verità predisposto da Israele, che legittima gli insediamenti e cancella ogni residua prospettiva verso una Palestina libera e indipendente.

Infine, il 3 gennaio 2020 Trump, violando insieme il diritto del suo paese e ancora una volta quello internazionale, ordina l’assassinio extragiudiziale del generale iraniano Qassem Soleimani che si trovava quel giorno in Iraq in missione diplomatica. Con un atto illegale di guerra (i due paesi non sono in conflitto armato tra loro) e di terrorismo di stato, la democrazia statunitense calpesta etica politica e principio di moderazione/proporzionalità (per un mercenario americano colpito da milizie irachene pro-Iran – episodio sul quale la responsabilità di Teheran è tutt’altro che dimostrata - la rappresaglia di Washington aveva già fatto 25 vittime tra i Kataib Hezbollah). La responsabilità morale per questo omicidio premeditato non ha nulla a che vedere con la qualità etica del personaggio, che non era certo un’anima pia. Soleimani, del resto, è già stato sostituito e la sua eliminazione non farà che aggravare i rischi di un conflitto devastante in una regione nella quale – è bene ricordarlo – gli americani non difendono i loro confini o la loro sicurezza, ma esclusivamente i loro ipertrofici interessi imperiali.

Questa aggressione fa invero parte di una strategia d’insieme, dopo il ritiro di Trump nella primavera del 2018 dall’accordo sul nucleare voluto da Obama e firmato tra i cinque paesi membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, più la Germania, e l’Iran. Se quest’ultimo non è un modello di rispetto dei diritti umani, esso resta tuttavia un paese sovrano, il cui progresso andrebbe incoraggiato attraverso scambi commerciali, culturali e investimenti, obiettivo che Trump è lungi dal voler perseguire. È invece manifesto che per i promotori di tensioni e conflitti, vendite di armamenti e diffusione del caos sistemico un nemico fa molto più comodo di un amico.

Del resto, poiché Trump non può non aver messo in conto la rappresaglia iraniana, è palese che egli reputi quest’ultima, insieme all’escalation militare, un evento utile alla sua rielezione, l’unico obiettivo che gli sta patologicamente a cuore. Un’hybris alimentata da ingordigia di ricchezze e potere è insensibile alle devastazioni delle guerre, ai limiti del diritto internazionale e alle sofferenze di milioni di individui, mentre le nazioni che non accettano di sottomettersi al domino americano vengono prima o poi aggredite politicamente, economicamente o militarmente.
 
La scena internazionale

Gettiamo ora uno sguardo su paesi o gruppi politici su cui Teheran può ragionevolmente contare. La Siria, in primis, ma la logica va qui rovesciata: è Damasco ad aver bisogno di Teheran, e non l’inverso, sebbene Teheran mantenga un relativo interesse a una presenza consolidata sul Mediterraneo e all’alleanza politico/militare con il Partito di Dio in Libano, quale deterrenza in caso di aggressione americana o israeliana. A loro volta, diversamente da quanto vorrebbe una semplicistica esegesi strumentale, Hezbollah e ancor più Hamas coltivano un’agenda che non ne autorizza l'automatico allineamento alle priorità della Repubblica Islamica. Viene poi l’Iraq, a maggioranza sciita ma araba (nella guerra degli anni ’80, il nazionalismo etnico era prevalso sulla comune fede sciita), con una componente curda foriera di un insidioso contagio per Teheran, sebbene per ora tenuto a freno da una vigile repressione.

Vengono poi Russia e Cina, due potenze portatrici di interessi strategici extra-regionali, che l’Iran percepisce per di più nella loro storica propensione all’infedeltà (la prima) e al cinismo (la seconda). Tuttavia, se un raccordo strategico con Mosca e Pechino non è per Teheran privo di apprensioni, esso è tuttavia funzionale agli odierni interessi iraniani. Sospinti dal vento della real politik, i tre paesi tendono dunque verso una convergenza alimentata dalla comune necessità di contenere l’espansionismo americano.
 

Iran - Cina

La Cina è vista da Teheran come un paese lontano, a-religioso e con una ideologia politica antitetica all’ideale teocratico sciita. In generale, il mondo cinese suscita in Iran scarsa empatia, oltre a qualche inquietudine sul piano politico, ideologico ed economico. Teheran nutre al contempo il convincimento che la sete cinese di energia indispensabile alla sua economia è destinata a protrarsi nel tempo. Incurante delle sanzioni americane che colpiscono chiunque faccia affari con Teheran e abbia interessi in America, la Cina ha bisogno di diversificare le sue fonti di approvvigionamento e continua dunque ad acquistare petrolio iraniano (che copre oggi il 15% del suo fabbisogno). Nell’insieme, il commercio sino-iraniano supera i 50 miliardi di dollari, petrolio contro prodotti finiti, uno scenario ideale per Pechino.

Negli anni passati, la Cina aveva condiviso nel Gruppo 5+1 la necessità di contenere il presunto intento, mai dimostrato tuttavia, che Teheran intendesse costruire la Bomba, per evitare fastidiosi riflessi sui suoi fondamentali rapporti economici con gli Stati Uniti (737 miliardi di dollari di interscambio, con un avanzo di 378 miliardi)[3]. La Cina, tuttavia, non ha mai attribuito alcuna urgenza al programma nucleare iraniano, convinta che Teheran non avrebbe mai potuto costruire l’atomica in tempi brevi o senza che gli ispettori dell'Aiea[4] ne venissero a conoscenza con largo anticipo.
Secondo Teheran, Pechino ritiene che gli Stati Uniti non intendano risolvere i problemi della regione con mezzi pacifici, preferendo alimentare tensioni e conflitti, con l’obiettivo di perpetuare la loro egemonia e all’occorrenza ostacolare l'accesso alle fonti energetiche da parte della Cina, unica potenza in grado di sfidare il dominio americano nel mondo.

Pechino condivide con Teheran l'accusa all'Occidente di praticare la politica dei due pesi e due misure in tema di diritti umani, terrorismo, proliferazione nucleare e altro ancora, ma remissiva nei riguardi di Israele, unico paese della regione in possesso di armi nucleari, fuori dal TNP[5] (Israele non ha nemmeno ratificato la Convenzione sulle Armi Chimiche e quella sulle Armi Biologiche) e inadempiente verso innumerevoli risoluzioni del CdS delle Nazioni Unite[6]. Per gli Stati Uniti, del resto, Israele non è un tema di politica estera, ma di politica interna, alla luce del peso politico-mediatico detenuto dalle lobby pro-israeliane (l’AIPAC[7], ma non solo) in grado di influenzare le decisioni politiche e il destino di qualsiasi candidato al Congresso o alla Casa Bianca.
 

Iran – Russia

La tradizionale postura circospetta dell’Iran verso la Russia, dovuta alle secolari depredazioni territoriali, alle insidie dell’era sovietica e alla pratica dei giri di walzer – il contratto per l’acquisto del sistema difensivo russo antimissile S-300, ad es., ha seguito l’evolversi dell’interazione tra Mosca e Washington, piuttosto che il rispetto degli impegni sottoscritti con Teheran – lascia oggi il posto a un’attitudine più costruttiva, sebbene le diffidenze di un tempo non si siano del tutto dileguate.

La complementarità economica ed energetica con Pechino soffre tuttavia con Mosca di una significativa attenuazione. Entrambi i paesi sono ricchi di petrolio e gas[8], e a Mosca non sfugge che, qualora venissero appianate le divergenze politiche con l’Occidente, l’Iran diverrebbe in Europa la principale alternativa al gas russo. Quel giorno è tuttavia lontano e per ora prevale la comune preoccupazione di rafforzare la reciproca tutela securitaria.

Quanto al dossier nucleare, nemmeno la Russia ha mai creduto ai rischi di proliferazione, anche alla luce delle informazioni provenienti dai suoi tecnici che lavorano da anni nella centrale nucleare di Bushehr. In linea generale, per Mosca l’intrico mediorientale richiederebbe un inedito pragmatismo, alla luce del quale dovrebbe un giorno trovar posto anche il riconoscimento iraniano all'esistenza dello Stato Ebraico. La nascita di uno Stato palestinese realmente indipendente ne sarebbe la condizione necessaria. Si tratta di uno scenario che richiederebbe a sua volta una metamorfosi radicale della superpotenza americana, che per ora non è alle viste. Per Mosca, d’altro canto, un Iran normalizzato e ri-occidentalizzato rappresenterebbe un deficit d’influenza sia in Medio Oriente che sul piano internazionale.

 
Gli altri

In tale cornice, non possiamo non riflettere sulla mesta marginalità dell'Unione Europea - inclusa quella rappresentata dalle cosiddette potenze nucleari minori, Regno Unito (ormai fuori) e Francia - che gioca qui un ruolo trascurabile, mero territorio con cui fare affari e solo se questi non si scontrano con gli interessi americani. Sia Mosca che Pechino condividono il giudizio di sostanziale irrilevanza su un'Europa costola afona dell’egemonismo americano.

 La logica suggerisce che Stati Uniti ed Europa trarrebbero enormi benefici da un’intesa strategica con la Repubblica Islamica, un mercato di oltre 80 milioni di giovani consumatori, affamati di Occidente e prezioso alleato contro le minacce del mondo arabo-sunnita, ben più irrequieto di quello sciita. Ma americani ed europei hanno orizzonti divergenti, e i primi prevalgono sui secondi. La prospettiva di un reset globale (grand bargain) che a determinate condizioni Teheran potrebbe accettare, è impedita dai legami energetico-finanziari tra Washington e le monarchie della regione (Arabia Saudita in primis), dagli interessi espansionisti di Israele legati all’irrisolta impasse palestinese, e dalla strategia americana del caos a sostegno dei venditori di armi, del corso del dollaro, degli interessi dei petrolieri e delle oligarchie dominanti.

Oltre al noto giudizio espresso nel 1961 dall’allora presidente Dwight Eisenhower sui pericoli rappresentati dal complesso industriale-militare americano[9], non appare inutile riportare il pensiero del colonnello Lawrence Wilkerson[10], capo di stato maggiore di Colin Powell dal 2001 al 2005: "L'America esiste oggi solo per fare la guerra. In quale altro modo si possono interpretare 19 anni consecutivi di conflitti senza alcun esito? La guerra è parte di ciò che siamo, di ciò che è oggi l'impero americano. Mentiremo, imbroglieremo, ruberemo, come stanno facendo Pompeo, Trump, Esper... e una miriade di altri membri del mio partito politico, quello repubblicano. Mentiremo, imbroglieremo e ruberemo per continuare a sostenere l’industria della guerra. Questa è la verità, questa è la sofferenza".

 
Soleimani e Abu Mahdi al-Muhandis

L’incubo americano che l’Europa possa gradualmente integrarsi con la Russia – alla quale è legata da una forte complementarità (import europeo di energia contro export di macchinari/prodotti finiti) - si somma all’avanzare della Cina (la Belt and Road Initiative di Xi Jinping persegue proprio l’obiettivo di avvicinare le due estremità del continente euro-asiatico). L’angoscia del sorpasso economico da parte cinese e l’insidia dei progressi tecnologico-militari della Russia costituiscono poi altrettante spine nel fianco della strategia imperiale americana.

La graduale presa di coscienza di essere diventata una potenza marginale nella cruciale regione centro-asiatica[11] rende gli Stati Uniti, e ancor più i suoi apparati occulti, ancor più animosi e pericolosi. L’Unione Economica Euroasiatica[12], la SCO[13], la Belt and Road, l’AIIB[14] (banca voluta da Pechino, i cui finanziamenti superano quelli della Banca Mondiale) vedono gli Stati Uniti del tutto esclusi, mentre la Russia si espande nell’area mediorientale, l’Iran consolida la sua presenza nella regione e la Cina fa sentire sia in Asia che in Medio Oriente il suo crescente peso economico, aprendo persino due basi militari, a Gibuti e in Tajikistan.

L’assassinio di Qassem Soleimani acquista dunque una logica se proiettato sulla scacchiera del Grande Gioco (la regione euroasiatica), dove da un secolo e mezzo le Grandi Potenze si contendono il dominio del mondo, e dove gli Stati Uniti devono oggi fronteggiare Russia, Cina e Iran, più determinate e meno divergenti di un tempo.

Se in Iran gli Stati Uniti perseguissero l’obiettivo del regime change, l’omicidio di Soleimani non troverebbe una logica decifrazione, poiché il cambiamento sociopolitico ha come presupposti il commercio, gli investimenti e gli scambi culturali con l’Occidente, un orizzonte che porterebbe inoltre grande beneficio anche al business internazionale. Una seconda ermeneutica suggerisce che Soleimani sarebbe divenuto troppo popolare e ingombrante in patria, al punto da minacciare il potere del clero sciita, e dunque sarebbe stato venduto agli americani, in cambio di ritorni che appaiono in verità indecifrabili; resta inoltre difficile supporre una simile pattuizione tra due nazioni che da oltre 40 anni vivono in totale ostilità. Se dunque Donald Trump ha lacerato l’accordo nucleare propugnato da Obama, le finalità vanno ricercate altrove.

Vediamo. Trump ha affermato che Qassem Soleimani, insieme al leader della milizia pro-iraniana Abu Mahdi al-Muhandis, suo alleato iracheno, si apprestava a colpire interessi americani e persino alcune Ambasciate americane nella regione, finendo però per confessare che in fin dei conti la vera ragione non è poi così importante[15] e che Soleimani pagava con la vita le malefatte compiute in passato. Secondo il Primo Ministro Adel Abdul-Mahdi (oggi dimissionario) alla base di quanto accaduto deve invece collocarsi l’accordo petrolifero da lui siglato nel settembre scorso con la Cina[16], a sostengo del quale Soleimani si stava prodigando. Gli Stati Uniti avevano esercitato fortissime pressioni sul governo iracheno affinché tale accordo venisse disatteso.

La presenza cinese in Iraq inquieta gli americani assai di più di quella iraniana, poiché la Cina possiede mezzi e forza politica per influenzare l'intero impianto del petrodollaro dal quale dipende il potere finanziario e militare americano non solo in Medio Oriente. D’altra parte, l'interesse strategico americano per il petrolio iracheno è stata la principale motivazione della guerra contro Saddam nel 2003.
Il 5 gennaio scorso, Adel Abdul-Mahdi pronuncia in Parlamento un discorso che riceve sorprendentemente poca attenzione mediatica. Per di più, i passaggi più significativi vengono espunti su richiesta del Presidente del Parlamento Mohammed Al-Halbousi, legato a interessi americani.

Abdul-Mahdi afferma[17]: “Gli americani hanno distrutto il paese e provocato il caos. In cambio del completamento dei progetti infrastrutturali concordati, tra cui la ricostruzione del sistema elettrico nazionale, chiedono ora il 50% del petrolio iracheno”. Sempre secondo la ricostruzione di MPN-News[18], il Primo Ministro non cede al ricatto e si rivolge alla Cina (che si accontenta del 20%). Trump avverte Abdul Mahdi di essere pronto a sobillare la piazza utilizzando cecchini dai tetti dell'ambasciata contro manifestanti e forze dell’ordine per generare caos e rivolte di popolo. Non solo, secondo le trascrizioni disponibili nel Parlamento di Bagdad, davanti all’irremovibilità di Abdul-Mahdi, gli americani avrebbero persino minacciato fisicamente sia il Primo Ministro che il Ministro della Difesa.

A questo punto, davanti al rifiuto degli Stati Uniti di ritirare le loro truppe ignorando la richiesta del Parlamento iracheno, Abdul-Mahdi conferma che intende dare integrale esecuzione all'accordo con Pechino, almeno fino a quando egli non sarà sostituito, triplicando le esportazioni di petrolio verso la Cina. Una decisione quella del Primo Ministro che giunge dopo le minacce americane di bloccare il conto che l’Iraq possiede alla Federal Reserve (35 miliardi di dollari), senza il quale Bagdad non potrebbe sopravvivere. Il quadro è dunque chiaro: Cina, Russia e Iran tentano di estromettere gli Stati Uniti dall’Iraq e gli americani, furiosi, ricorrono a una vera e propria gangster diplomacy affinché Bagdad accetti condizioni capestro e tenga lontani i cinesi.

Ma non è tutto. Dopo l’omicidio di Soleimani, Trump afferma che essendo diventati il primo produttore di petrolio e gas al mondo, gli Stati Uniti non hanno più bisogno del petrolio mediorientale e che la politica di Washington in Medio Oriente è destinata a cambiare radicalmente. Non sembra tuttavia che tale affermazione risponda al vero. Sebbene sia oggi meno dipendente dal petrolio, l’America deve comunque impedire che il petrodollaro venga sostituito da altre valute nelle transazioni petrolifere, una precondizione questa che le consente di mantenere lo status di superpotenza, di finanziare il più potente esercito del mondo, i patrimoni finanziari di Wall Street, le guerre, gli armamenti nucleari e i tagli fiscali per i super-ricchi.

Come rileva l’economista statunitense Michael Hudson “l'accesso americano al petrolio, la dollarizzazione e la strategia militare mediorientale degli Stati Uniti sono strettamente intrecciati e volti a sostenere le truppe dell'Arabia Saudita (ISIS, Al Qaeda in Iraq, Al Nusra e altri gruppi) che costituiscono la legione straniera americana, incaricata di sostenere il controllo del Vicino Oriente quale roccaforte del dollaro, strumento del dominio imperiale statunitense nel mondo[19].

Se l'Iraq vendesse petrolio in altra valuta, si aprirebbe un varco pieno di insidie. Il proposito cinese di sostituire (o anche solo affiancare) il petroyuan al petrodollaro costituisce dunque una minaccia esiziale per l’America, che è già stata superata dalla Cina quale primo importatore mondiale di petrolio.

Non conosciamo ancora l’esito del braccio di ferro tra Trump e Bagdad dopo le dimissioni di Abdul-Mahdi. Siamo solo alle prime battute. È tuttavia presumibile che gli americani venderanno cara la pelle e che su questo argine il mondo rischia conflitti devastanti.

Nel settembre 2000, Saddam Hussein aveva annunciato che l'Iraq avrebbe utilizzato l’euro nelle transazioni petrolifere e non più la moneta del nemico, segnando così il suo destino. Incoraggiando i paesi ai quali vende petrolio a utilizzare valute diverse dal dollaro, anche l'Iran tocca il nervo scoperto degli americani e l’omicidio di Soleimani acquista dunque un senso preciso.
In conclusione, le coscienze sensibili all’etica della pace, attonite davanti al barbarico omicidio extragiudiziale di Soleimani e all’avventurismo senza scrupoli di Donald Trump, sono quanto mai preoccupate per ciò che potrà ancora accadere.

Il pericolo per la pace e la stabilità del mondo non viene da una dittatura aggressiva, di stampo comunista o fascista, ma dal nostro principale alleato-padrone, che alimenta il mito della nazione-leader di un Occidente democratico, pacifico e rispettoso del diritto internazionale, un mito dietro al quale si nasconde invece un’oligarchia mai sazia, sostenuta da una presenza militare bulimica (686 basi militari disseminate in 74 paesi[20]. Solo in Italia i siti militari americani sono 113[21] e gli ordigni nucleari tra 65 e 90[22], il cui dispiegamento sul suolo italiano viola il Trattato di Non Proliferazione da entrambi ratificato).

Una nazione governata dai valori dell’individualismo solipsistico e dove la ricchezza è concentrata nelle mani di pochi, un’oligarchia nichilista, avulsa dai bisogni della maggioranza delle popolazioni del mondo e degli stessi americani, è pronta a tutto per difendere i suoi privilegi. Tale sete di potere non può essere contenuta dalle fragili restrizioni del diritto internazionale, ma solo da un profondo mutamento interno (che solo l’ascesa di un innovatore quale il senatore democratico-socialista Bernie Sanders avrebbe potuto innescare!), dall’equilibrio di potere sulla scena internazionale (in particolare da parte di Cina, Russia e altre nazioni resistenti) e da un sussulto (oggi una chimera) di autonomia politico-militare da parte di una Europa rinnovata, ricostruita su basi Confederali (nella impossibilità di un’Europa Federale, chimera fantasmagorica di aspirazioni oniriche) e decisa a riscattarsi dall’asservimento, mettendo così davvero fine alla seconda guerra mondiale, che sulla carta è terminata quasi 75 anni fa.
 

 
[1] la Milizia curda di Protezione Popolare
[2] http://www.italnews.info/2010/10/16/i-dati-ufficiali-dei-morti-nella-guerra-in-iraq/
[3] https://ustr.gov/countries-regions/china-mongolia-taiwan/peoples-republic-china
[4] Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, con sede a Vienna
[5] Trattato di Non Proliferazione Nucleare
[7]American Israel Public Affairs Committee
[8] https://en.wikipedia.org/wiki/List_of_countries_by_proven_oil_reserves;     https://en.wikipedia.org/wiki/List_of_countries_by_natural_gas_proven_reserves
[9] https://www.youtube.com/watch?v=Gg-jvHynP9Y
[10] https://www.asiatimes.com/2020/01/article/battle-of-the-ages-to-stop-eurasian-integration/
[11] vedi Zbigniew Brzezinski, la Grande Scacchiera
[12] https://it.wikipedia.org/wiki/Unione_economica_eurasiatica
[13] Shanghai Cooperation Organization
[14] Asia Infrastructure Investment Bank
[15] https://www.timesofisrael.com/soleimanis-past-actions-were-reason-enough-to-kill-him-trump-says/
[16] https://www.mintpressnews.com/
[18] https://www.mintpressnews.com/hidden-parliamentary-session-revealed-trump-motives-iraq-china-oil/264155/
[19] https://www.counterpunch.org/2020/01/06/america-escalates-its-democratic-oil-war-in-the-near-east/
[20] https://www.tpi.it/esteri/basi-militari-stati-uniti-2017082350311/
[21] http://www.kelebekler.com/occ/busa.htm
[22] https://www.tpi.it/esteri/bombe-nucleari-usa-italia-dati-documenti-20190717372685/


*  Alberto Bradanini è un ex-diplomatico. Tra i molti incarichi ricoperto, è stato anche Ambasciatore d’Italia a Teheran (2008-2012) e a Pechino (2013-2015). È attualmente Presidente del Centro Studi sulla Cina Contemporanea.

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