Ban Ki-moon alla Camera per certificare fallimento dell'Onu. Perché dobbiamo immaginare nuove Nazioni Unite

Ban Ki-moon alla Camera per certificare fallimento dell'Onu. Perché dobbiamo immaginare nuove Nazioni Unite

"Vi è la necessità di una nuova geopolitica che rispetti la sovranità delle nazioni"

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Più volte abbiamo assistito all’impotenza - e spesso all’inutilità - delle Nazioni Unite in contesti cruciali come la guerra. A 70 anni dall’entrata in vigore dello Statuto delle Nazioni Unite e a 60 dalla ratifica da parte dell’Italia, con buona pace del nobile intento per cui è stata creata questa istituzione, l’Onu deve accontentarsi di certificare la sua condizione d’impotenza. 
 
Dire che per 70 anni il sistema non ha raggiunto i suoi obiettivi sarebbe inesatto. Certo, ha garantito la pace globale, anche se a costo dello spostamento di molti conflitti verso la periferia. Certo, ha anche assicurato la decolonizzazione, sostituita da quel rapporto asimmetrico ed ineguale che l’Occidente ha imposto e che è stato perpetuato nell’immobilismo del mondo bipolare e dalla inefficienza dei sistemi economici di comando. 
 
Le Nazioni Unite, nate nel 1945 dal fallimentare tentativo d’inizio Novecento della Società delle Nazioni (il cui risultato fu la Seconda Guerra Mondiale), dovrebbero essere uno strumento “per preservare la pace e la sicurezza collettiva grazie alla cooperazione internazionale”. Ma non funzionano. 
 
La situazione internazionale attuale è segnata da conflitti, interventi militari, violazioni dei diritti delle nazioni e dei popoli, dall'offensiva generalizzata dell'imperialismo per saccheggiare le loro ricchezze nazionali, calpestando il diritto internazionale, tutto con l'obiettivo delle potenze imperialiste di imporre la loro egemonia sul mondo. Gli Stati Uniti e l'Unione Europea, usando come strumento la NATO, fomentano conflitti e guerre in tutti i continenti. Le istituzioni esistenti non sono più adeguate.  E non è un caso se molti pensano che l'attuale sistema sia pronto per un cambiamento. 
 
Oggi ci stiamo muovendo verso la costruzione di un nuovo ordine internazionale, in cui ci sia rispetto pieno per la sovranità e l'autodeterminazione dei popoli, la cooperazione, lo sviluppo e la pace. 
 
L’adesione dell’Italia all’Onu è:
 
valida sul piano internazionale? In Italia in diverse occasioni il governo ha concluso in forma semplificata accordi internazionali ricadenti nell’art.80 della Costituzione. L’esempio forse più clamoroso è la domanda di ammissione dell’Italia alle Nazioni Unite, che avvenne con richiesta nel 1947 da parte del Ministero degli Esteri italiano e che fu accolta soltanto nel 1955 a causa dei veti incrociati tra Stati Uniti e Unione Sovietica. È evidente infatti che l’adesione alla Carta delle Nazioni Unite comportava <> nonché <> e ancor più evidente è la <>della Carta, quale che sia il significato più specifico che a tale espressione si voglia attribuire. L’accordo risulta pertanto concluso in violazione dell’art. 80 Cost. e ci si chiede appunto se debba essere considerato valido sul piano internazionale. (Focarelli)
 
legittima? (Da Scenari economici)
 
A prima vista la domanda può sembrare strana. Eppure la risposta è esattamente opposta a quella che si potrebbe credere. L’adesione dell’Italia alle Nazioni Unite non è infatti conforme al dettato costituzionale. Meglio, ciò che non è conforme è l’adesione alle Nazioni Unite così come attualmente concepite.
 
Non vi deve trarre in inganno il fatto che non abbiate mai sentito porre il problema, infatti è ormai noto il grado di decadimento culturale dei nostri tempi. La gente ha perso ogni senso critico e non è più abituata a ragionare con la propria testa, ci si limita a prendere per buono ciò che ci raccontano personalità che la propaganda accredita come autorevoli 
 
L’art. 11 Cost. è la norma del nostro ordinamento che specifica i paletti alle limitazioni di sovranità. Mentre le cessioni sono sempre un fatto illecito, anche sotto il profilo penale (con buona pace dell’UE), le mere limitazioni di sovranità sono consentite a certe condizioni. L’art. 11 Cost., pensato dai padri costituenti proprio in funzione della futura adesione alle Nazioni Unite (che avvenne nel 1955), presenta due “limiti” alle “limitazioni”: quello della reciprocità e quello del fine della pace. L’Italia può infatti limitare la propria sovranità esclusivamente in condizioni di reciprocità con le altre Nazioni e solo al fine di aderire ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra i popoli.
 
Come noto le Nazioni Unite sono specificatamente finalizzate alla pace ed alla giustizia tra i popoli. Lo statuto infatti è chiarissimo ponendo al primo punto il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Le Nazioni Unite per definizione costituiscono un ordinamento che limita la sovranità a fini di pace. Fin qui tutto bene.
 
Tuttavia vi è un problema enorme. La condizione di reciprocità nelle limitazioni della sovranità prevista non viene minimamente rispettata. L’ONU infatti conferisce poteri speciali ad alcuni Stati con ciò vanificando completamente il suo stesso scopo.
 
L’ONU ha un consiglio di sicurezza così composto: 15 stati, di cui 5 sono i membri permanenti (Stati Uniti, Russia, Gran Bretagna, Francia, Cina) e 10 vengono eletti a rotazione ogni 2 anni dall’assemblea generale. Il fatto di avere alcuni membri permanenti già pone i cinque paesi indicati (le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale più la Cina) in un rapporto di superiorità rispetto alle altre nazioni. Tale superiorità diviene schiacciante se si considera che le 5 nazioni godono anche del diritto di veto, ovvero della possibilità di impedire l’adozione di un provvedimento anche contro il parere degli altri 14 membri del consiglio.
 
La posizione dell’Italia, che non è membro permanente del consiglio, è dunque di palese inferiorità rispetto ai paesi che godono del diritto di veto. La limitazione di sovranità che l’ONU comporta non avviene pertanto in condizioni di reciprocità.
 
Il diritto internazionale andrebbe al più presto rifondato e basato sui valori di uguaglianza sostanziale che sono assolutamente indispensabili per un futuro di pace su questo pianeta. Al contrario fino ad oggi il diritto internazionale si è basato esclusivamente sui rapporti di forza.
 
Nazioni Unite forti e democratiche potrebbero riuscire anche a cancellare il predominio della finanza sulle stesse democrazie, predominio che oggi si verifica incontrastato anche grazie al diritto di veto. La maggior parte dei paesi del mondo viene cannibalizzato dalla speculazione. Molti di tali paesi hanno ben compreso la realtà ma nulla possono in seno alle Nazioni Unite dove qualsiasi risoluzione viene stoppata con il veto. Così oggi un organismo diretto al mantenimento della pace è completamente inabile a contrastare le armi della finanza che ormai rappresentano la nuova forma di guerra e di occupazione armata degli Stati, nonché di sottomissione dei popoli. 
 
Le debolezze dell’Onu. Come analizza correttamente il Magg. t.ISSMI Rosario Castello, l’attività dell’ONU è risultata, come è noto, sin dall’inizio pesantemente condizionata dalla contrapposizione bipolare tra USA e URSS, che disponendo del diritto di veto (insieme con la Gran Bretagna, Francia e Cina) hanno bloccato sistematicamente ogni decisione a loro sgradita. La fine della guerra fredda (1989) e il disfacimento dell’impero sovietico (1991) sembrarono preludere ad un rilancio dell’ONU come garante e legittimatore politico di operazioni per la sicurezza, contro le aggressioni all’equilibrio ed alla pace internazionale e con maggior potere nella risoluzione delle controversie internazionali. Continuando a permanere insoluto il problema della mancanza di strumenti operativi propri, il ristabilimento dell’ordine e della sicurezza è stato affidato principalmente alla NATO che ha conferito concreta solidità alla struttura ONU e che ha assunto di fatto il ruolo di braccio operativo dell’ONU. Come gli eventi hanno dimostrato, le forze di pace delle Nazioni Unite, con le cosiddette missioni tradizionali, hanno mantenuto l’ordine in paesi molto diversi, in Namibia, Salvador, Cambogia, Momzabico, Cipro, creando effettivamente un clima di ritrovata fiducia e realizzando le condizioni di pace. Ma se già la gestione delle crisi seguita alla invasione del Kuwait (guerra del Golfo del 1991) ne ha messo in luce la forte dipendenza dal peso politicomilitare degli USA, divenuta l’unica superpotenza mondiale con tendenze unilaterali, le gravi crisi (Somalia, Ruanda, ex Iugoslavia,) sono tornate a ridimensionarne le prospettive, evidenziando come le forze tradizionali delle Nazioni Unite non riescono ad eseguire il mandato, non avendo una struttura di comando e controllo, un’unità di intenti e la forza militare necessaria per avere successo e per risolvere i casi più gravi e urgenti. Gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, inoltre, hanno impresso un’enorme accelerazione all’“autarchica” riformulazione di nuove strategie di sicurezza da parte degli Stati Uniti, che hanno fatto ricorso alla cosiddetta “guerra preventiva” (Afghanistan, Iraq) senza troppo curarsi di mantenere il contatto con i loro tradizionali alleati e di cercare il consenso della comunità internazionale. Queste debolezze dell’ONU sono un elemento intrinseco alla natura volontaria e collettiva dell’organizzazione internazionale che di fatto costituisce un sistema internazionale di risposta alle situazioni di crisi estemporaneo, episodico e lento invece che fondato su principi riconosciuti, affidabili e decisivo.  
 
La crisi di efficienza delle Nazioni Unite. Come spiega S. Giannini su Diritto&Diritti, “l’ultimo decennio ha stravolto ciò che erano i principi e le aspettative di una società internazionale capace di produrre un tessuto di regole e istituzioni al fine di limitare la competizione fra le due super-potenze. Se, all’indomani del collasso dell’Unione Sovietica, la prima cosa ad essere avvertita fu l’esaurimento dell’enorme fattore di conflitto che aveva permeato le relazioni internazionali post-belliche, il resto del decennio si è occupato di mostrare il rovescio della medaglia: la caotica liberazione di tutti i conflitti congelati (soprattutto in Europa) fino a quel momento, e contemporaneamente lo svuotamento delle regole che erano riuscite a disciplinare il confronto fra le superpotenze con la conseguente crisi dei principi e delle norme costitutive della convivenza internazionale. Se è vero che la fine dell’ordine bipolare e il progressivo avanzamento della globalizzazione hanno stimolato la ricerca di un nuovo ordine internazionale, tale ricerca si è scontrata con le stesse contraddizioni nelle quali si erano già imbattuti i tentativi precedenti. Come il principio di autodeterminazione dei popoli si scontrò con la problematica di dover stabilire una soglia al di là della quale considerare gruppi umani come "popoli", così da un lato il diritto di ingerenza umanitaria se ha eroso la maschera della sovranità, ha eroso, anche, il suo carattere giuridicamente egualitario alimentando il sospetto di essersi trasformato in strumento di supremazia e di ingerenza. Allo stesso modo, d’altro lato, il riconoscimento di diritti intangibili agli individui e alle minoranze se ha affiancato questi agli stati come membri della società internazionale, si è fermato alle soglie della più esclusiva delle prerogative dello Stato, il diritto di fare valere i propri diritti con la forza, indipendentemente dall’appoggio della comunità internazionale.
Malgrado l’enfasi che si continua a porre sulle organizzazioni internazionali e sullo sviluppo di un nuovo diritto internazionale ispirato a principi umanitari, si assiste, così, ad uno smembramento della capacità della società internazionale di dettare aspettative su cui gli stati possano contare.
 
Ciò ha svelato una crisi di efficienza delle Nazioni Unite data da una serie di situazioni incrociate: la latitanza del Segretario generale e del Consiglio di Sicurezza di fronte alle iniziative militari anglo-americane contro l’Iraq; la catastrofe politica e organizzativa dell’Alto commissariato per i rifugiati politici di fronte all’esodo di massa dal Kosovo; la fuga del personale delle Nazioni Unite da Timor Est, all’indomani di un referendum che le Nazioni Unite avevano maldestramente promosso e garantito; la nuova eclissi del Segretario Generale, del Consiglio di Sicurezza e dell’Alto Commissariato dei rifugiati politici di fronte all’ultimo esodo di massa della Cecenia.
 
Questa crisi di efficienza alimenta, a sua volta, una crisi dalle molteplici sfaccettature: una crisi di autorità, cioè del potere che parla e agisce a nome della comunità internazionale, dichiarando quali sono i valori e gli interessi comuni e quando sia necessario o meno intervenire per difenderli; una crisi di credibilità, in sostanza, della capacità di fare e di mantenere le promesse senza mai rinunciare al proprio ruolo; una crisi di responsabilità, e cioè della capacità di fornire soluzioni istituzionali ai problemi (a maggior ragione quando le decisioni di fare qualcosa, come organizzare il referendum sull’indipendenza a Timor Est sollevano apertamente problemi di irresponsabilità); una crisi di legittimità, che emerge dal sempre più instabile equilibrio fra il nuovo principio dell’ingerenza umanitaria e il vecchio principio di sovranità.
 
Il problema si collega a ciò che resta delle istituzioni e delle norme preesistenti della società internazionale, e cioè di quelle norme che prescrivevano quali caratteristiche si dovesse avere per farne parte, per quale ragione ciò che ciascuno stato rivendicava per sé, la sovranità, dovesse riconoscerlo anche agli altri, e a quali condizioni si potesse passare dall’una all’altra delle due tipiche congiunture della vita internazionale, la pace e la guerra.
 
Le vecchie norme della sovranità e della non ingerenza negli affari interni degli stati hanno subito una crescente erosione e una crescente crisi di legittimità; a testimonianza di ciò si registra il vasto consenso che l’intervento militare in Kosovo ha goduto. È altrettanto vero, però, che le nuove norme del diritto e dell’ingerenza umanitaria sono, a propria volta, ancora lontanissime dal costituire il nuovo tessuto istituzionale della società internazionale, e sono destinate a restarlo fino a che non riusciranno a imporsi. In questo margine di ambiguità si inserisce un elemento estremo di semplificazione: lo strapotere politico e militare di una sola potenza chiamata a rivestire il ruolo di unica fonte di sicurezza internazionale".
 
Esigenze di riforma del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Come già ricordato, le istituzioni esistenti non sono più adeguate.  E non è un caso se molti pensano che l'attuale sistema sia pronto per un cambiamento. Sull’esigenza di una riforma della composizione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, avvertita da tempo e riconosciuta dalla stragrande maggioranza, se non dalla totalità, degli Stati membri, interessante il contributo dello IAI, “Ruolo e riforma dell’Onu: posizioni in America e in Europa”. Nel paper si spiega che “il Consiglio di Sicurezza è oggi composto di quindici membri: cinque permanenti con diritto di veto – Cina, Francia Gran Bretagna, Russia e Stati Uniti - e dieci non permanenti eletti per un periodo di due anni e senza diritto di veto (questi ultimi rappresentano le varie aree geografiche: tre l’Africa, due l’Asia, due l’America Latina, due l’Europa Occidentale e una l’Europa orientale).
 
Tre processi che hanno radicalmente mutato la realtà del sistema internazionale hanno fatto apparire sempre più anacronistica questa composizione del Consiglio di Sicurezza. 
 
In primo luogo, dal 1945, anno di nascita dell’Onu, ad oggi il numero degli stati indipendenti membri dell’organizzazione è passato da 51 a 191. Ciò ha naturalmente una serie di implicazioni per l'ONU, prima fra tutte la necessità di garantire una maggiore rappresentatività dei suoi organi, e in particolare del suo organo decisionale supremo, il Consiglio di Sicurezza, la cui composizione, come vedremo in seguito, è rimasta invariata dal 1965.
 
In secondo luogo, gli equilibri mondiali sono chiaramente mutati. Il peso relativo del Sud del mondo è nettamente cresciuto. Ciò è evidente sul piano demografico, ma anche su quello economico, almeno se si ragiona in termini quantitativi. Basti pensare a un paese come l'India, ma anche al Brasile o alla Nigeria. Inoltre, alcuni paesi, che un tempo venivano inclusi nel novero di quelli "in via di sviluppo", hanno raggiunto un livello comparabile a quello dei paesi più industrializzati e competono alla pari con questi ultimi anche sui mercati dei prodotti più avanzati. All'interno dello stesso gruppo dei paesi "più industrializzati", alcuni paesi, come la Gran Bretagna e la Francia, hanno perso sia potere economico che capacità di influenza politica; altri, al contrario, come la Germania e il Giappone, sono oggi molto più ricchi e influenti rispetto a sessant’anni fa, anche se negli ultimi anni il loro tasso di crescita è stato relativamente basso ed hanno pertanto perso terreno sul piano economico. A questa modifica dei pesi relativi dei singoli paesi non ha però corrisposto una diversa distribuzione dei ruoli e delle responsabilità che essi esercitano all'interno dell'ONU. La composizione del Consiglio di Sicurezza rispecchia ancora i rapporti di forza emersi dopo la Seconda Guerra Mondiale. I suoi cinque membri permanenti che godono del diritto di veto sono le potenze uscite vincitrici da quella guerra. Si tratta inoltre degli unici paesi dichiaratamente nucleari, il che può suonare come una pericolosa legittimazione dell'idea che il possesso dell'arma nucleare consenta di ottenere potere e considerazione nei consessi internazionali.
 
 In terzo luogo, la fine della contrapposizione Est-Ovest e la dissoluzione del blocco sovietico ha accresciuto notevolmente le possibilità di cooperazione tra Stati che prima si consideravano nemici, consentendo, fra l'altro, un rilancio del ruolo dell'Onu. Anzi, per la prima volta dalla sua fondazione, l'organizzazione mondiale si è trovata nella condizione di prendere decisioni a tutela della pace e della sicurezza internazionali, suo campo principale di competenza. Durante la Guerra Fredda il Consiglio di Sicurezza era paralizzato dalla prassi dei veti incrociati, che era diventata un'abitudine ogniqualvolta si trattava di deliberare su questioni che, anche 6 indirettamente, potevano riguardare gli interessi, di solito contrapposti, delle due superpotenze. Anche oggi le divergenze tra i membri del Consiglio di Sicurezza, specie fra quelli permanenti, spesso impediscono all’Onu di adottare misure incisive o, peggio, la costringono a rimanere passiva, ma non è sempre così. Dopo la fine della Guerra Fredda sono notevolmente aumentate le missioni realizzate dall’Onu o comunque con l’autorizzazione e su mandato del Consiglio di Sicurezza. E’ stato calcolato che da gennaio 1990 a giugno 2003 si è fatto ricorso al veto su questioni di sostanza 12 volte, mentre nei 45 anni precedenti ben 193 volte3 . Le nuove possibilità di intervento di cui oggi l'Onu gode hanno però posto l'esigenza di reperire risorse aggiuntive e di rendere più efficiente la sua macchina istituzionale. Ma il nuovo attivismo del Consiglio di Sicurezza - la sua accresciuta capacità di prendere decisioni vincolanti - ha anche fatto ulteriormente risaltare la necessità di un adeguamento della sua composizione. Sempre più gli effetti delle decisioni del Consiglio di Sicurezza, proprio perché assai più incisive che in passato, sono avvertiti dagli stati, ma anche dai gruppi sociali e dagli individui. La decisione di imporre delle sanzioni economiche ad uno stato, ad esempio, può mutare radicalmente le sue prospettive di sviluppo e influire pesantemente sulle condizioni di vita dei suoi cittadini. È comprensibile pertanto che siano cresciuti l'interesse degli stati a partecipare alle decisioni del Consiglio di Sicurezza e la richiesta di strumenti più efficaci per controllarne la legittimità. Insomma, quanto più sono aumentati i poteri del Consiglio, tanto più si è avvertita la necessità di una sua riforma. 
 
Il problema della legittimità delle decisioni del Consiglio di Sicurezza è senza dubbio di cruciale importanza. Il Consiglio è abilitato a intervenire ogniqualvolta individui una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale. Accade così sempre più spesso che esso prenda decisioni riguardo alle più diverse situazioni o atti degli stati, dopo averli giudicati tali da configurare una minaccia alla pace. Negli ultimi anni il Consiglio ha in effetti affrontato questioni su cui in passato si asteneva dall'intervenire: i conflitti interni agli stati; le violazioni dei diritti umani di un gruppo minoritario all'interno di uno stato; il rifiuto di uno stato a consegnare suoi cittadini accusati di terrorismo; il mancato rispetto dei risultati di elezioni svoltesi democraticamente. La legittimità di questi interventi è stata posta in discussione, considerato che talora non vi si ravvede una necessità immediata di sventare una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale. Di qui la richiesta che vengano definite regole più precise per giustificare le decisioni del Consiglio, specialmente quelle con valore vincolante. In generale, l'aumento dei margini di discrezionalità del Consiglio lo ha inevitabilmente esposto all'accusa - spesso tutt'altro che ingiustificata - di adottare criteri di valutazione e di decisione non uniformi nei confronti dei diversi stati e delle diverse situazioni. Il rischio costante è che, nell'adottare decisioni anche di importanza fondamentale, il Consiglio si lasci guidare più dalle convenienze politiche dei suoi membri, e in particolare di quelli permanenti con diritto di veto, che da principi oggettivi e universalmente validi. Ma questo aumenta di riflesso l’interesse per una composizione del Consiglio di Sicurezza più ampia e rappresentativa dell’attuale. Per cambiare l'attuale composizione del Consiglio di Sicurezza è necessario modificare l'art. 23 della Carta delle Nazioni Unite. Quest'ultima è, per dirla con il linguaggio dei giuristi, una «Costituzione rigida»: la procedura per la sua modifica è più complessa e richiede una maggioranza più consistente che per altri tipi di deliberazioni. Più precisamente, una modifica della Carta può essere adottata in due diversi modi: con il voto favorevole di 2/3 degli stati che compongono l'Assemblea Generale dell'ONU; con il voto favorevole della maggioranza - inclusi 9 membri del Consiglio di Sicurezza - degli stati membri votanti nell'ambito di una conferenza generale appositamente convocata dall'Assemblea Generale per attuare una revisione della Carta. In entrambi i casi, per la successiva entrata in vigore della modifica è richiesto che essa venga ratificata da almeno 2/3 degli stati membri, inclusi i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. In pratica, a ciascuno dei membri permanenti è assicurato il diritto di veto sull'effettiva entrata in vigore di qualsiasi modifica della Carta dell'ONU, anche se è stata votata da un'ampia maggioranza dell'Assemblea Generale".


Concludiamo con un passaggio dell'intervento del Presidente della Repubblica Bolivariana del Venezuela, Nicolás Maduro all'Assemblea delle Nazioni Unite durante il quale ha sottolineato l'importanza di creare nuove relazioni internazionali, per una politica che sia di "pace, giustizia, uguaglianza, che rigetti ogni intento di egemonizzare, con le minacce o con la forza, il mondo. Vi è la necessità di una nuova geopolitica che rispetti la sovranità delle nazioni".

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