"Con il coronavirus tutto sarà diverso". Ma come sarà dipende da noi adesso

"Con il coronavirus tutto sarà diverso". Ma come sarà dipende da noi adesso

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di Fosco Giannini

 

Tutto questo finirà, ma niente sarà più come prima”: questa è la frase forse più ricorrente, in questi giorni, tra l’esercito di analisti di questa fase segnata dal coronavirus. Non si sa bene a che cosa si alluda con questa frase, che con il suo “ceppo” ideologico oscuro può dire tutto e il contrario di tutto: forse si allude al fatto che, dopo, dovremmo essere più uniti e solidali?

 

Più uguali?

 

Oppure che dovremo essere ancor più attenti alla chiusura dei confini e delle frontiere?

 

Che la serenità la si riconquisterà attraverso lo “status quo ante”, e cioè attraverso il ripristino di quella disuguaglianza strutturale che permette alla minoranza di vivere molto meglio della maggioranza?

 

Oppure che dovremmo essere meno attratti dalle merci e rivolgerci di più ai valori essenziali della vita, tra cui l’uguaglianza sociale?

 

O, al contrario, vuol dire: “Resistiamo, per una fase verosimilmente breve, poiché presto tutto finirà e ricomincerà la festa”?

 

La festa dei consumi sfrenati e della libertà intesa come apologia dell’individuo, dell’individualismo come categoria antropologica necessaria al capitalismo e che oscura, e ancor meglio rimuove, la visione delle altrui sofferenze? E, dunque, delle nostre colpe?

 

Come sempre, il modo ideologico con cui usciremo dalla crisi sarà dettato dai rapporti di forza sociali concretamente in campo. Ma certo sarebbe bene oggi, proprio oggi, in questa fase segnata dalla paura dell’intera popolazione italiana, poter far sì che questa paura si confrontasse con le paure di altri popoli, al fine di dischiudere gli occhi, prendere coscienza, riconquistare umanità.

 

In questi giorni di espansione dell’epidemia gli scienziati, il potere politico, gli artisti chiedono – giustamente- alla popolazione italiana di restare a casa, di sacrificarsi. La paura cresce e le famiglie conoscono il dolore della malattia e delle morti. Non sarà così popolare dirlo, ma se vogliamo che l’esito ideologico, filosofico, di questa crisi epidemica sia il più positivo possibile e ci renda tutti migliori, questo è proprio il tempo di mettere in relazione la nostra attuale sofferenza con quella, anch’essa attuale, contemporanea, di altri popoli, anche a noi vicinissimi. Sofferenze (terribili, incommensurabilmente superiori a quella che oggi noi stiamo vivendo) che alla stragrande maggioranza della popolazione italiana sono tuttora sconosciute.

 

Prendiamo le sofferenze del popolo iracheno: la guerra degli USA, della NATO e di tanta parte del fronte occidentale contro l’Iraq inizia nel 1991 ed è, nell’essenza, ancora in corso. Si voleva il petrolio iracheno sia per i profitti delle multinazionali che per garantire gli alti consumi di tutti noi occidentali. Si voleva eliminare Saddam Hussein, uno non molto incline ad obbedirci. La “nostra” lunga guerra ha prodotto circa 2 milioni di morti tra la popolazione irachena e circa 1 milione di profughi (molti di essi si trasformeranno nel “popolo dei gommoni”, tanto odiato da Salvini). Noi italiani oggi sentiamo il disagio di restare chiusi in casa, per non allargare il contagio. E chiamiamo, questa, sofferenza. Sarebbe bene, tuttavia, proprio in questa circostanza, capire finalmente il disagio di milioni di iracheni che dai primi anni ’90 anni sino ad ora, per i “nostri” bombardamenti, sono senza più casa, senza più acqua, senza più luce, senza più cibo, senza lavoro, senza più ospedali, senza più scuole, tutto distrutto dalle “nostre” bombe.

 

Dal 1991 sino ad oggi: trent’anni. Scriveva già anni fa Cecilia Bertoli, a proposito della guerra contro l’Iraq, in un articolo intitolato “La guerra contro i bambini”: “Secondo un rapporto dell'Unicef pubblicato nel 1998 ogni mese in Iraq muoiono quattromila bambini come conseguenza delle sanzioni economiche (USA e occidentali, n.d.r.), nei primi otto anni di embargo sono morti mezzo milione di bambini. Dall'inizio dei bombardamenti e delle sanzioni è aumentata sensibilmente la diffusione di alcune forme tumorali, linfomi e della leucemia. I medici e gli scienziati iracheni affermano con certezza che senza dubbio questo aumento è dovuto alle armi radioattive e all'uso dell'uranio impoverito, (utilizzato durante la Guerra del Golfo da americani e inglesi su tutti i campi di battaglia del sud). A causa delle sanzioni l'Iraq non può ricevere le apparecchiature e le consulenze scientifiche indispensabili per decontaminare i campi... Allo stesso tempo, il comitato per le sanzioni di New York ha bloccato e trattenuto alcuni strumenti e medicine di importanza vitale: farmaci per le chemioterapie e perfino gli antidolorifici. I medici vedono morire ogni giorno bambini affetti da forme tumorali che con la terapia giusta avrebbero buone possibilità di guarire, e per giunta senza poter nemmeno somministrare loro degli antidolorifici nelle fasi terminali della malattia. Per quello che riguarda la leucemia, i medici sono costretti, dopo la diagnosi, ad aspettare impotenti la morte dei bambini che, con il giusto apporto di farmaci, potrebbero essere salvati. Basterebbe una combinazione di tre antibiotici, ma a loro è possibile somministrarne solo uno, senza perciò sortire alcun effetto. La stessa sorte colpisce i bambini affetti da meningite. Le medicine così come i vaccini arrivano in maniera molto sporadica e discontinua, perciò non è possibile per i medici attuare nessun piano terapeutico per la cura”.

 

In una lettera del 13 settembre del 2000, così scriveva, tra l’altro, padre Jean-Marie Benjamin all’allora Segretario Generale dell’ONU Kofi Annan, in relazione all’attacco militare USA-NATO e Occidente contro l’Iraq: “Un Paese distrutto da 135.000 tonnellate di bombe (dalla guerra del Golfo ad oggi), equivalente a sei volte la potenza distruttiva della bomba di Hiroshima, per di più rinchiuso in un vasto campo di concentramento, che è l’embargo. Epidemie che si sviluppano in tutto il Paese, ospedali che versano in situazioni catastrofiche e quando arriva un medicinale, il dramma dei medici è quello di dover decidere a chi somministrarlo, di fronte a centinaia di casi uno più urgente dell’altro… Dalle cifre dell’UNICEF, il tasso di mortalità infantile “è il più elevato al mondo”: oltre 500.000 i bambini morti, oltre 1.500.000 i civili. Da 56 bambini, al di sotto dei cinque anni, morti su 1000, nel 1991, a 131 su 1000 attualmente. Dal programma mondiale per l’alimentazione, la disponibilità alimentare è scesa da 3120 a 1093 calorie al giorno per abitante. Le malattie mentali sono aumentate in 10 anni del 18% (ultimo rapporto dell’UNICEF del 29 agosto 1999 “Iraq: mortalità infantile e sopravvivenza”)… In Iraq manca di tutto: acqua potabile, latte, verdure, carne, medicine, materie prime, macchinari e pezzi di ricambio. Le categorie professionali più agiate (tecnici, insegnanti, specialisti) sono pagate da 5 a 10 dollari al mese (circa 18.000 lire); le classi medie della popolazione da 3 a 5 dollari al mese (l’equivalente del prezzo di due chili di carne) e le categorie inferiori, che non hanno praticamente nessun reddito, devono sopravvivere alla giornata…Sono state distrutte dai bombardamenti 8.613 scuole (su un totale di 10.334). Nel sistema scolastico, la situazione dell’istruzione e della cultura è catastrofica e rispecchia in pieno l’attuale condizione del Paese. Solo un terzo dei bambini in età scolare riceve un’istruzione adeguata. Molti ragazzi non vanno più a scuola perché costretti a mendicare, altri, per sopravvivere, si lasciano trascinare nel vortice della delinquenza o della prostituzione… Non si tratta solo di un popolo che muore di fame e di malattie da 10 anni, colpito da bombardamenti unilaterali che continuano a distruggere e a seminare la morte, ma di un Paese che da 10 anni deve affrontare la contaminazione radioattiva, con le sue terribili conseguenze: nascita di centinaia di bambini con malformazioni, migliaia di persone colpite da collasso del sistema immunitario, con forte aumento delle infezioni; altre malattie che sviluppano herpes e herpes zoster o sintomi simili a quelli dell’AIDS, disfunzioni renali ed epatiche, aumento spaventoso (fino a 450% l’anno nel sud del Paese) di leucemia, anemia aplastica o neoplasie maligne”.

 

Questi sono solo alcuni passaggi della lunga lettera di padre Benjamin a Kofi Annan e l’intera lettera è il racconto di un immenso orrore che “noi” occidentali abbiamo riversato sul popolo iracheno, che tuttora, in questi stessi giorni in cui noi soffriamo il coronavirus, non conosce pace, ma solo paura, desolazione, miseria e morte. Dopo trent’anni dal primo, “nostro”, attacco!

 

Nel 2011 un esercito immenso e spropositato, sotto il comando degli USA e della NATO e con una forte presenza militare italiana, attacca la Libia. Gheddafi, con Mandela, aveva pensato ad un’Africa unita e autonoma dagli USA, dal dollaro e dall’Occidente capitalistico. Mai l’avesse pensato! La “nostra” risposta è stata la distruzione della Libia, la messa a ferro e a fuoco dell’intero Paese. Centinaia di migliaia di morti libici, centinaia di migliaia di profughi libici. Dal 2011 distruzione degli ospedali, delle scuole, delle città, delle case. Un intero popolo, per anni e anni e sino ad ora, gettato nella disperazione quotidiana, nella paura, nella malattia, nella miseria. In questi primi giorni in cui in Italia si soffre per la paura del coronavirus e si soffre il disagio di restare chiusi nelle case, si pensi al milione e mezzo di libici che in queste stesse ora vivono senza casa, senza acqua, senza lavoro, senza assistenza sanitaria, morendo di tutto. E tutto ciò non da pochi giorni, ma dal 2011 e per colpa della “nostra” guerra!

 

La stessa distruzione in Siria: gli USA, la NATO, l’Ue non volevano Assad e via con il massacro bellico. 300 mila morti, un milione di profughi, la vita di un intero popolo, il popolo siriano, diventata un inferno quotidiano, un inferno da vivere, per anni e anni, attorno alle macerie della propria casa, con la morte dei bambini per denutrizione e malattie semplici da curare ma mortali per l’assenza dei medicinali, trascinando l’esistenza, per anni e anni, da una maceria all’altra, da un fuoco di guerra all’altro, da una morte all’altra. Tutto vicino a noi, oltre il nostro mare, ma nella nostra quasi totale inconsapevolezza. Non vedendo nulla o fingendo di non vedere nulla, negli agi precedenti il coronavirus.

 

E morti e distruzione, fame, miseria, leucemia per uranio impoverito nella guerra appena al di là del Mare Adriatico, contro la Jugoslavia, guerra degli USA, della NATO, dell’Italia. E guerra nazifascista in Ucraina, “golpe” fascisti con fiumi di sangue, voluti dagli USA e dal “nostro” Occidente, nei Paesi dell’America Latina, da Pinochet ai nostri giorni, contro Lula e Morales. E la vita terribile, come in un lager lungo 50 anni, del popolo palestinese, a poche ore di volo da noi.

 

Tutto ciò non certo per sminuire la paura e il pericolo che in questi giorni soffriamo, anche in Italia, soprattutto in Italia, per il coronavirus. Non per questo. Ma per capire, ora che anche noi soffriamo, quanta sofferenza abbiamo disseminato! E per relazionarci con la questione che oggi tutti sollevano: “Dopo l’epidemia niente potrà essere come prima”. Bene: solo a partire dalla consapevolezza di quanta sofferenza, quanta morte, quanta paura, quante malattie, quanta distruzione abbiamo gettato “noi”, occidentali e imperialisti, “noi” italiani nel mondo, solo negli ultimi anni, anche vicino ai nostri confini, anche per garantirci il nostro alto livello di vita, solo così potremmo far sì che davvero “nulla più sia come prima”. Nel senso che si potrà uscire dalla paura che oggi dissemina il coronavirus solo attraverso una nuova società solidale, solo attraverso il pensiero dell’uguaglianza, delle garanzie sociali (valore collettivo ben più grande di un’automobile di lusso, di un viaggio alle Maldive: ora lo capiamo?), l’abbandono dell’egoismo individualista e capitalista.

 

Un pensiero che ci porti a vivere gli altri popoli come fossero il nostro popolo, come fossimo noi, a vivere le sofferenze degli altri popoli come fossero le nostre. E se ciò non accadrà, se “dopo non cambiasse nulla”, anche la nostra attuale sofferenza sarebbe stata vana. Non avremmo capito perché, nel punto alto dell’attacco del coronavirus, gli ospedali italiani non bastavano a fronteggiare quell’attacco, perché i medici e gli infermieri erano insufficienti, non avremmo capito nulla delle politiche liberiste, capitaliste, imposte dall’Unione europea quali basi materiali della distruzione dell’intero stato sociale. Non avremmo capito nulla del perché, anche al tempo del coronavirus, i più ricchi avevano potuto molto più agevolmente difendersi dall’epidemia, anche curandosi o appartandosi in cliniche private di lusso, in resort di lusso, come ora accade.

 

Ricominceremmo a camminare ciechi, avidi, feroci, di nuovo portatori di morte per gli altri popoli. E per il nostro popolo, di noi stessi, uno per uno. Perché non cambiare, non invertire il cammino collettivo altro non porterebbe che a spalancare di nuovo le porte, un giorno o l’altro, a nuove sofferenze, a nuovi e sempre ciclici drammi sociali. Perché la legge capitalistica non perdona. Essa esporta ed importa la sofferenza, la paura e la morte con brutale uguaglianza.

 

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