Dipendenti della Pubblica Amministrazione? Becchi e bastonati

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Dipendenti della Pubblica Amministrazione? Becchi e bastonati

 

 

 di Emiliano Gentili e Federico Giusti 

In caso di malattia le fasce di reperibilità dei dipendenti pubblici sono pari a 7 ore giornaliere, rispetto alle 4 vigenti nel privato. Questa situazione discriminatoria è risultato della incessante campagna contro il settore pubblico e il suo personale. Come se non bastasse, negli ultimi 20 anni i dipendenti statali hanno subito 9 anni di blocco della contrattazione, la riduzione del personale tramite mancate assunzioni (che ha comportato l’aumento dei carichi di lavoro) e quella considerevole perdita del potere d’acquisto salariale che ci condanna ad avere la forza lavoro pubblica meno pagata fra i paesi europei “economicamente avanzati”. Ciò ha fatto il paio con l’inasprimento dei codici di comportamento per il personale, più volte riscritti nell'ottica di rafforzare l’obbligo di fedeltà aziendale e aggravando con ciò le sanzioni per innumerevoli violazioni, così come avvenuto diffusamente nel settore privato.

Tacciamo poi sulla gran quantità di Sentenze sensazionali contro i dipendenti infedeli, successivamente derise e smontate in sede Giudiziaria. In ultimo, come non citare l’innalzamento dell’età dei dipendenti, visto che abbiamo la forza lavoro pubblica più vecchia d’Europa? Lavoratori eccezionalmente anziani sono sottoposti a livelli di stress psicofisico e di rischio-infortunio crescenti, anche proprio per via della minore sopportabilità dei carichi di lavoro negli ultimi anni della carriera. Secondo l’Inail, «Con l’avanzare dell’eta? tendono a ridursi alcune capacita? individuali, principalmente fisiche e sensoriali, e si vedono aumentare malattie croniche, come i tumori e i disturbi muscolo-scheletrici, spesso favoriti dalla pregressa esposizione. (…) le malattie professionali degli over 55 (…) aumentano per gli uomini dal 44,3% al 62,6% (+41%) e per le donne ancora più? sensibilmente, dal 29,3% al 45,7% (+56%)»[1].

Ma la crociata contro i lavoratori pubblici è stata un lungo percorso e non può essere ricondotta solo all'ex Ministro Brunetta, come a volte si tende a fare, quando invece le responsabilità sono da condividere anche con innumerevoli governi formati dalle più svariate coalizioni. Questi hanno dato in pasto all’opinione pubblica una immagine ridicola e denigratoria dei dipendenti statali, facendoli passare per "nullafacenti" e arrivando a ordire contro di loro delle vere e proprie campagne stampa. Se confrontiamo gli investimenti statali europei per i servizi pubblici l'Italia è agli ultimi posti, come del resto lo sono i salari percepiti e, chiaramente, tale situazione non può essere altro che il frutto avvelenato di tanti anni di politiche a senso unico.

Se il “Brunettismo” ha ad esempio fatto scuola funzionale ai processi di privatizzazione ed esternalizzazione, agli appalti al ribasso all'ombra del pubblico e alla applicazione di contratti sfavorevoli per giustificare la convenienza degli stessi appalti, il DM 206/2017 è stato invece una delle tante disposizioni attuative della deleteria “riforma Madia”, rispetto alla quale i sindacati non hanno mai voluto costruire una campagna seria atta a distruggerne le fondamenta.

Una misura, la Riforma Madia, che si prefiggeva un ambizioso progetto: riformare profondamente la Pubblica Amministrazione attraverso una serie di provvedimenti, via via dimostratisi parziali se non proprio fallimentari (inasprimento dei procedimenti amministrativi, digitalizzazione, razionalizzazione e controllo delle società partecipate, misure anticorruzione a favore della trasparenza).

A distanza di anni buona parte di questi obiettivi di ammodernamento della macchina amministrativa pubblica sono letteralmente falliti, eccezion fatta per i procedimenti e i codici disciplinari (come abbiamo potuto verificare nei mesi pandemici, con la sospensione di tanti Rappresentanti e lavoratori che hanno denunciato pubblicamente la carenza o l’assenza di Dispositivi di Protezione Individuale).

Sono trascorsi una quindicina di anni da quando Brunetta partì con la famosa campagna contro i “fannulloni”, quando fu introdotta una aberrante norma sulla malattia con decurtazioni economiche nei primi dieci giorni di assenza dal servizio e l’applicazione di fasce di reperibilità di 7 ore rispetto alle 4 del settore privato. Nel frattempo i buoni pasto sono rimasti fermi (oramai da lustri) alla risibile cifra di 7 euro, nonostante l’inflazione... 

L'indebolimento della immagine della PA, però, è stato anche funzionale ad altri processi. Prima accennavamo a esternalizzazioni e appalti, ma potremmo anche menzionare la carenza di personale atto a combattere le evasioni fiscali, gli abusi edilizi, il mancato rispetto delle normative in materia di sicurezza sul lavoro… fino alla débâcle della sanità pubblica, con migliaia di infermieri, tecnici, OSS e medici oggi mancanti all’appello del nostro Sistema Sanitario. Almeno in parte, tutto ciò è passato quasi come una lotta contro dei privilegiati: non è per nulla diffusa la consapevolezza che la riduzione delle risorse in capo all’amministrazione pubblica (per quanto ciò faccia il paio con alcuni processi di snellimento burocratico ed efficientamento tecnologico) non comporti, né potrebbe mai comportare, alcuna forma di redistribuzione verso gli strati più bassi della forza lavoro dipendente nel privato, quanto piuttosto un indebolimento dei servizi pubblici riconducibili al concetto di “Stato sociale”, che interessano tutti i lavoratori.

Ebbene, in tale contesto viene oggi sconfessato il Decreto Ministeriale n. 206 del 17 ottobre 2017, che individuando le fasce orarie lunghe disciplinava le modalità di svolgimento delle visite fiscali e l'accertamento delle assenze per malattia. Questo grazie a un pronunciamento del Tar Lazio, con la Sentenza n. 16305 del 3 novembre scorso. Tale Sentenza, allora, rappresenta forse una buona occasione per fare un minimo di chiarezza su quanto accaduto negli ultimi 20 anni, e non solo per la questione delle fasce di reperibilità (ricordiamoci, ad esempio, che nella PA non esiste la quattordicesima e che nei vari comparti permangono differenze salariali rilevanti).

Sarebbe anche l’occasione per confutare alcuni luoghi comuni imperanti perfino nel linguaggio utilizzato in sede (cosiddetta) “giuridica”, ad esempio laddove si parla di armonizzare le norme tra pubblico e privato. Citiamo testualmente un passaggio dalla Sentenza del Tar Lazio: «In questo modo è evidente che non è stata assicurata l’armonizzazione della disciplina dei settori pubblico e privato, alla quale il decreto era chiamato, relativamente alle fasce orarie di reperibilità, che sono rimaste profondamente differenziate, in modo decisamente più penalizzante per i dipendenti pubblici».

Lo stesso concetto di armonizzazione induce a innumerevoli equivoci. Ad esempio, le normative del pubblico devono adeguarsi a quelle private o viceversa? Ed è forse guardando alle norme operanti a livello comunitario che le leggi che regolano la PA italiana dovrebbero essere oggetto di revisione? Nell’immaginario collettivo il dipendente pubblico è stato presentato nel corso degli anni come una sorta di privilegiato rispetto al lavoratore privato, salvo poi scoprire che in un comparto come gli Enti locali il salario è assai più vicino a quello degli appalti ove si applica il CCNL Multiservizi che ai Ministeriali. Oggi, con la Sentenza del Tar, si afferma una idea diversa di armonizzazione e le fasce di reperibilità vigenti nel pubblico dovrebbero essere uniformate alle condizioni di miglior favore dei dipendenti privati.

Comunque vogliamo interpretare il concetto di armonizzazione normativa, risulta evidente la disparità tra pubblico e privato contro cui arriva oggi il pronunciamento del Tar. Anni fa, infatti, anche il Consiglio di Stato si espresse criticamente sullo stesso tema (per quanto quel parere, come molti altri, non venne mai preso in considerazione dal Parlamento), denunciando come il mantenimento di tale disarmonia fosse ingiustificato e si sostanziasse, pertanto, in una evidente violazione dell'art. 3 della Carta Costituzionale (che sancisce il principio di uguaglianza). Ebbene, l’odierna Sentenza fa riferimento proprio a quella denuncia. Non solo: è sorto anche un evidente contrasto con la Direttiva europea n. 2000/78/CE, che riguarda la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro e che, se non rispettata, potrebbe procurare all’Italia una procedura d’infrazione e poi una multa salata.

Oggi, dunque, dopo la sentenza del Tar ci attende l'ennesimo decreto correttivo, in attesa del quale esiste un autentico vuoto normativo che mette la PA davanti a un bivio: perseverare con le fasce lunghe o adattarsi preventivamente a quelle brevi. Sicuramente sarà chiamata l'Aran (Agenzia per la rappresentanza Negoziale delle Pubbliche Amministrazioni) a emettere un qualche parere in tempi rapidi, ma l'occasione resta per noi propizia per avanzare l’idea di una profonda revisione di gran parte delle norme vessatorie contro il personale pubblico.

In conclusione ci sembra quindi che sarebbe un grave errore, nell’affrontare la questione politicamente, limitarsi ad aspetti meramente interpretativi e applicativi, senza allargare il discorso al processo di smantellamento del settore pubblico e ai danni che questo già comporta, e continuerà sempre più a comportare, per l’intera popolazione lavoratrice italiana.

[1] INAIL: Invecchiamento della popolazione attiva: una lettura del fenomeno a partire dai dati del sistema MalProf. Scheda 9, p. 5, 2023.

 

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