Filippo Intili, Peppino Impastato e lo stesso copione che si ripete oggi a Gaza
di Vera Pegna e Giulio Pizzamei*
Ho scoperto la storia di Filippo Intili alla fine degli anni ’50 quando sono andata per la prima volta a Caccamo, in provincia di Palermo, nota come la roccaforte della mafia. I due anni passati a Partinico a fianco di Danilo Dolci, mi avevano convinta che il metodo di lotta non violenta da lui proposto era estraneo alla cultura siciliana, per cui mi sono presentata alla federazione del Partito Comunista di Palermo. L’allora segretario della federazione, Napoleone Colaianni, vista la mia immaturità politica, mi propose, per “farmi le ossa”, di andare a Caccamo dove era in corso una campagna elettorale per elezioni municipali fuori turno, quelle precedenti essendo state annullate per brogli.
Giunta a Caccamo alla sede del Pci-Camera del Lavoro, notai appeso al muro, accanto alle foto di Stalin e di Togliatti con, in mezzo, l’immagine di Santa Rita, la santa dei miracoli impossibili, il ritratto di un uomo dallo sguardo chiaro e dritto e chiesi ai compagni chi fosse. Mi raccontarono la storia di Filippo Intili, mezzadro e sindacalista, trucidato dalla mafia nel 1952. Mi dissero che Filippo era consapevole dei pericoli che correva, ma determinato a guardare oltre pur sapendo quanto violenta fosse la mafia locale e temibile’ l’imponente apparato di potere che si iestendeva fino in parlamento.
Sull’assassinio di Filippo Intili, a Caccamo era calata una spessa coltre di silenzio, al punto che al cimitero non trovai una tomba a suo nome. Da una ricerca nei registri risultò che Filippo era stato tumulato col numero 53 e che nessuno lo aveva mai cercato, essendo la famiglia emigrata subito dopo la sua morte.
L’omertà aveva vinto.
Identica fu la sorte di Peppino Impastato, nel mirino del medesimo apparato di potere: dalla sua Radio Aut raccontava la verità dell’oppressione e dello sfruttamento mafiosi, la cantava e la gridava e questo non andava bene perché le grida le sentono tutti, col rischio che si mettano a gridare anche loro.
Ieri era il 10 agosto e alla notizia che, a Gaza, l’esercito israeliano aveva ucciso il giornalista Anas Al-Sharif e 5 suoi colleghi, dai recessi della mia memoria sono emerse , vivide, le figure di Filippo Intili e Peppino Impastato.
Sono emerse perché il copione è lo stesso, seppur di sproporzionata misura quello che Anas ha avuto davanti: l’alleanza militare, diplomatica e strategica più potente dell’intero Occidente dotala degli eserciti più tecnologici del mondo. E non da ieri. E’ da prima del 1948 che il popolo palestinese è il bersaglio, l’ostacolo che si frappone al progetto sionista di appropriazione dell’intera Palestina. A chi si meraviglia che il popolo palestinese esista ancora e che sia determinato, come lo è, a guardare oltre vorrei dire che la ragione è data dalla sua realtà di popolo intrinsico alla terra di Palestina, condizione di stridente diversità da quella israeliana dove è lo Stato che si è inventato un popolo.
Anas era consapevole del pericolo che correva e l’ha lasciato scritto nel suo testamento. Sapeva raccontare e sapeva gridare, anche se spesso a farlo per lui erano gli orfani, i genitori senza più figli, i nonni senza più nipoti. Il silenzio non è un’ opzione quando la gente attorno a te urla di disperazione. Anas, come Peppino, come Filippo, è stato ammazzato per avere scelto di rompere la coltre di menzogne che con tanta cura è stata, e continua a essere, tessuta. Anas, come Peppino, è stato accusato di terrorismo, di essere lui il pericolo, non per il suo assassino ma per la gente a cui tentava di dare una voce.
A volte mi chiedo quanti Anas, quanti dei suoi 240 colleghi assassinati da Israele, quanti Filippo Intili sono sepolti sotto le macerie di quella che un tempo era Gaza, quanti Peppino Impastato sono rinchiusi nelle carceri israeliane in attesa di un processo che non arriva mai. Quanti eroi umili ci vogliono per cambiare le cose?
Nei tempi bui che stiamo vivendo, con una classe dirigente italiana ed europea a dir poco ignominiosa per inettitudine e immoralità, la bandiera palestinese ci galvanizza. La resistenza di un popolo oppresso e spesso dimenticato contro l’establishment che sfrutta, brucia il pianeta, che divide per profitto, che quando è in difficolta mente e se non basta arresta e se non basta uccide fa da faro per tutti i perseguitati, gli speranzosi e gli oppressi della terra. Nella nostra storia è stato chiaro fin dal principio il divario tra l’oppresso e l’oppressore, e come spesso quest’ultimo ha potuto agire impunito grazie ad un omertoso silenzio. Ebbene, questa volta nel mondo intero l’indifferenza, invece che la regola, sta diventando l’eccezione.
Non ci sono solo santi, oppressi e sfruttati tra quelli che alzano la testa, ma anche gente stanca di abbassare lo sguardo e di essere umiliata e perché, come Filippo, ha capito che non c’è altra scelta: sappiamo che i problemi del nostro tempo, il pericolo atomico, la guerra, il cambiamento climatico, il divario sociale, lo sbiadimento della democrazia tocca a noi affrontarli perché la storia insegna che non è mai dall’alto che avvengono i cambiamenti che contano.
*Vera Pegna. Attivista, traduttrice e scrittrice. Autrice, tra le altre opere, di "Autobiografia del novecento. Storia di una donna che ha attraversato la storia", Il Saggiatore, 2018.
Giulio Pizzamei. Studente diciannovenne di Scienze politiche alla Sapienza. Attivista propal e nel movimento studentesco