Fulvio Grimaldi - In margine alla “Marcia per Gaza”. Dalla nazione araba ad “Abramo” e ora tocca all’Egitto?
di Fulvio Grimaldi
Mentre scrivo siamo alla vigilia dello sbarco al Cairo della Global March to Gaza, mentre verso la stessa destinazione veleggia la collaudata Freedom Flottiglia. Volontari egiziani di varie associazioni sono pronti in Egitto per accoglienza e successivo spostamento ad Al Arish e, poi, l’effettiva marcia a piedi di 45 km fino al valico di Rafah, da tempo sotto controllo israeliano.
Lì, inesorabilmente, i marciatori si areneranno. Mi ci sono arenato anch’io l’altro anno, assieme a Marc Innaro (l’ottimo e perciò demensionato collega RAI) e tanti altri prima e dopo di me. Colleghi appesi all’illusione che anche in Israele, cioè nella Palestina occupata, valesse il diritto universale della libera informazione, cardine della democrazia di cui Israele sarebbe l’unico rappresentante in Medioriente. La risposta è stata l’uccisione di 220 giornalisti di Gaza.
Bisognerebbe dire che ce n’è per fortuna già tanta, di attenzione mondiale sulla carneficina di Gaza, in cui si mira a bambini, donne, ospedali, scuole, rifugi, tende e, con particolare cura, a scheletri di affamati che si avvicinano dove mercenari USA , con pezzetti di formaggio, allestiscono trappole per topi. Lo dobbiamo a coloro, colleghi anch’essi, ma stanziali a Gaza, che per averci fatto vedere l’abisso della nequizia israeliana e del dolore palestinese, sono stati disfatti davanti a un computer e un cellulare, preferibilmente nella loro casa assieme a tutta la famiglia. E così che un baldo riservista della “Golani” può vantare due genitori e dieci figli fatti a pezzi con un missile solo, meritando che il ministro Katz gli appunti sul petto l’onorificenza per meriti sionisti.
Il dato di un rapporto tra partecipanti europei e arabi alla Global March, a spanne di 20 a 1, ci presenta una realtà storica inimmaginabile tra oggi e quando ebbi modo di trasmettere a Paese Sera dispacci sugli esiti delle battaglie tra l’esercito di Dayan e la coalizione araba. Questa, sì, zeppa di giovani volontari egiziani. libici, iracheni, siriani, giordani, yemeniti, perfino kuweitiani. Mentre turbe di loro connazionali tumultuavano nelle strade di casa giurando “morte a Israele!” e “Viva!” all’appena nata OLP, oggi da Abu Mazen discreditata peggio di Vichy.
C’erano Nasser, Assad, Gheddafi, Boumedienne, l’appena spuntato Arafat e i pilastri della prospettiva strategica erano l’ideologia del panarabismo e la strategia della Nazione Araba. Hanno reagito con forza e nel tempo quelli cui era insopportabile l’idea che potesse esserci una nazione di quasi mezzo miliardo di persone dalla comune storia, cultura, lingua e religione, distesa tra due oceani, un mare e il continente più ricco dei cinque. Tutto questo a circondare quel grumo razzista, iperarmato fino all’atomica, della rivincita colonialista, che avevano saputo installare lì in mezzo.
Oggi ci sono i Mohamed bin Salman Al Saud, gli Al Thani del Qatar, i bin Zaied, o bin Rashid, degli Emirati, gli Al Sabah del Kuweit, gli Al Khalifa del Bahrein… Al tè delle cinque si ritrovano con omologhi occidentali, tipo Larry Fink ((Blackrock), Zuckerberg, Nadella (Microsoft), Rockefeller, Rothschild, Raytheon, Lockheed Martin, Leonardo… e al diavolo le problematiche confessionali. A portare pasticcini c’è sempre una Meloni.
Qui, a parlare di nazione araba, ti guardano come se ti fossi risvegliato dopo mezzo secolo di coma. La questione non è più nazionale. E famigliare, è dinastica, è commerciale, è di mercato, e di ricchi e poveri, è di classe. E noi in Occidente, oltre ad averlo auspicato, lo abbiamo salutato come un ritorno ai sani principi della democrazia. E se qualcuno non ci dovesse credere, come si sa, a Bruxelles munifici lobbisti rimediano a tutto. Perfino a qualche centinaio di ammazzati dalle condizioni di lavoro per gli stadi del mondiale a Doha. Ricordate il Qatargate, protagonisti parlamentari italiani? Un caso fra tanti.
C’è questo nuovo allineamento e la pietra di paragone sono Gaza, la Cisgiordania, la Palestina, dove tutto avviene senza che un arabo proletario (cioè non libanese, non yemenita, non iracheno), uno delle famose masse arabe, possa metterci becco. Sì, la Lega Araba, celebrando una funzione rituale dalla stessa forza operativa del gioco delle sedie musicali, ha arricciato il naso davanti al Resort Riviera di Gaza, proponendo che invece, a rifare Gaza fossero gli stessi gazawi. Ma, per gli attori che contano, la cosa è morta lì. Mentre Jared Kushner, l’agente immobiliare di Trump, andava misurando col telemetro Laser le distanze tra Hotel, Casinò, passeggiata lungomare e megaporto yacht.
In queste petromonarchie, dal cordone ombelicale che con un capo è immerso nel giacimento di petrolio e con l’altro in una qualche banca nel resto del mondo, non si parla di lotta di classe, neanche di classi. Quella di classe non è mai partita perché manca uno dei due contendenti, le masse, quelli in basso. Di classi ce n’è solo una e, sotto, qualcosa di indistinto, che non a che fare con l’idea di popolo. Abbiamo una famiglia di alcune migliaia di membri, una pletora di valletti nel ruolo di funzionari e per il resto immigrati sotto ricatto di espulsione nel Bangladesh, o in Afghanistan. Che spariscono oltremare appena dovessero osare pretendere un diritto. Fa eccezione l’Arabia Saudita: 33,6 milioni di abitanti che non possono essere tutti famigliari dei Saud.
L’Arabia Saudita è l’unico sceiccato a cui il terreno sotto ai piedi potrebbe tremolare (e un po’ ha tremolato, portando le donne fino a guidare le auto) se in quei 33,76 milioni maturasse un minimo di coscienza, tipo sulla Palestina. Ecco perché è Riad oggi la capitale che sembra tenersi più distante e cauta rispetto al progetto tarallucci e vino, detto “Abramo”.
Oded Yinon, le “primavere arabe” e il disfacimento dell’unità araba
Il progetto formulato dal consulente strategico del governo israeliano alla fine degli anni ’80, Oded Yinon, “Piano sionista per il Medioriente”, aveva previsto tutto e buona parte del tutto è stata attuata. Via, con una doppietta di colpi, l’Iraq: mercenariato islamista e bombe Nato, con supporto logistico israelo-turco, per sistemare Libia e Siria. Ed ecco che i capisaldi della “Nazione Araba” e la prima linea della resistenza alla penetrazione atlantico-sionista erano stati neutralizzati. Restava l’Egitto. 120 milioni di abitanti. 5000 anni di Storia, il Nilo, la porta dell’Africa, il cuore del mondo arabo, un caposaldo laico renitente ai cari Fratelli Musulmani concepiti a Londra negli anni’20 del secolo scorso.
E qui la resa dei conti con la Nazione Araba non si è perfezionata. Con Sadat, quello degli accordi di Camp David, micidiali per la prospettiva di una Palestina libera e con il despota Mubaraq, il più grande Stato arabo si era progressivamente spostato verso Occidente, con un esercito che era finito totalmente alle dipendenze dei rifornimenti e finanziamenti statunitensi e con una posizione geopolitica che, rispetto alle questioni arabe e relative guerre, si manteneva sostanzialmente alla finestra.
La cosiddetta “primavera araba” in Egitto aveva posto fine alla dittatura del vecchio comandante dell’aeronautica e pilota-eroe di Nasser, finendo però in mano alla Fratellanza Musulmana, da decenni forza eversiva antilaica con ampio ricorso al terrorismo. L’esito aveva confermato una posizione del paese ai margini della questione palestinese. Il presidente Morsi durò poco. Il suo governo caratterizzato da fondamentalismo religioso, con tanto di sharìa e assalti alle chiese cristiano-copte, da repressione sociale e divieto di scioperi, fu spazzato via da una nuova rivolta popolare. Su quest’onda arrivarono al potere i militari con il generale Abdelfattah Al Sisi. Tornò un assetto laico e nazionalista, confermato in successive elezioni.
La sconfitta della Fratellanza Musulmana fu presa male, non solo dagli sponsor qatariota ed emiratini, ma anche da coloro che in Occidente ambivano al controllo delle risorse energetiche dell’Egitto e diffidavano delle mosse di un presidente che, pur mantenendo i tradizionali rapporti con gli USA (fornitori di 1 miliardo e mezzo in armi, prima bloccato e poi ripristinato da Biden), pareva volersi dare un orizzonte d’azione più esteso.
Risulta consolidato il consenso di massa grazie ad alcune iniziative che favoriscono economia e la funzionalità dello Stato. In pochi mesi il potenziale del Canale di Suez viene raddoppiato con relativi benefici agli introiti dai diritti di transito. L’impraticabile capitale dei 20 milioni di abitanti viene decongestionata con la creazione di una nuova città delle Istituzioni, a ovest del Cairo, collegata all’ enorme progetto agricolo “New Delta” . Al turismo in tumultuosa crescita vien offerto il nuovo modernissimo Museo Egizio, detto “Settima meraviglia”. Nascono ospedali, che ho avuto l’occasione di vedere visitando i bambini di Gaza lì ricoverati a centinaia e che reggono il confronto con i più avanzati d’Europa.
Vengono stretti rapporti, anche militari, con Mosca, la visita al Cairo di Xi Jinping è prevista per questi giorni, con relativa prospettiva di scambi e investimenti, in Libia si preferisce il generale Haftar, uomo forte del governo legittimi esiliato a Bengasi, rispetto alle bande islamiste di Almasri, graziato da Nordio, che imperversano a Tripoli sotto protezione turca.
All’interno, Al Sisi deve affrontare la reazione terroristica della Fratellanza, con attentati che colpiscono personalità della politica e della magistratura e una rivolta armata che impegna l’esercito nel Sinai. All’esterno si aggrava la minaccia di una crisi economica di portata incalcolabile. Minaccia accentuata dall’Etiopia e dalla sua megadiga “Della Rinascita” sul Nilo, il cui riempimento rischia di prosciugare l’agricoltura egiziana con effetti spaventosi sull’intero paese. Il 97% dell’acqua consumata in Egitto è del Nilo. Si tratta di vedere come il presidente etiope, Abiy Ahmed, già dimostratosi aggressivo nei confronti della Somalia e dell’Eritrea, a cui vuole strappare un accesso al Mar Rosso, la metterà con gli Stati Uniti, antichi sponsor.
In ogni caso la ricomparsa della massima potenza demografica, strategica e militare dello spazio afro-mediorientale, in un ruolo di rilievo per gli equilibri regionali e gli interessi euroatlantici, suscita preoccupazioni e reazioni. Partono le immancabili campagne ONG e mediatiche centrate sui soliti diritti umani, sulla riduzione degli spazi democratici, su detenuti tutti “prigionieri politici”. Diritti non certo violati nella misura di paesi della regione che l’Occidente frequenta senza problemi.
Giulio Regeni, una missione egiziana da reinterpretare
In questo contesto si inserisce la vicenda del giovane ricercatore italiano Giulio Regeni, di cui, peraltro, fino ad oggi, si tende a ignorare il retroterra politico-professionale e gli aspetti specifici della sua missione al Cairo. E chi lo fa, peste lo colga, come mi ha dimostrato il sito “Open” di Mentana. Il suo corpo, segnato da torture, viene ritrovato nella capitale, abbandonato in bella vista su una strada di intensa circolazione.
E’ il 3 febbraio, nove giorni dopo la scomparsa del giovane e con Al Sisi si incontra una delegazione italiana di ministri e imprenditori, ENI in testa. Si devono definire accordi per scambi e investimenti per miliardi di euro. In particolare, è previsto un ruolo privilegiato dell’ENI nella gestione del giacimento Zhor, al largo di Alessandria, che lo stesso ente di Stato italiano aveva scoperto. Sarebbe stato a scapito di concorrenti come le britanniche BP e Shell. Con la notizia del ritrovamento del corpo di Regeni, l’incontro è sospeso e rinviato sine die. Con probabile soddisfazione di concorrenti dell’ENI e di coloro a cui la ricomparsa sulla scena geopolitica dell’Egitto non garba troppo.
Della vicenda di Regeni al Cairo ci è stato raccontato molto. Molto meno sui trascorsi e sui riferimenti professionali del ricercatore di Cambridge, impegnato al Cairo, si racconta, nella “promozione di diritti umani”. Regeni ha alle spalle la formazione in una catena di elitari istituti scolastici (“Collegi del Mondo Unito”) riservati ai futuri quadri delle classi dirigenti. Fondati negli anni trenta in Germania da Klaus Hahn, i Collegi del Mondo Unito vedono il loro quartier generale trasferito in Scozia, dove quell’istituto diventa la scuola anche di membri della famiglia reale britannica, da Filippo d’Edimburgo all’attuale re Carlo.
Al culmine della guerra fredda Klaus Hahn, propone ad Allen Dulles una collaborazione con la CIA per la formazione e mobilitazione di giovani usciti dalla sua scuola, in vista anche di attività di infiltrazione di provocatori in Unione Sovietica. Risulta chiaramente da una corrispondenza scambiata con il capo della CIA.
Regeni presta la sua opera, negli anni precedenti alla spedizione cairota, per una Società Internazionale di Spionaggio industriale, La Oxford Analytica. Fondatori e dirigenti della stessa ne esplicitano con evidenza la natura: John Negroponte, già ambasciatore USA all’ONU e soprattutto esperto di squadroni della morte, da lui impiegati in Centroamerica e Iraq, Colin McColl, ex-capo del MI6, il servizio segreto britannico e David Young, uno degli operativi di Nixon nello scandalo del Watergate. Tipetti di peso in un certo mondo.
La spedizione al Cairo di Regeni viene gestita e coordinata da due docenti egiziane, Maha Abdelrahman e Rabab el-Mahdi, tutor di Regeni, entrambe “sorelle” della Fratellanza Musulmana e acerrime oppositrici di Al Sisi, una all’università di Cambridge e l’altra all’American University nella metropoli egiziana. Al Cairo, Regeni si mette alla ricerca di elementi di opposizione al governo e pensa di averne trovato uno in un sindacalista, Mohamed Abdallah. Un video ce lo mostra con Regeni che gli offre una cospicua somma, specificando che gli verrà data “in cambio di un progetto”. Il sindacalista, che sperava di ottenere il denaro per curare la madre affetta da cancro, si insospettisce e riferisce alle autorità. Da quel momento Regeni è seguito.
Oggi è in corso a Roma un processo a 4 alti dirigenti della Sicurezza egiziana, accusati dell’uccisione e tortura di Regeni. Le campagne che per anni hanno perseguito l’imputazione del governo egiziano, non hanno mai tenuto conto di aspetti, come quelli qui ricordati, relativi ai trascorsi del ricercatore. Curriculum pure utile, mi pare, per dissipare una storia che Agatha Christie, con il suo “tre indizi sono una prova”, avrebbe risolto in un batter d’occhio.
Restano in piedi due ipotesi. Una, sostenuta con ininterrotto clamore dai media e che ci tratteggia un giovane ricercatore, attivista dei diritti umani, che in Egitto non si sa bene cosa fosse andato a fare e che, comunque, era stato brutalmente eliminato dal regime di Al Sisi.
L’altra, accreditata dai pochi che sono andati a esaminare la complessità dell’identità politico-professionale del giovane, fondata su un retroterra che ne avrebbe fatto uno strumento dei Servizi britannici, storicamente vicini alla Fratellanza. Sarebbe servito a sondare le prospettive di destabilizzazione di un Egitto che, con il nuovo presidente, non avrebbe imboccato la strada giusta. Missione che avrebbe dovuto anche favorire gli interessi britannici per le risorse energetiche del Cairo, largamente in mano all’ENI.
La fine di Regeni sarebbe da imputare ai suoi stessi mandanti, dal momento che il suo interlocutore al Cairo ne aveva bruciato le coperture. Buttare tra i piedi di Al Sisi il cadavere di un giovane italiano, nel momento in cui si assumevano decisioni strategiche con una missione governativa di Roma, doveva forse favorire un preciso effetto.
L’Egitto non sta in riga?
L’Egitto non è certo quello di Nasser, per lunghi anni caposaldo e avanguardia dell’unificazione araba nel segno del socialismo, antimperialista, filosovietico e in prima linea nell’opposizione all’inserimento di uno Stato ebraico nella terra dei palestinesi. Ma non è nemmeno tornato ad essere quello di re Faruk, un placido protettorato britannico, o di Morsi, sul quale si poteva fare affidamento per far prevalere le innocue istanze dell’Umma, la comunità islamica, su quella di un almeno parziale ricupero di prospettive nazionali e di autodeterminazione sulle scelte interne ed estere.
In ogni caso, l’Egitto è una realtà della quale tener conto. Nelle più recenti fasi della tragedia di Gaza, ha affiancato e poi sostituito nel ruolo di mediatore tra Hamas e Tel Aviv l’ormai scoperto doppiogiochista Qatar, Fratello Musulmano come Erdogan e che, come Erdogan, briga apertamente con Israele (è di questi giorni lo scandalo dei collaboratori di Netaniahu al soldo dei qatarioti). Al Sisi si è anche permesso di proporre un piano per Gaza gestito dai palestinesi e ricostruito per i palestinesi, poi adottato dalla Lega Araba, del tutto opposto ai progetti di “bonifica” da parte degli immobiliaristi e operatori turistici di Netaniahu e Trump.
Sentendosi ovviamente minacciato dall’insistenza con cui Israele e Washington prevedono, anzi, preparano, la deportazione “volontaria” nel Sinai egiziano dei sopravvissuti a bombe e carestia, il Cairo ha dispiegato in quella regione, a portata di vista israeliana, forze corazzate e unità di artiglieria.
Nel mio tentativo di entrare a Gaza, bloccato a Rafah, ho avuto occasione di incontrare al Cairo personaggi dell’informazione e della politica, tutti concordi, al di là di differenze di posizioni, nello stabilire una linea rossa su questo punto. Hazem Mohamed Omar. Segretario del Partito del Popolo Repubblicano, una componente della coalizione di maggioranza, mi ha assicurato che in caso di deportazione dei palestinesi in un Egitto che già ospita e alimenta circa 800.000 rifugiati e richiedenti asilo di 62 diverse nazionalità, si sarebbe arrivati al conflitto. E questo in mezzo a una crisi economica accentuata dalla fine degli aiuti USA e dalla drastica riduzione dei ricavi dai transiti nel Canale, causa il blocco allestito dagli yemeniti.
A una situazione irta di tensioni si aggiunge ora la questione della marcia su Gaza. Svelando ancora una volta il proprio autentico schieramento, Qatar e Emirati stanno esercitando fortissime pressioni sul Cairo perché respinga l’iniziativa. Pressione che si giocano anche sul fabbisogno energetico del paese.
Le compagne occidentali e del Golfo che sfruttano i giacimenti e riforniscono l’Egitto ne hanno improvvisamente ridotto i rifornimenti dai 6,5 miliardi di piedi cubi al giorno a meno di 4. Dal giacimento di Reven, in mano alla BP, venivano 800 milioni, ora ridotti alla metà. La stessa Israele esportava in Egitto 1,3 miliardi di piedi cubi raffinati al giorno, ma dal 1. maggio li ha ridotti 300 milioni. Successivamente è risalita agli 800, ma aumentandone il prezzo. La richiesta del Cairo al Qatar di ridurre il nuovo, esorbitante, prezzo del gas, ha ricevuto un netto rifiuto. Così come la richiesta agli USA di pezzi di ricambio per i propri caccia F-16.
In vista dell’estate, qui ovviamente caldissima, il fabbisogno dell’Egitto è di 7,5 miliardi di piedi cubi, oggi saliti al costo di 13 miliardi di dollari. Nell’attuale situazione, un prezzo difficilmente sostenibile. Per insufficienza di gas, l’Egitto ha già dovuto recentemente sospendere per due settimane le forniture ai propri impianti petrolchimici.
Quanto sopra è il prezzo che l’Egitto, che da noi continua a godere di cattiva e strumentale stampa, deve pagare per non seguire i pifferai che determinano il passo di questo nuovo allineamento degli Stati arabi più importanti. Lo deve pagare per aver normalizzato i rapporti con Tehran, bau bau della situazione; per aver chiuso accordi con la Cina sulla costruzione di importanti infrastrutture (Xi Inping è atteso al Cairo a giorni); per aver concluso accordi economici e perfino militari con Mosca; per sostenere in Libia un parlamento regolarmente eletto contro le bande del noto Almasri, graziato da Nordio, e protette dai turchi, sulle quali si fonda il regime di Tripoli frequentato dall’Occidente.
E ora, eventualmente, per ospitare, sostenere e accompagnare in marcia verso Gaza i disturbatori internazionali del genocidio israeliano.
E’ successo all’Iraq, alla Libia, all’Afghanistan, alla Siria, al Libano. Il più vasto paese arabo, il Sudan, dopo che USA e UK avevano patrocinata la secessione della parte meridionale petrolifera, a sua volta dilaniata da conflitti etnici, è ora in preda a una spaventosa guerra civile. E chi ne rappresenta gli attori esterni? Tra quelli manifesti l’attivissima Dubai, socio di “Abramo”, che ne rifornisce la fazione golpista. E’ giunta l’ora dell’Egitto?
E noi che mettiamo striscioni per il povero Regeni sui municipi delle nostre città.