Fulvio Scaglione: "Erdogan ha voluto mettere le mani nel calderone jihadista e ora ne paga il prezzo"
di Fulvio Scaglione*
La strage di Capodanno nella discoteca di Istanbul, arrivata pochi giorni dopo l’assassinio dell’ambasciatore russo ad Ankara, dimostra con la brutale efficacia del sangue che certe partite è assai più facile aprirle che chiuderle. E Recep Erdogan, giunto all’apice della parabola politica, leader di una Turchia che peraltro aveva tratto enormi benefici di suoi primi dieci anni di governo, di partite ne aveva aperte molte.
Oltre che nell’eterno braccio di ferro con i curdi, si era impegnato in uno scontro con Israele, nel testa e testa con l’Arabia Saudita per il predominio nel Medio Oriente sunnita, nella liquidazione dell’ex amico siriano Bashar al-Assad. Decisione, quest’ultima, a sua volta gravida di conseguenze: l’impegno militare, l’urto con la Russia (fino a quel momento partner privilegiato e fruttuoso per gli scambi economici), la scomoda alleanza di fatto con i jihadisti, da Erdogan coccolati e riforniti. Per non parlare, infine, del fronte interno, di quella Turchia di cui Erdogan non voleva più esser solo la guida ma il padrone, forse il sovrano.
Come un apprendista stregone, Erdogan ha dovuto presto fare i conti con i propri eccessi, pagando un prezzo assai alto. Il golpe di luglio, con cui i militari volevano estrometterlo, gli ha consentito di stringere la presa sul potere attraverso le epurazioni ma ha minato la sua credibilità internazionale e l’ha costretto a rivedere le alleanze. La Russia, l’amica che era diventata nemica a causa della Siria, l’ha perdonato ma ora lo guarda un po’ dall’alto e l’ha costretto ad accettare prima la riconquista di Aleppo da parte di Assad e poi un piano di pace che porta la firma di Putin assai più che la sua.
Ma la partita che oggi più costa a Erdogan è quella con il jihadismo. L’aspirante sultano, persa ogni speranza di veder cadere Assad e costretto a trovare un’intesa con Mosca (a sua volta spalleggiata dall’Iran), ha smesso di aiutare i miliziani islamisti. Ha chiuso il confine con la Siria, impedendo così il passaggio dei foreign fighters. Ha smesso di far arrivare armi e quattrini alle formazioni combattenti. E questo non gli è stato perdonato.
Sono cominciati così gli attentati agli aeroporti, i colpi dei kamikaze, le stragi come quella della notte di Capodanno, che portano l’inconfondibile marchio del terrorismo jihadista. Per dirla in breve: Erdogan ha voluto mettere le mani nel calderone jihadista e ora ne paga il prezzo. I jihadisti, infatti, non si fanno tradire facilmente. Sono decisi a vendicarsi di Erdogan che li ha abbandonati e lo stragismo è il loro tipico sistema.
A lume di ragione, e purtroppo, la stagione del sangue sembra appena cominciata per la Turchia. La guerra in Siria è tutt’altro che finita. I jihadisti ancora controllano intere province, come quella di Idlib. E lo stanco andamento delle operazioni militari in Iraq offre loro clamorosi margini di manovra, come la riconquista di Palmira ha dimostrato. In più, è chiaro che dietro all’Isis e alle altre formazioni islamiste c’è una rete di finanziatori e organizzatori che è ancora integra e funzionante e che ha tutto l’interesse a indebolire un grande Paese come la Turchia dopo che questo ha cambiato strategia e alleanze.
Il problema è più che serio. L’esperienza di tutto il Medio Oriente e dell’Africa del Nord, dalla Tunisia all’Egitto, dall’Iraq alla Siria, mostra quanto sia difficile contenere il terrorismo di matrice sunnita, soprattutto quando adeguatamente lubrificato dai petrodollari. È un paradosso ma a dare una mano potrebbero intervenire proprio quei curdi che Erdogan ha combattuto quasi senza sosta nei lunghi anni del suo potere e senza risparmio di mezzi né di brutalità.
Proprio i curdi, infatti, sono stati il primo baluardo (più geografico, politico e culturale che militare, in verità) contro la diffusione indiscriminata del virus islamista. Sono stati loro, con l’esperienza del Rojava, a resistere nel Nord della Siria anche quando sembrava impossibile farlo. Sono loro, ora, a partecipare alle operazioni che, si spera, prima o poi segneranno la riconquista di Mosul. Sono loro, nel Kurdistan iracheno, a fare da intercapedine tra la Turchia e i tumulti mediorientali.
È una situazione che Erdogan potrebbe incentivare e sfruttare per la sicurezza del suo Paese. A patto però, di scommettere su un accordo che metta fine a questa strisciante guerra civile che va avanti da decenni. Qualche barlume di questo scenario si è pure avuto, nel recente passato, poi subito spento da provocazioni e rappresaglie. Non sarà gratis, è ovvio, e il prezzo più probabile è la concessione di un larga autonomia alle regioni curde della Turchia. Ma potrebbe garantire a Erdogan quella stabilità che lui stesso ha distrutto e che ora cerca, abbastanza disperatamente, di ricostruire.
Pubblicato sull’Eco di Bergamo del 2 gennaio 2017