"Generazione Antidiplomatica" - Strategia della tensione globale: dai dazi di Trump alla sfida mediterranea oltre l’UE
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Articolo di Vincenzo Pellegrino, laureato in Giurisprudenza di Perugia
Nel cuore della politica economica di Donald Trump si cela una strategia che va ben oltre il semplice protezionismo. I dazi imposti durante la sua amministrazione — e riproposti nella sua agenda elettorale — non sono solo strumenti tattici per difendere settori industriali, ma leve geopolitiche destinate a esercitare pressioni sistemiche sui mercati internazionali. Si tratta di una vera e propria "strategia della tensione dei mercati", concepita non per creare instabilità fine a sé stessa, ma per indurre un riassetto degli equilibri economici mondiali, favorendo un riequilibrio interno degli Stati Uniti e, al contempo, indebolendo i competitor sistemici come l’Unione Europea e la Cina.
In primo luogo, i dazi mirano a ridurre il deficit commerciale americano e, con esso, il NIIP (Net International Investment Position), ossia la posizione patrimoniale netta sull'estero. Questo indicatore misura la differenza tra attività estere detenute da residenti americani e passività verso creditori stranieri — in pratica, quanto gli Stati Uniti possiedono all’estero rispetto a quanto devono a investitori stranieri. Un NIIP fortemente negativo, come quello degli Stati Uniti, superiore al 60% del PIL, segnala una vulnerabilità strutturale: dipendenza dal risparmio estero, maggiore esposizione a shock finanziari globali, e aumento del carico degli interessi sul debito. Ridurre il disavanzo commerciale — cioè il gap tra importazioni ed esportazioni — significa diminuire la necessità di finanziarsi con prestiti dall’estero. Questo permette di stabilizzare i tassi sui titoli del Tesoro, i prestiti emessi dal governo americano, perché i mercati percepiscono un’economia più solida, riducendo così i costi di indebitamento. In questo contesto, Trump ha puntato su una spinta indiretta alla riduzione dei rendimenti obbligazionari, contrastando una Federal Reserve spesso esitante a tagliare i tassi per motivi politici o ideologici.
La visione trumpiana, per quanto controversa, si fonda su una diagnosi in parte condivisibile: la deindustrializzazione americana ha indebolito la coesione sociale e la capacità produttiva interna, alimentando diseguaglianze e dipendenza da economie esterne. Ricostruire la manifattura significa accorciare le filiere — produrre più vicino al consumatore finale — rafforzare la resilienza nazionale, e recuperare sovranità economica. Tuttavia, gli strumenti utilizzati — barriere tariffarie, misure unilaterali, deroghe alle regole WTO (l’Organizzazione Mondiale del Commercio che regola il commercio globale) — suscitano critiche fondate. La tensione tra legittima autodifesa economica e rispetto del diritto commerciale internazionale è reale, e pone interrogativi sull’equilibrio tra sovranità e cooperazione.
Ma Trump non guarda solo all’interno: la sua strategia ha un'esplicita dimensione geopolitica. Colpire la Germania, attraverso dazi sull’automotive e su altri settori strategici, significa destabilizzare l’eurozona, laddove l’euro agisce come un marco svalutato che ha permesso a Berlino di accumulare enormi surplus a scapito dei Paesi periferici. L’architettura dell’euro è asimmetrica: impedisce ai singoli Stati di svalutare la propria moneta o di ricorrere a politiche fiscali espansive in autonomia — come aumentare la spesa pubblica per stimolare l’economia — ma consente alla Germania di beneficiare di un cambio favorevole rispetto alla sua forza economica. Trump intuisce — o forse istintivamente percepisce — che per riequilibrare il commercio mondiale occorre smontare questo meccanismo, che genera squilibri strutturali e frustrazioni politiche.
Sul fronte asiatico, l’obiettivo è ancora più ambizioso. La Cina viene percepita come l’unico vero sfidante sistemico, non solo per il suo peso economico, ma per la capacità di proporre un modello alternativo di capitalismo autoritario e statalista. Il disaccoppiamento tecnologico e commerciale, avviato durante la prima presidenza Trump, proseguito con coerenza sotto l’amministrazione Biden e ora ulteriormente consolidato nella seconda presidenza Trump, manifesta la chiara determinazione degli Stati Uniti a ricostruire e rafforzare la propria autonomia strategica. Questo processo si inserisce in un contesto geopolitico ed economico globale in cui le catene del valore, un tempo considerate mere infrastrutture produttive, si sono progressivamente trasformate in strumenti di influenza e potere. Ad esempio, controllare la produzione di semiconduttori o le materie prime strategiche diventa un modo per esercitare pressione politica e competere per la supremazia tecnologica e commerciale. Questo processo non si limita a un generico distacco: mira a ridurre la dipendenza da semiconduttori cinesi (come quelli prodotti da TSMC o SMIC), a limitare l’export di tecnologie sensibili (es. 5G di Huawei) e a contrastare il controllo di Pechino sulle terre rare, minerali essenziali per l’industria elettronica e militare. I dazi sono quindi solo l’avanguardia di un conflitto economico con implicazioni più ampie.
Tuttavia, al fondo di tutto ciò, si agita una crisi di paradigma ben più profonda. L’economia mondiale continua a essere organizzata attorno al dogma della competizione: nazioni che si contendono capitali, lavoro e tecnologie per primeggiare, spesso a scapito della stabilità sistemica e dell’equilibrio sociale. Questo modello è ormai giunto al limite: genera tensioni, acuisce disuguaglianze e rende impossibile affrontare in modo coordinato le grandi sfide planetarie, come l’accesso universale a cure mediche efficaci o la modernizzazione delle infrastrutture essenziali. Serve un nuovo patto economico fondato sulla condivisione, sull’equilibrio e sulla cooperazione: un’economia che premi la resilienza, la sostenibilità e la giustizia, più che l’efficienza a ogni costo.
Ed è in questa crisi di paradigma che l’Italia si trova dinanzi a un bivio storico. Restare incardinata in un’Unione Europea che ha mostrato rigidità e incoerenze — soprattutto nell’area euro — o iniziare a costruire un percorso di sovranità economica e politica. Uscire dall’eurozona, e possibilmente anche dall’UE, non è un’utopia, ma una scelta strategica che richiede visione, realismo e preparazione. Un ritorno alla Lira, magari preceduto da una fase di doppia circolazione tramite una moneta fiscale (come i Certificati di Credito Fiscale, buoni emessi dallo Stato per pagare tasse o servizi), permetterebbe di rilanciare la domanda interna, gestire il debito in modo flessibile e proteggere l’economia da shock esterni. La riappropriazione della sovranità monetaria richiede anche la riforma della Banca d’Italia, riportandola sotto il controllo del Tesoro, come avviene in altri sistemi avanzati, per poter fungere da prestatore di ultima istanza — cioè garantire soldi in caso di crisi — e assicurare la liquidità necessaria.
Una tale uscita non può avvenire in solitudine. Serve un’alleanza mediterranea, un blocco di Stati del Sud Europa con interessi convergenti, che condividono non solo la geografia, ma anche una condizione economica e politica simile: Paesi strangolati dalle regole dell’eurozona, penalizzati dall’austerità imposta da Bruxelles e dalla supremazia economica del Nord Europa. Italia, Spagna, Grecia e potenzialmente Portogallo potrebbero costituire il nucleo di questa alleanza, unendo le forze per negoziare collettivamente con l’UE e creare una nuova area di integrazione cooperativa basata su priorità comuni: rilancio della domanda interna, protezione delle economie locali, investimenti in sanità pubblica e accesso a tecnologie avanzate, e una politica commerciale che privilegi la resilienza rispetto alla competizione globale sfrenata. Questo blocco mediterraneo non sarebbe un semplice patto difensivo, ma una piattaforma per proporre un’alternativa sistemica all’attuale modello europeo, dimostrando che la cooperazione regionale può essere più efficace della rigidità centralizzata di Bruxelles. La necessità di un’uscita dall’UE per questa alleanza non è solo tattica, ma strategica: restare nell’Unione significherebbe continuare a sottostare a un sistema di regole pensato per favorire i Paesi del Nord, come la Germania, e a un mercato unico che penalizza le economie meno competitive del Sud, impedendo loro di adottare politiche autonome per rilanciare la crescita e proteggere i cittadini. Certo, un’uscita dall’UE comporterebbe rischi immediati, come l’instabilità finanziaria dovuta a possibili fughe di capitali o alla svalutazione della nuova moneta; tuttavia, tali pericoli potrebbero essere mitigati con contromisure mirate: oltre ai controlli temporanei sui capitali, accordi commerciali e finanziari con potenze come Cina e Russia — ad esempio per garantire forniture energetiche stabili o investimenti in infrastrutture — offrirebbero un cuscinetto contro le turbolenze iniziali, aprendo al contempo nuovi mercati per le esportazioni mediterranee. Gli ultra-europeisti, con il loro inno alla “solidarietà europea” e alla presunta forza del mercato unico, obietterebbero che abbandonare l’UE significherebbe isolarsi, perdere i benefici dell’integrazione e rischiare il collasso economico. Ma questa visione ignora che l’integrazione, così com’è, ha già fallito il Sud Europa: anni di stagnazione, disoccupazione giovanile alle stelle e tagli alla spesa pubblica non sono un successo da celebrare. L’idea che l’UE sia un destino ineluttabile è un dogma, non un’analisi; e mentre i tecnocrati di Bruxelles brindano all’unità con calici di champagne, i cittadini mediterranei potrebbero preferire un futuro in cui le loro economie respirano, anche senza il permesso di qualche burocrate in giacca e cravatta.
A sostegno di questa transizione, sarebbero fondamentali strumenti legali come i controlli temporanei sui capitali — compatibili col diritto internazionale e persino con alcune clausole dell’acquis comunitario — per garantire la stabilità nei mesi cruciali del passaggio. Inoltre, l’alleanza potrebbe sviluppare una moneta parallela o un sistema di compensazione commerciale regionale, sul modello di quanto sperimentato in passato con l’Unione Europea dei Pagamenti, per ridurre la dipendenza dall’euro e favorire gli scambi interni. La moneta parallela, ad esempio, potrebbe funzionare come un’unità di conto digitale emessa dagli Stati membri dell’alleanza, accettata per il pagamento di tasse e servizi pubblici nei Paesi aderenti, e convertibile a un tasso fisso con le valute nazionali reintrodotte (es. la nuova Lira o la Peseta). Questo strumento, garantito da un consorzio di banche centrali mediterranee sotto un accordo di clearing, permetterebbe di stimolare il commercio intra-regionale senza bisogno di riserve in euro, riducendo il rischio di speculazione e offrendo un’alternativa concreta durante la transizione dall’eurozona. Un sistema simile, ispirato al “bancor” di Keynes — una moneta proposta per bilanciare i commerci internazionali — o al rublo trasferibile del COMECON, potrebbe essere integrato da un fondo comune per finanziare progetti strategici (es. porti, reti energetiche), rafforzando la coesione economica del blocco. Si tratterebbe di un progetto ambizioso ma realistico, che trasformerebbe le attuali “periferie” dell’UE in un polo economico e politico autonomo, capace di dialogare alla pari con i grandi attori globali.
In ultima analisi, la strategia dei dazi di Trump, pur radicata in un ultra-capitalismo che privilegia la competizione sfrenata e l’interesse nazionale a scapito di una vera equità globale, evidenzia i limiti della narrazione economica dominante con una forza dirompente. I suoi limiti — un approccio spesso unilaterale e legato a logiche di profitto a breve termine — non ne oscurano il potenziale: dimostrare che strumenti eterodossi possono sfidare l’ortodossia economica globale, aprendo spazi di manovra per chi vuole cambiare il sistema. Questo potenziale è una finestra storica che spetta a ogni Paese, Italia in primis, trasformare in opportunità. Superare un paradigma morente richiede non solo coraggio politico, ma una cultura istituzionale capace di tradurre la crisi in visione, integrando sovranità, cooperazione e un’idea di progresso che metta al centro le persone, non i mercati. L’alleanza mediterranea potrebbe incarnare questo primo passo audace, fondendo la sfida italiana alla globalizzazione con un progetto collettivo che proietti il Sud Europa verso un futuro autonomo e solidale. Solo cogliendo questo momento si potrà trasformare l’attuale disordine in un atto fondativo per una nuova era economica e civile.