Golpe delle oligarchie in Perù. Il popolo scende in piazza e chiedono elezioni per un'Assemblea nazionale costituente

Golpe delle oligarchie in Perù. Il popolo scende in piazza e chiedono elezioni per un'Assemblea nazionale costituente

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Cronaca di un lawfare annunciato. Si potrebbe intitolare così quanto accaduto in Perù con la destituzione e l’arresto del presidente Pedro Castillo. L’ultimo capitolo di uno schema già visto, ma riattivato e riadattato con successo in vari scenari latinoamericani: l’uso del diritto a fini di persecuzione politica. Possiamo ricondurre lo schema a due modelli con altrettante varianti, applicati a presidenti scomodi, recalcitranti ai voleri di Washington: il golpe parlamentare, costruito dall’interno stesso della coalizione governativa, fino alla spallata finale, in cui il perseguito finisce per apparire l’artefice del suo proprio male. Il golpe istituzionale, scatenato a seguito di denuncia di frode elettorale, che porta all’autoproclamazione di un presidente fantoccio, all’arresto o alla fuga di quello legittimo.

Il primo esempio ibrido rimanda all’Honduras e al giugno 2009, quando l’allora presidente Manuel Zelaya venne destituito da una sentenza della Corte Suprema di Giustizia che lo accusò di tradimento alla patria e di altri delitti. Al pur moderato Zelaya, un imprenditore liberale, si rimproverava la vicinanza all’Alba, l’Alleanza bolivariana per i popoli della nostra America, ideata da Cuba e Venezuela.

L’episodio scatenante fu la sua intenzione di voler chiedere alla popolazione se, nelle elezioni del novembre 2009, si potesse includere un quesito sulla possibilità di un’Assemblea Nazionale Costituente. Nelle sue memorie, l’ex Segretaria di Stato di Obama, Hillary Clinton, ammise il ruolo avuto dagli Stati Uniti nella rimozione di Zelaya, che venne impacchettato all’alba dai militari e costretto a salire su un aereo in pigiama. Al suo posto, venne messo come presidente de facto l’imprenditore Roberto Micheletti, allora a capo del Congresso.

Nel 2012, va in scena in Paraguay un golpe parlamentare contro Fernando Lugo. Il sessantunenne ex “vescovo dei poveri”, eletto nel 2008 anche con i voti delle grandi famiglie “liberales” della capitale Asunción, venne destituito a seguito di un impeachment. A promuovere la rimozione di un “outsider” diventato subito ingombrante, fu il suo vice Federico Franco. Il pretesto finale fu lo scontro fra polizia e contadini per l’occupazione di una fattoria, nel contesto della lotta al latifondo.

In Paraguay, oltre l’85% delle terre è concentrato in poche mani e controllato dal capitale straniero. Una partita troppo grossa che doveva tornare sotto controllo, per evitare alla rabbia popolare di organizzarsi in alternativa. Lugo non aveva dato corso a una riforma agraria, ma solo ostacolato il grande affare delle sementi transgeniche: un divieto che venne revocato subito dopo la sua destituzione, favorita dall’assenza di maggioranza governativa nei due rami del parlamento. Lugo è stato destituito per aver “favorito l’insicurezza” nel paese.

Sulla frammentazione del quadro politico ha fatto leva l’oligarchia anche in Brasile per orchestrare il golpe parlamentare contro Dilma Rousseff promosso dal suo vice, e procedere poi, con il lawfare contro Lula, alla messa fuori gioco del partito di governo, il Partito dei Lavoratori. Stessa operazione è in corso in Argentina contro il peronismo di Cristina Kirchner, ex presidente e oggi vice del governo Fernandez, di cui rappresenta la parte più di sinistra. Cristina, scampata miracolosamente a un attentato, è stata condannata a sei anni e all’interdizione dai pubblici uffici per “corruzione”, e ha accusato lo “stato profondo” e la “mafia giudiziaria” di volerla eliminare dalla scena politica.

Al golpe “legittimato” da presunta frode elettorale si può ricondurre quando accaduto in Bolivia contro Evo Morales a novembre del 2019, costretto a dimettersi di fronte alle violenze scatenate dall’estrema destra e a lasciare il paese. A spianare la strada ai golpisti, fu l’Organizzazione degli Stati Americani, diretta da Luis Almagro, che avallò l’autoproclamazione di Janine Añez, dopo aver tentato la stessa operazione, ripetutamente, ma senza successo, con il Venezuela bolivariano e l’autoproclamato Juan Guaidó.

In molti avevano rimproverato a Morales di essersi messo ingenuamente alla mercè di Almagro, invitando l’Osa fra gli osservatori elettorali. E ora – come ha sottolineato il vicepresidente del Psuv, Diosdado Cabello dal Venezuela -, anche il presidente peruviano Pedro Castillo è “caduto nella trappola” dell’Osa, invitando Almagro a Lima per vigilare sulle minacce alla democrazia da parte dell’estrema destra.

Il golpe parlamentare contro Castillo, si è consumato con una beffa finale per l’ex maestro rurale, eletto l’anno scorso con il partito Perù Libre, fautore di una “economia popolare, ma con il mercato”: messo agli arresti con l’accusa di aver promosso un colpo di stato, dopo la proclamazione dello stato d’emergenza, con annesso scioglimento del parlamento e elezioni anticipate, deciso all’ultimo minuto per evitare l’impeachment, che poi c’è stato. Il colmo, considerata la natura golpista del fujimorismo che, dopo aver cercato di screditare i risultati elettorali, ha sistematicamente picconato i fragili equilibri istituzionali per imporre anche con Castillo lo schema attuato contro altri presidenti, vittime della resa di conti interna alla classe dominante: quello dell’impeachment per condotta amorale o corruzione.

A nulla è dunque servito a Castillo, privo di un partito solido e consistente, e spinto a una corsa verso il centro con la speranza di rimanere in sella, cedere al ricatto della destra e cambiare cinque diversi premier e una settantina di ministri in quindici mesi. La vicepresidenta, Dina Boluarte, esponente di Perù Libre, poi espulsa dal partito, è ora la prima donna a capo dello stato. Ha proposto un governo di unità nazionale, e ha subito ottenuto l’appoggio di Almagro e degli Stati uniti. I presidenti progressisti dell’America Latina hanno invece denunciato, con vari accenti, l’arresto di Castillo e chiesto la sua liberazione.

Da tempo, però, in molti rimproveravano all’ex sindacalista rurale lo scarso ricorso alla piazza a fronte degli attacchi dell’estrema destra che, con il sostegno degli Usa e dell’Europa, si va riorganizzando in America Latina. Il mese scorso, l’internazionale nera ha dato una dimostrazione di forza organizzando un incontro internazionale in Messico, per contrastare la nuova ondata progressista del continente.

Ma ora, benché i media – parte in causa nella campagna contro Castillo, prima e dopo la sua elezione –stiano mettendo la sordina, il popolo è sceso in piazza in diverse città del paese. I media alternativi stanno diffondendo le immagini di donne indigene che arringano la folla portando in primo piano la principale promessa elettorale dell’ex presidente: un’assemblea nazionale costituente.

Geraldina Colotti

Geraldina Colotti

Giornalista e scrittrice, cura la versione italiana del mensile di politica internazionale Le Monde diplomatique. Esperta di America Latina, scrive per diversi quotidiani e riviste internazionali. È corrispondente per l’Europa di Resumen Latinoamericano e del Cuatro F, la rivista del Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV). Fa parte della segreteria internazionale del Consejo Nacional y Internacional de la comunicación Popular (CONAICOP), delle Brigate Internazionali della Comunicazione Solidale (BRICS-PSUV), della Rete Europea di Solidarietà con la Rivoluzione Bolivariana e della Rete degli Intellettuali in difesa dell’Umanità.

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