Hillary e il rebus saudita

Altri parlano della collaborazione tra Usa e Arabia Saudita nella lotta al terrorismo, il che è quasi una barzelletta. Come si può pensare di lottare contro il terrorismo con il Paese che finanzia il terrorismo?

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Hillary e il rebus saudita



di Fulvio Scaglione* - Linkiesta


Chissà. Può anche darsi che nei futuri libri di storia il nome di Barack Obama venga dopo quello di Stephanie Ross De Simone. E che l’azione di questa madre, rimasta vedova dell’ufficiale di marina Patrick Dunn, morto l’11 settembre del 2001 mentre lei aspettava la loro figlia, quando i dirottatori di Al Qaeda colpirono il Pentagono con l’aereo che avevano dirottato, risulti alla fine politicamente più incisiva degli otto anni di presidenza Obama. Sarebbe il paradosso finale di un doppio mandato già di per sé paradossale, cominciato con il discorso del Cairo per la pacificazione con il mondo islamico e del Medio Oriente e finito con la difesa a spada tratta dell’Arabia Saudita, ovvero del Paese che più di ogni altro ha contribuito a fomentare e finanziare l’estremismo islamico, il terrorismo e la guerra.


Come in tutte le storie che si rispettino, anche in questa è necessario il classico passo indietro. Nel gennaio del 2015 venne presentato al Congresso un progetto di legge denominato Jasta (ovvero Justice Against Sponsors of Terrorism ActLegge per la giustizia contro gli sponsor del terrorismo) che ha concluso il proprio iter parlamentare poche settimane fa, con un finale pieno di fuochi d’artificio: il Congresso ha approvato la legge, Barack Obama ha posto il veto presidenziale alla sua promulgazione, il Congresso ha risposto votando con la necessaria maggioranza dei due terzi l’annullamento del veto. Al Senato 97 voti contro 1, alla Camera dei rappresentanti 348 voti contro 77. Il che significa che anche molti democratici hanno votato contro il “loro” Presidente.

Che cosa prevede, dunque, questa legge che Obama ha definito “pericolosa per gli interessi nazionali”? Solo questo: attribuisce alle corti federali il potere di decidere “su una causa civile portata contro uno Stato straniero per un danno fisico o patrimoniale o una morte occorsa all’interno degli Stati Uniti in seguito a un atto di terrorismo o a un’azione commessa in qualunque luogo da un funzionario, un agente o un impiegato di detto Stato straniero nell’esercizio delle sue funzioni”.


Tutto qui? Sì. Ma per Obama, e per un’eventuale presidenza Clinton, questo rischia di diventare un incubo. Il tema non è nuovo nel dibattito politico-giudiziario degli Usa. Nel 2011, la Bank of China (la banca di Stato che opera soprattutto sui mercati internazionali, fondata nel 1912) fu portata in tribunale da 20 famiglie americane i cui parenti erano stati colpiti in attacchi terroristici in Israele tra il 2003 e il 2008. La causa è andata avanti fino al 2015 quando, dopo intense trattative diplomatiche (anche lo Stato di Israele aveva fornito documenti agli avvocati delle famiglie) è stata infine archiviata da un tribunale di New York: non è provato, pare, che la Bank of China abbia trasferito denaro a militanti di Hamas.


Sempre a New York, nel 2014, un altro tribunale ha condannato la Arab Bank(fondata a Gerusalemme nel 1930, nel 1948 trasferita ad Amman in Giordania, oggi un colosso con 600 filiali in 30 Paesi tra cui gli Usa) dopo la causa presentata dieci anni prima da un gruppo di 300 cittadini americani, parenti di persone uccise o ferite in attentati palestinesi in Israele o nei Territori Occupati. Secondo il tribunale, la banca avrebbe disposto transazioni finanziarie a favore di Hamas. E nel luglio di quest’anno, altre cinque famiglie americane hanno chiesto un miliardo di dollari di danni a Facebook, accusando l’azienda di aver “coscientemente fornito supporto materiale e risorse a Hamas sotto forma di accesso alla piattaforma Facebook di social networking e di servizi di comunicazione”. Secondo le famiglie, questo aveva aiutato i terroristi di Hamas a uccidere quattro dei loro familiari e a ferirne un quinto.


Più o meno fondate che siano, queste cause dimostrano che le famiglie delle vittime hanno appreso alla perfezione la lezione che tutti gli esperti di terrorismo ripetono da decenni: ovvero, che per battere i terroristi bisogna prima di tutto intervenire sul flusso di denaro che li alimenta. 
Il Jasta offre ai parenti dei morti dell’11 settembre un’arma potentissima. Perché un conto è portare in tribunale singole banche o aziende, tutt’altra faccenda fare causa agli Stati. E chi ha perso qualcuno al Pentagono o alle Torri Gemelle ha un solo Stato in mente: l’Arabia Saudita, appunto.


Obama ha fatto di tutto per bloccare la legge. Anche se è ormai abbondantemente provato che dietro larga parte del terrorismo islamico ci sono proprio i sauditi. Lo sanno tutti, grazie a una miriade di studi prodotti in ogni parte del mondo. Nel 2005, per esempio, Jonathan Halevi, ex ufficiale dell’esercito di Israele, ex consigliere politico del ministero degli Esteri di Israele, scriveva in un rapporto per il Jerusalem Center for Public Affairs: “L’Arabia Saudita e gli altri Stati del Golfo Persico costituiscono ancora la più cospicua fonte di finanziamento per i gruppi islamisti. Nuovi documenti ritrovati presso molte “fondazioni caritatevoli”… mostrano un continuo flusso di quattrini da organizzazioni ufficiali saudite a queste fondazioni che sia Israele sia gli Usa hanno dichiarato terroristiche”.


E lo sa benissimo anche Obama. Nel 2010, quando Wikileaks mise in rete migliaia di documenti riservati del Dipartimento di Stato allora diretto da Hillary Clinton, saltò fuori che l’attuale candidata alla presidenza scriveva questo ai suoi funzionari e diplomatici: “L’Arabia Saudita resta una base di supporto finanziario per Al Qaeda, i talebani, Lashkar-e-Taiba e altri gruppi terroristici, compreso Hamas”. E aggiungeva: “I donatori privati dell’Arabia Saudita costituiscono la più significativa fonte di finanziamento per i gruppi del terrorismo sunnita nel mondo”.


Quindi non si scappa: Obama è conscio che l’Arabia Saudita e le altre monarchie del Golfo Persico sono il cuore finanziario del terrorismo internazionale sunnita. Però cerca lo stesso di impedire che le famiglie delle vittime dell’11 settembre provino a rivalersi in tribunale. Perché?


L’unica motivazione addotta dal Presidente è l’interesse nazionale. Molti hanno pensato ai circa 750 miliardi di dollari che l’Arabia Saudita ha investito negli Usa o nei loro strumenti finanziari e che, in caso di sentenza, potrebbero essere “congelati” per risarcire gli eventuali querelanti. È vero, i sauditi potrebbero ritirare i loro quattrini per investirli altrove. Ma ci rimetterebbero comunque un sacco di soldi e comunque gli Usa, tra basi dell’esercito in Arabia Saudita, forniture militari, assistenza di ogni genere (tecnologica, politica, finanziaria e, appunto, militare) hanno una tale gamma di strumenti di pressione da non dover essere intimoriti.


Altri parlano della collaborazione tra Usa e Arabia Saudita nella lotta al terrorismo, il che è quasi una barzelletta. Come si può pensare di lottare contro il terrorismo con il Paese che finanzia il terrorismo? Non a caso, infatti, dal 2000 a oggi le vittime del terrorismo, nel mondo, sono cresciute di nove volte, a dispetto della “war on terror” proclamata nel 2001 da George Bush. Si può piuttosto parlare di collaborazione politico-militare, vista l’intesa con cui Usa e Arabia Saudita agiscono in Siria (gli Usa rifiutano di riconoscere come “gruppi terroristici” le formazioni armate e finanziate dai sauditi) e nello Yemen (dove gli Usa forniscono armi e intelligence militare alla coalizione guidata dall’Arabia Saudita). Ma, anche qui, chi ha bisogno di chi? Davvero gli Usa possono farsi intimidire dai sauditi?


Insomma, la sensazione è che le vere ragioni di questa obamiana difesa a oltranza dei sauditi siano altre, e che difficilmente verremo a saperle. Anche se fa male al cuore degli idealisti notare che il Presidente del “yes, we can”, dei valori e dei nobili pensieri, all’atto pratico si comporta come un Putin qualunque.

*Pubblichiamo su gentile concessione dell'Autore

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