I cambiamenti del mondo del lavoro: ci sono o non si vedono?
di Federico Giusti
Sono ormai lontani i tempi in cui i cambiamenti dell’organizzazione del lavoro erano oggetto di studio, o comunque di attenzione, da parte del movimento operaio e dei suoi rappresentanti, quando ad esempio il modello Toyota e la metrica del lavoro vennero sperimentati per la prima volta fu scontato aprire un dibattito dentro e fuori le fabbriche per aggiornare la fatidica cassetta degli attrezzi che poi abbiamo abbandonato nei meandri del ripostiglio tra gli oggetti e gli strumenti inutilizzati.
Al contrario del movimento dei lavoratori invece la parte datoriale i cambiamenti del mondo del lavoro continua a studiarli, del resto il nostro deficit di conoscenze rafforza la loro egemonia.
Ad esempio siamo un paese soggetto a feroce invecchiamento e la dinamica demografica inizia a sviluppare dei ragionamenti attorno all’utilizzo della forza lavoro anziana (che potrebbe ritrovarsi con un part time ove non dovesse reggere i ritmi produttivi), il processo di globalizzazione ad inizio secolo ha favorito delocalizzazioni produttive e privatizzazioni, l’avvio della transizione digitale ed ecologica in teoria potrebbe far uscire dal mercato aziende poco propense alle innovazioni anche se la svolta Trumpiana è finalizzata a rallentare questa svolta. E poi i sistemi di controllo sempre più asfissianti, ma spesso invisibili, della forza lavoro a ricordarci che il futuro dispotico è forse già presente.
E poi la questione di genere che spinge il capitale a favorire l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro in un paese come il nostro sotto questo aspetto decisamente arretrato, a sua volta interverranno modifiche anche nella composizione e gestione del welfare e si andrà rafforzando il contratto part time.
Cambiano i modelli di consumo e gli stili di vita delle persone per cui anche il classico paniere degli Italiani subirà modifiche radicali, l’attenzione agli stili poi è legata anche alla costruzione di una forza lavoro anziana ma in salute per risparmiare sulla malattia.
E poi le innumerevoli trasformazioni del mercato del lavoro, l’avvento della modalità agile e della settimana corta, le strutture familiari che modificandosi necessitano anche di politiche orarie diverse dal passato e di qualche cambiamento nei modelli di organizzazione del lavoro e sulle scelte afferenti al tempo libero.
Senza consapevolezza reale dei cambiamenti in atto queste tematiche iniziano ad essere recepite da intese e contratti nazionali in una ottica regressiva ma è proprio la ignoranza dei processi in atto che pone il datore in un rapporto di forza rispetto ai salariati
Il crollo demografico degli ultimi anni conferma l’incapacità di crescita del nostro Paese che al pari di ogni paese europeo è dilaniato sulle politiche immigratorie cercando di deviare l’attenzione pubblica su queste ultime alimentando spinte xenofobe e razziste. Il nostro welfare non è in crisi per i migranti ma perché costruito su una famiglia monoreddito nella quale la donna al massimo aveva un part time di poche ore settimanali e svolgeva a casa il lavoro di cura. Sempre il nostro welfare non è al passo con i reali bisogni ma subisce un progressivo disinvestimento frutto di un accordo a perdere tra Governi e sindacato. Dopo anni di sgravi fiscali e tagli alle tasse alla fine non abbiamo i soldi per una manutenzione ordinaria e così perfino alcuni correttivi dello stato sociale, nell’ottica di ampliarne i servizi, diventano irrealizzabili spingendo alla welfarizzazione aziendale
Soffermiamoci ancora sull’aumento dell’aspettativa di vita che già si traduce nella crescita degli anni lavorati in cambio di un importo pensionistico per altro in calo (l’intervento sui regimi pensionistici avviene sempre con anni di anticipo presentando un quadro dei conti economici volutamente drammatico) per ricordare che il ricorso strutturale al welfare aziendale è parte integrante di questo processo e non una conquista della forza lavoro.
In tale contesto la implementazione tecnologica e l’accrescimento della produttività diventano necessità insopprimibili con una forza lavoro anziana e la necessità di accrescere i margini di profitto.
Poi concretamente questa sfida determina dei cambiamenti che i salariati dovrebbero comprendere con largo anticipo prima di giudicarli eventi ineluttabili e subire le decisioni dei padroni pensando magari che accrescere la produttività a costo zero o scambiare aumenti contrattuali con benefit sia alla fine un vantaggio.
Avviene anche per la flessibilità, ci hanno raccontato che la perdita del posto fisso è una liberazione dallo sfruttamento del lavoro ma intanto aumenta la nostra schiavitù costringendoci a costruirci pensione e sanità integrative e a subire forme mascherate di cottimo 4.0 .
E vale per la bilateralità con Enti pensati ad arte per impedire sul nascere la conflittualità tra capitale e lavoro optando per un modello partecipativo che non è mai paritario tra i soggetti protagonisti. E quindi accrescono le competenze proprie di questi Enti Bilaterali con politiche in materia di orari che alla fine fanno passare le imposizioni padronali come opportunità di crescita e di miglioramento della qualità di vita disarticolando al contempo le relazioni sindacali ad uso e consumo del capitale.