I capitalisti senza capitale
L'"effetto gregge" più sottovalutato. Come il feticismo del lusso da parte della piccola borghesia rappresenta un potente strumento di conformismo da parte del neoliberismo
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di Angela Fais per l'AntiDiplomaticco
Nonostante nei prossimi 5 anni oltre 300milioni di nuovi consumatori entreranno nel mercato del lusso, per la prima volta in 15 anni il settore è andato incontro a un lieve rallentamento. Questa incertezza evidentemente non sembra abbia interessato l’anonimo collezionista giapponese che qualche giorno fa ad un’asta di Sotheby’s durata una decina di minuti attraverso rilanci infuocati di 200 ed anche 500mila euro, si è aggiudicato per la folle cifra di 10milioni di dollari l’originale Birkin bag di Hermès, quella appartenuta proprio a Jane Birkin.
Il presidente di Hermès in occasione di un fortuito incontro in aereo con l’attrice che sino a quel momento aveva preferito adoperare comodi e pratici cesti di vimini intrecciati per contenere i suoi effetti personali non trovando borse sufficientemente comode, la disegna per lei. Così nasce la Birkin, borsa dal design intramontabile, tuttora iconica, difficilissima da possedere se, a quanto pare, è solo dopo una serie di acquisti in atelier che si accede a una lunga lista d’attesa. Attesa che può durare anche diversi anni ma non porta nessuno a demordere, anzi c’è chi, pur di aggirare la lunga trafila, è disposto ad acquistarla usata e ad un prezzo superiore rispetto a quella nuova. Sinora la borsa più cara era stata una Kelly, modello della medesima maison, venduta all’asta per 583mila euro con la metallica in oro e tempestata di brillanti.
La tentazione di liquidare tutto questo semplicemente come frutto della superficialità che affligge cronicamente il mondo delle fashion victims è forte. Ma prevale il desiderio di capire cosa spinge a pagare 10 milioni di dollari una borsa usata anzi vecchia, malconcia e probabilmente anche maleodorante. Senza escludere una buona quota di stupidità, questa storia però racconta molto di più. Non si tratta di limitarsi a fare una etnologia né una sociologia dello stile di vita dei ricchi, filoni largamente diffusi che pare soddisfino la curiosità di molti ma che restituirebbero solo una visione semplicistica e quasi atemporale. Bisogna invece far luce sul modo in cui si sono generate le ricchezze perché quelle modalità determinano le divisioni di classe.
Se il fine della economia industriale era produrre oggetti in serie destinati al consumo di massa, in una ‘economia di arricchimento’ le cose non si vendono alle persone ma cose e persone sono reificate e diventano merce grazie a situazioni di scambio a seguito delle quali gli è conferito un prezzo. La ricchezza non si crea soltanto perché si producono e si vendono cose destinate in massa ai consumatori, ma si crea ricchezza sfruttando e valorizzando gli oggetti già esistenti estraendo dai giacimenti del passato.
Oggi si “monetizza” convertendo in denaro beni immobili ma anche, giacché viviamo nel capitalismo della sorveglianza, dati e attività immateriali o servizi. Con grande profitto oggi si monetizzano i “contenuti”, non rileva se questi contengano effettivamente qualcosa di sostanziale o se siano semplicemente delle ‘vacuità’ sospese a loro volta in un niente più grande. Si trova quindi il modo di generare reddito da qualcosa che prima non lo generava. Esemplare a tal proposito il caso di colui che qualche ora fa ha venduto per più di 3mila euro una fetta della torta di nozze della Regina Elisabetta celebrate nel 1947, fetta definita “preziosa” dalla agenzia di stampa italiana che riporta la notizia, a riprova che il valore scaturisce unicamente dal fatto che è indicizzato sul passato, sfruttando l’appartenenza dell’oggetto a un personaggio celebre ad esempio. Sia nel caso della borsa che della fetta di torta, non si comprende del tutto se a prevalere sia il feticismo del collezionista o una certa necrofilia. Certamente in riferimento agli esempi in questione va considerata come componente esplicativa fondamentale anche lo spirito che anima il collezionista. Le collezioni non a caso però sono legate a doppio filo alla nascita dell’economia di arricchimento, come spiega ampiamente L. Boltanski, e molti considerano la pratica della collezione una metafora del capitalismo stesso. Gli oggetti di una economia di arricchimento non devono rispondere ad alcun bisogno. L’arricchimento deve essere inteso nel senso di qualcosa destinato ai ricchi ma anche relativo a tutta una serie di operazioni che rivalutano ed accrescono il valore aumentandone il prezzo. Ecco spiegato anche il grande successo del vintage e di tutte quelle App molto in voga che commerciano merce usata, soprattutto capi di lusso.
Di certo è oramai da molto tempo che le cose hanno cessato di essere “cose”, semplici mezzi funzionali per divenire invece portatrici di significati simbolici. In quest’ottica ogni acquisto è un atto comunicativo ed esprime uno ‘status’. L’acquisto comunica appartenenza. L’oggetto, al culmine del più esasperato feticismo, diventa la chiave di accesso a un codice sociale ed il consumo diventa quel rito collettivo che J. Baudrillard definiva come ‘liturgia formale’ per cui il consumare acquisisce una valenza rituale e simbolica che consolida le strutture sociali. Gli oggetti definiscono un sistema totalitario dove non è più l’individuo a desiderare ma è l’oggetto a sedurre. Nell’immaginario collettivo di oggi il desiderio è sempre desiderio di un oggetto; nel duplice senso che è l’oggetto a esercitare una profonda fascinazione seduttiva e nel senso che appunto si desiderano solo oggetti. Creando un circolo vizioso tra desiderio e consumo, ogni acquisto ha un significato sociale e la merce è più che mai feticcio.
La profonda fascinazione che il marchio, un certo stile di vita, il lusso estremo esercitano sulla popolazione sono tutti fattori che contribuiscono a cementare il conformismo e sono funzionali ad alimentare il sistema stesso. Conformismo e lusso sono d’altronde intrinsecamente connessi: si adottano determinate condotte e si devono possedere certi status per conformarsi agli altri sulla scorta della paura di restare esclusi. E’ ‘l’effetto gregge’: pura vocazione alla omologazione.
Come sintetizzava già M. Clouscard è la piccola borghesia che tiene in piedi il sistema dei consumi. Ma essa non può aspirare ad accedere al vero lusso che le è eternamente precluso, al massimo accede al primo gradino di quella piramide del lusso ideata dalla Allérès, il fast fashion ad esempio ossia una forma di lusso “democratica”, più popolare rispetto al prêt-à-porter che troviamo nel gradino intermedio, precedente il vertice del lusso inaccessibile a quasi tutti.
E così folle ronzanti di curiosi che si recano a Montecarlo come a Dubai per ammirare i ricchi, per filmare lussuosissime auto con “annesse” donne molto appariscenti ma spesso non altrettanto eleganti, o coloro che nei ristoranti degli chef stellati “fanno experience” o viaggi che poi pagheranno a rate per mesi e mesi, altro non fanno che contribuire a rinsaldare il mito del ricco e della vita di lusso. Coloro i quali credono che “chi ha i soldi li può spendere come vuole anzi può persino bruciarli” senza alcuno scrupolo morale, gli entusiasti dell'elemosina di Bezos a Venezia, questi ingenui che in assenza di capitale difendono il capitalismo, sedotti dal suo ammaliante scintillio altro non sono che i soldatini ignari di un sistema che li condanna a rimanere servitori in eterno, generazione dopo generazione e che può restare in piedi anche grazie alla loro compiacenza.