Il nuovo ordine geopolitico: il post Afghanistan è la fine di un mondo?

Il nuovo ordine geopolitico: il post Afghanistan è la fine di un mondo?

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Nel rapporto Ispi del 2020, intitolato significativamente “La fine di un mondo, atto II” Alessandro Colombo sostiene che la competizione Usa e Cina costituisce di per sé un elemento ragguardevole di trasformazione delle dinamiche politiche ed economiche internazionali[1]. Prima di addentrarci, occorre però fare alcune considerazioni preliminari sull’Afghanistan. Il ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan non è stato sorprendente (era stato preparato dagli accordi di Doha del Febbraio scorso), ma è stato sorprendente il modo in cui è avvenuto.

 

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Una fuga disordinata che ha lasciato sul campo oltre a molti esseri umani,  tutto un equipaggiamento militare e banche dati contenenti informazioni su personale che ha collaborato con gli Usa durante i vent’anni di occupazione del paese, un ritiro che ha fatto scrivere a più di un commentatore di debacle dell’America e di fine della sua egemonia.  Questa repentina fuga tuttavia non può essere fatta coincidere con il declino dell’impero americano. Tutt’altro. I vent’anni afghani portano certo il segno della sconfitta militare conclusasi con un onta umanitaria, ma l’uscita dal paese è stata casomai una mossa tardiva, posticipata all’infinito da varie amministrazioni americane, di cui quella trumpiana è solo l’ultima.  Nel 2007 con G.W. Bush ancora presidente, l’impresa afghana era già osteggiata all’interno della sua amministrazione.

Dunque occorre chiedersi casomai  quali sono i motivi o le cause che hanno condotto gli Stati Uniti a bloccarsi così a lungo in una guerra e in un territorio trasformatosi quasi subito in un pantano. Se l’11 Settembre è stato il grande trauma -sia per l’evento in sé sia per ciò che lasciava presagire sul territorio statunitense- e fattore scatenante dell’intervento, è meno chiaro perché gli Usa si siano impelagati così a lungo in un paese che comunque non ha mai costituito una minaccia esistenziale per loro.

La  strategia politica e militare che ha accompagnato l’azione americana in Afghanistan era  la guerra al terrore e la nation building. Vi è stato però un doppio errore di prospettiva: il primo dal punto di vista  militare poiché una guerra al terrore è persa in partenza in quanto è impossibile fare bene se si confonde  un metodo con un nemico. Il secondo errore è stato quello di essere convinti che il progetto di trasformare l’Afghanistan in uno stato moderno (questo è il senso del concetto di nation building) potesse funzionare, dopo la sua applicazione alla Germania alla fine della seconda guerra mondiale. Obiettivi che hanno rivelato tutte le debolezze politico strategiche americane nei vent’anni di presenza nello stato asiatico.

Tutte le idealità politiche portate dagli occidentali (democrazia, elezioni, sovranità statale ecc.) si sono sciolte come neve al sole di fronte alla composizione etnica e alla struttura orografica del territorio afghano: un coacervo di etnie, religioni e tribu’,  e un territorio arretrato aspro e inaccessibile, particolarmente inadatto a una centralizzazione del potere[2].  

Errori ancora più fatali perchè commessi  in una regione che gli americani conoscevano bene avendola frequentata in chiave anti sovietica durante gli anni ottanta.

Tuttavia  la presenza americana è durata vent’anni, perché? Se si inquadra correttamente ciò che è avvenuto sotto la lente geopolitica apparirà chiaro, da quanto detto, che gli obiettivi  Usa si sono modificati nel corso del tempo e via via collocati lungo un nuovo asse  geopolitico: quello  della sfida verso  le altre potenze e alle loro economie, mantenendo la propria presenza in un paese importante per la sua posizione strategica. Finchè con l’amministrazione Trump il focus militare si è spostato definitivamente dalla lotta al terrorismo, alla competizione internazionale con Cina e Russia. La lettura qui proposta va pertanto nella direzione della fine di una strategia e nell’apertura di un’altra.  L’accordo Aukus che sembra essere scaturito da un giorno all’altro in realtà, come tutti gli accordi internazionali , era in preparazione da molti mesi e gli accordi di Doha del febbraio scorso scontavano già la chiusura della nuova alleanza.

In questo nuovo patto tra paesi di area anglofona –paesi storicamente alleati- emerge la marginalizzazione dell’Europa e dell’intesa che da sessant’anni la legava agli Stati Uniti: la Nato.

L’Alleanza atlantica – uno dei trattati più longevi della storia- era nata in funzione anti sovietica, per blindare l’Europa occidentale contro un ipotetico –ma al tempo molto empirico nelle preoccupazioni americane- avanzamento sovietico atto ad occupare l’intera regione. Gli Usa erano preoccupati che un esercito comunista potesse aver libero accesso all’Oceano Atlantico e così minacciare via mare la loro sicurezza interna. Questa era la strategia geopolitica che sottintendeva all’alleanza atlantica, una funzione antisovietica , poi mutata nel tempo ma il cui focus è stato comunque limitato all’area dell’Europa e delle regioni intorno Mediterraneo.

Il baricentro strategico degli Stati Uniti è cambiato perché sono cambiati i loro interessi. Le strategie rappresentano il “cuore profondo degli imperativi di una nazione”[3]. La minaccia ora è diventata la Cina che vuole costruirsi una propria sfera d’influenza nei mari ad essa prospicienti, allo scopo di assicurarsi delle vie verso gli Oceani, fondamentali per il passaggio delle merci cinesi, attraverso cui passano più del 60 % delle merci mondiali in partenza dai porti asiatici.

La Cina è in ritardo rispetto al posizionamento degli Stati Uniti nell’area, ma ciò che conta è che le risorse interne stanziate dal governo cinese vanno nella direzione di trasformare la forza del suo esercito da potenza terrestre a potenza marittima, nella chiara visione di Xi Jinping che è sugli specchi d’acqua che si giocheranno le sfide presenti e future.

Vi sono ben tre accessi  nell’area che portano verso gli Oceani Indiano e Pacifico: la prima passa per  Isole Curili a nord del Giappone , la seconda corre a est al largo delle acque di Taiwan, e la terza si dirige verso sud attraverso lo stretto di Taiwan, dei veri e propri “colli di bottiglia” marittimi di grande  importanza strategica . Tutte e tre le vie sono oggi controllate dagli Stati Uniti tramite le alleanze con Giappone, Corea, Taiwan ecc.

Ma una cosa salta agli occhi : la  posizione centrale occupata dalla piccola Repubblica Cinese di Taiwan, indipendente dalla Cina, da cui passano ben due di quei varchi oceanici, fa pensare che nei prossimi anni tutte le tensioni verteranno verso quel piccolo stato. Da tempo l’espansionismo cinese incombe su Taipei, ma i taiwanesi non si percepiscono più cinesi di quanto maggiori siano le differenze politiche e culturali che li separano da loro. D’altronde, gli ultimi sondaggi mostrano in modo chiaro come a livello identitario i taiwanesi si sentano sempre di più solo “taiwanesi” (oltre il 67% secondo una rilevazione di luglio della National Chengchi University) e sempre meno solo “cinesi” (solo l’1,8%, contro il 27,9% che si sente sia “taiwanese” sia “cinese”). E ciò è avvertibile anche dalla cinematografia taiwanese, che offre uno sguardo interessante sulla giovane società dell’isola.  . E’ difficile pensare che si possa mantenere questo livello di tensione e di corsa agli armamenti nell’area suddetta, ci saranno sicuramente accordi che troveranno modalità di cooperazione tra tutti gli attori in campo .    Altrimenti a partire dal piccolo stato taiwanese si adombrerà lo spettro di una terza guerra mondiale.


[1] Vedi Rapporto ISPI 2020, Lavori in corso- La fine di un mondo Atto II, pag. 9.

[2] V. intervista a H.Kissinger, Corriere della Sera del 27/08/2021.

[3] G.Friedman, “La sconfitta afghana e una nuova strategia per l’America”, da Limes 8/2021, pag.42.

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