Il “piano segreto” di Israele per il dopoguerra

Il “piano segreto” di Israele per il dopoguerra

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di Giacomo Gabellini per l'AntiDiplomatico

 

Secondo il quotidiano israeliano «Maariv», Israele avrebbe elaborato con grande discrezione un piano per il dopoguerra. Il piano prevede per un verso l’istituzione di un governo militare israeliano provvisorio nella Striscia di Gaza, incaricato di rapportarsi con la popolazione locale e preposto sia alla gestione dell’ordine pubblico, sia alla distribuzione del materiale umanitario. Per l’altro, la nascita di una coalizione di Stati composta dai firmatari degli Accordi di Abramo più l’Arabia Saudita, che dovrebbe occuparsi di rifondare l’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) inserendovi funzionari sia privi di qualsiasi connessione con Hamas, sia estranei alla “cerchia” dell’anziano e screditatissimo leader dell’Anp Abu Mazen.

Questo nuovo organismo, indicato come Nuova Autorità Palestinese, assumerebbe la responsabilità politica della Striscia di Gaza soltanto una volta ultimato il processo di stabilizzazione affidato al governo militare israeliano, destinato a dissolversi all’atto del trasferimento dei poteri. Fermo restando che Tel Aviv si riserva il diritto di continuare ad agire unilateralmente per ragioni di sicurezza ogni qualvolta se ne presenti la necessità (o, forse, l’opportunità), nell’ambito di operazioni assimilabili a quelle condotte nel 2008 (Piombo Fuso) e nel 2014 (Margine Protettivo). I famigerati tagli periodici dell’erba, come li qualifica il gergo militare israeliano.

Nella fase successiva, Israele appoggerebbe una riforma generale dei meccanismi di (non) funzionamento dell’Autorità Nazionale Palestinese che amministra la Cisgiordania, del sistema scolastico palestinese e dei regolamenti vigenti che disciplinano il contrasto al terrorismo. Qualora l’intero processo dovesse svolgersi regolarmente, Israele provvederebbe, entro un arco temporale compreso tra i due e i quattro anni, al riconoscimento di uno Stato palestinese smilitarizzato nei territori amministrati dall’Autorità Palestinese, impegnandosi simultaneamente a intavolare una trattativa intesa a trasferire al nuovo Stato territori aggiuntivi come contropartita per la preservazione degli insediamenti coloniali già esistenti in Cisgiordania.  

Stando alla ricostruzione formulata da «Maariv», il piano è frutto della progettualità politica di un nucleo ristretto di “uomini d’affari” vicini a Netanyahu e sarebbe stato sottoposto all’attenzione di alcuni funzionari statunitensi. Il primo ministro israeliano non sarebbe direttamente coinvolto nella promozione del disegno, ma si limiterebbe a influenzarne la struttura attraverso Ron Dermer, un suo stretto e fidato collaboratore, al fine di assicurarsi la possibilità di negare il proprio coinvolgimento diretto.

Come scrive il quotidiano: «oltre a questo piano, Israele sta lavorando contemporaneamente a diversi altri progetti per il dopoguerra: l’Israeli Defense Force sta lavorando al proprio piano e lo Shin Bet sta facendo lo stesso. Siamo di fronte al classico “metodo Netanyahu”, con molti messaggeri impegnati simultaneamente nella medesima missione e il primo ministro che si tiene al di fuori e al di sopra. Il piano degli “uomini d’affari” è però quello su cui Netanyahu sta meditando seriamente, ma sempre tenendosi a debita “distanza di sicurezza”».

Sotto alcuni aspetti, il progetto di cui «Maariv» ha delineato i contorni potrebbe scontare l’approvazione dell’amministrazione Biden, perché le consentirebbe di scrollarsi di dosso la fama di collaborazionismo con Israele che si è “guadagnata” con lo spalleggiamento all’Operazione Spade di Ferro. Un appoggio acritico imputabile al peso soverchiante della Israel Lobby e alla necessità che un presidente altamente impopolare come Biden avverte di ingraziarsi il favore dei 70 milioni di sionisti cristiani che popolano la Bible Belt statunitense in prossimità delle elezioni. Nonché a un possibile ricatto a cui il governo israeliano avrebbe sottoposto l’intera classe dirigente statunitense per tramite di Jeffrey Epstein, che secondo una pista investigativa sondata anni addietro e tornata di recente alla ribalta avrebbe messo in piedi per conto del Mossad – e con la collaborazione di Ghislaine Maxwell, condannata a 20 anni di carcere per adescamento di minori e altri reati commessi con o per conto del suo ex compagno Epstein – un sistema ricattatorio basato sulla videoregistrazione di politici e personaggi del potere statunitensi intenti a fare sesso con ragazze minorenni.

Allo stesso tempo, il piano descritto dal quotidiano israeliano risulterebbe funzionale al riavvicinamento allo schieramento occidentale di un Paese cruciale ma “indisciplinato” come l’Arabia Saudita, scarrellato rapidamente dal punto di vista sia economico che commerciale verso la Repubblica Popolare Cinese e artefice di una politica petrolifera allineata con la Federazione Russa i cui effetti sono risultati profondamente lesivi per gli Stati Uniti. Dal 2024, per di più, l’Arabia Saudita è divenuta membro a pieno titolo del Brics, dopo aver beneficiato della mediazione cinese per riaprire le relazioni diplomatiche con l’Iran, nell’ambito di una radicale revisione del tradizionale modus operandi – orientato allo scontro totale con l’Asse della Resistenza – culminato con l’appoggio di Riad al reintegro della Siria baathista nella Lega Araba e l’avvio di colloqui di pace con gli Houthi yemeniti. In seguito agli eventi del 7 ottobre, il principe Mohammad Bin-Salman e i suoi collaboratori hanno inoltre disposto il congelamento del processo di normalizzazione dei rapporti con Israele promosso dall’amministrazione Biden, vincolandone la riattivazione al riconoscimento di uno Stato palestinese da parte del governo di Tel Aviv.

D’altra parte, tuttavia, il piano verso cui «Maariv» ritiene che Netanyahu si sita orientando presenta alcune colossali controindicazioni. Anzitutto per quanto concerne l’irremovibile contrarietà di partiti israeliani di governo  HaTzionut HaDatit (Partito Sionista Religioso), facente capo al ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, e Otzma Yehudit (Potere Ebraico), il cui dominus incontrastato è rappresentato dal ministro per la Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir. Il primo, ha creato una catena di comando semiautonoma al servizio dei coloni di Cisgiordania, e stilato già nel 2017 un “piano decisivo” finalizzato a risolvere definitivamente il contenzioso israelo-palestinese attraverso il raddoppio della popolazione ebraica nei territori occupati, che a suo avviso produrrebbe «un effetto così profondo sulla coscienza degli arabi di Giudea e Samaria […] da portarli a prendere atto dell’impossibilità di fondare uno Stato arabo a ovest del fiume Giordano […]. I fatti sul campo sgonfiano le aspirazioni e sconfiggono le ambizioni». Sotto la spinta di Smotrich, l’esecutivo ha trasferito il controllo sui territori occupati dall’amministrazione militare a quella civile, e nello specifico proprio ai dipartimenti facenti capo al Ministero delle Finanze. Il provvedimento ha comportato l’eliminazione di gran parte delle preesistenti procedure diplomatiche e di sicurezza necessarie all’applicazione dei programmi di espansione degli insediamenti, predisponendone l’inoltro diretto ai comitati di pianificazione in Cisgiordania. Inoltre, ha osservato Michael Sfard, avvocato israeliano specializzato in questioni di diritto internazionale, il passaggio delle questioni afferenti la gestione degli insediamenti dall’autorità militare all’amministrazione civile rappresenta una conclamata violazione del diritto internazionale, perché sancisce l’annessione dei territori occupati nello Stato israeliano.

Itamar Ben-Gvir, invece, ha invocato la ricostruzione di insediamenti israeliani nella Striscia di Gaza, da realizzare previo incoraggiamento della “emigrazione volontaria” dei palestinesi. Più specificamente, il ministro per la Sicurezza Nazionale ha identificato nell’abbandono della Striscia di Gaza da parte dei palestinesi che la abitano la soluzione definitiva al conflitto, oltre che un prerequisito fondamentale per garantire il ritorno dei residenti del sud di Israele alle loro case. In tale contesto, la guerra rappresenta a suo avviso «un’opportunità per incoraggiare la migrazione dei residenti di Gaza».

Più recentemente, Ben-Gvir ha dichiarato urbi et orbi che aprirà una crisi di governo qualora Tel Aviv raggiungesse un ulteriore accordo con Hamas implicante un periodo di tregua.

C’è quindi del vero nella confidenza resa da un anonimo funzionario dell’amministrazione Biden a Jake Tapper della «Cnn», secondo cui «ad un certo punto, Netanyahu dovrà scegliere tra governare in un modo che piace a Ben-Gvir e Smotrich o governare in un modo che piace al presidente Biden e agli Stati Uniti».

Ma soprattutto, un piano che contempli il riconoscimento di uno Stato palestinese, anche se smilitarizzato, rappresenterebbe una ammissione di sconfitta, alla luce degli obiettivi massimalisti che il governo si proponeva di conseguire attraverso l’Operazione Spade di Ferro e dell’enormità del capitale sia politico che economico investito allo scopo. 

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