Il sionismo come colonialismo di insediamento - Enrico Bartolomei

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Il sionismo come colonialismo di insediamento - Enrico Bartolomei



Ci sono sempre più cose che è fortemente sconsigliabile dire. Il partito della guerra fa la faccia feroce. Che sia per l’Ucraina o per il Medio Oriente deve dare in pasto al pubblico l’immagine spietata del nemico e criminalizzare chiunque osi anche solo fare qualche distinguo, foss’anche il segretario generale dell’ONU. C’è chi perde il lavoro, dagli USA alla Svizzera all’Italia. C’è chi non può parlare o va sotto processo con l’accusa di “antisemitismo”. C’è anche, come sempre avviene, il ridicolo e il grottesco, che comunque dà il senso dell’abisso morale e intellettuale in cui stanno cercando di rinchiuderci.

«Il Campidoglio guidato da Roberto Gualtieri si è affrettato ad attivare l’ufficio decoro per togliere dalla facciata del circolo Arci Sparwasser al Pigneto uno striscione che portava la scritta “Fermiamo il massacro: Free Palestine”. Campidoglio che in serata precisa in una nota: “Le rimozioni da parte dell’ufficio decoro urbano del Comune di Roma di manifesti, striscioni e scritte relativi al conflitto in Medio Oriente avvengono su indicazione della Questura. Anche a seguito delle decisioni prese in sede di Comitato per l’Ordine e la Sicurezza”» (Il Fatto quotidiano, 27 ottobre pag.11). Il sindaco Gualtieri non c’entra, lui ha obbedito agli ordini.

Di fronte a queste derive non possiamo stare sulla difensiva! Bisogna anzi raddoppiare gli sforzi per smascherare la propaganda di guerra travestita da ipocrita perbenismo e difesa di “valori democratici”.

Molto è stato fatto, ma ancora non abbastanza per quanto riguarda il regime nazista insediato a Kiev e la guerra per procura condotta dagli USA contro la Russia e a detrimento anche dei complici europei.

Molto va fatto anche per quanto riguarda la natura del conflitto israelo-palestinese. C’è molta confusione, anche tra chi si professa amico dei palestinesi, e persino tra i comunisti. Non si comprende appieno la natura di ideologia razzista del sionismo, non si vede la mostruosità del progetto di colonizzazione perseguito da più di un secolo su una terra che si pretendeva “senza un popolo” e che, per non falsificare la teoria, del popolo che la abitava veniva progressivamente svuotata. Si identifica sionismo ed ebraismo, senza capire che il sionismo è stato ed è per gli ebrei un veleno mortale, come tanti ebrei riconoscono e che combattono, nonostante le persecuzioni di cui sono generalmente oggetto. Non si va alla radice del legame strettissimo tra sionismo e imperialismo, di cui pure abbiamo manifestazioni evidenti e quotidiane. Ci si culla, da trent’anni ormai, nella illusione del cosiddetto “processo di pace” e dei “due stati”, nonostante l’evidenza ormai manifesta della sua impraticabilità.

C’è molto da fare per smascherare la propaganda di guerra e lo spirito coloniale e suprematista che anima tanta parte dell’occidente e come una spirale ci porta sempre più in guerra. E’ utile perciò pubblicare analisi e materiali che contribuiscano a fare un po’ di chiarezza. Il saggio di Enrico Bartolomei del dicembre 2021 sul “Sionismo come colonialismo di insediamento. La ridefinizione del discorso su Israele/Palestina” ci sembra un buon modo per iniziare.


Paolo Pioppi,
27 ottobre 2023



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di Enrico Bartolomei - Pubblicazioni di America Critica

dicembre 2021

L'analisi del sionismo come colonialismo di insediamento è stato a lungo il quadro ideologico di riferimento dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina e la base teorica per l'elaborazione della proposta di Stato unitario, democratico e non confessionale nella Palestina storica. L'era degli Accordi di Oslo ha invertito questa tendenza, promuovendo un discorso incentrato sulla retorica del conflitto, della coesistenza e della soluzione "due popoli-due stati". Recentemente, grazie al consolidamento in ambito accademico dei Settler Colonial Studies si è posto di nuovo al centro del dibattito il colonialismo di insediamento come paradigma per comprendere il sionismo e la decolonizzazione come soluzione alla questione palestinese.

 

L’EMERGERE DEI “settler colonial studies”

Recentemente si è assistito al consolidamento in ambito accademico dei settler colonial studies come campo di ricerca a sé stante, con il proliferare di conferenze, studi e una rivista accademica dedicata al tema[1]. I settler colonial studies concepiscono il colonialismo di insediamento come una tipologia di dominio diversa e per certi versi antitetica rispetto al colonialismo classico: se quest’ultimo è finalizzato allo sfruttamento dei mercati, delle risorse e della manodopera indigeni, il colonialismo di insediamento si pone come obiettivo l’eliminazione dei nativi e la loro sostituzione con comunità esogene portatrici di un’istanza esclusiva di sovranità. Il colonialismo sarebbe perciò improntato a una logica di sfruttamento, avendo come obiettivo principale il lavoro del colonizzato, mentre il colonialismo di insediamento risponde a una logica di eliminazione, in quanto mira alla terra del colonizzato. Le società nate dall’insediamento coloniale erigono una serie di meccanismi e di strutture che, sebbene possano manifestarsi in forme diverse (dal genocidio alla pulizia etnica, dalla segregazione all’assimilazione), sono fondamentalmente improntate a una logica di eliminazione dei nativi dalla terra in un conflitto a somma zero.

Sicuramente uno degli sviluppi più interessanti dei settler colonial studies è la loro applicazione allo studio del sionismo e della questione palestinese. Il sionismo è considerato come una forma di colonialismo di insediamento che mira ad impossessarsi della terra e a sbarazzarsi della popolazione indigena. Questa lettura presenta importanti implicazioni concettuali (Salamanca et al. 2013) in quanto restituisce un quadro più coerente sulla natura coloniale della violenza in Palestina, ridimensionando da un lato ricerche sempre più settorializzate, parziali e frammentate, che insistono oltremisura su un singolo aspetto del conflitto, dall’altro visioni basate su una falsa simmetria tra ebrei israeliani e palestinesi, considerati come parti con ruoli uguali all’interno di un conflitto, invece che nella dicotomia coloni/nativi tipica delle società nate dall’insediamento coloniale. L’enfasi strutturale dei settler colonial studies riveste perciò un significato particolare nel contesto palestinese, in quanto offre una prospettiva olistica che porta in primo piano il modello sistematico della colonizzazione sionista, considerandola come un processo storico che investe la popolazione palestinese nel suo insieme e che inizia ben prima della nakba, continuando ancora oggi sotto diverse forme e mezzi.

Storicamente, la logica di eliminazione sionista dei nativi palestinesi si è manifestata attraverso diverse forme: la creazione di un insediamento ebraico separato ed esclusivo durante il periodo del Mandato, l’espulsione di massa e manu militari dei nativi dalla terra nel 1948 e nel 1967, il memoricidio (la distruzione fisica del patrimonio culturale e la cancellazione di ogni traccia della presenza nativa), la separazione/segregazione legale, fisica e spaziale, le politiche di de-sviluppo economico, la retorica e le pratiche discriminatorie e disumanizzanti, la negazione del diritto al ritorno dei profughi e la soppressione brutale di ogni forma di resistenza.

I settler colonial studies hanno inaugurato una serie di studi comparati che mettono Israele a confronto diretto con le pratiche di spossessamento e incorporazione violenta portate avanti da altre società nate dall’insediamento coloniale europeo, come gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia e il Sud Africa. Altrettanto utile è la comparazione tra le pratiche di spoliazione e le ideologie utilizzate per giustificarle: si pensi ai miti ricorrenti nelle imprese colonizzatrici come quello della terra vergine della “terra senza popolo a un popolo senza terra”, i principi della terra nullius o del vacuum domicilium, il mito della frontiera, le pretese di eccezionalismo storico e di elezione biblica avanzate dai coloni.

Al di là delle possibilità euristiche, l’interpretazione del sionismo attraverso le lenti del colonialismo di insediamento ha importanti implicazioni politiche: gli strumenti tradizionali della risoluzione dei conflitti (compromesso territoriale, negoziati, misure per la costruzione della pace e il rafforzamento della fiducia) risultano inefficaci in una situazione di colonialismo di insediamento, che richiede invece un processo di decolonizzazione che smantelli l’ideologia e la struttura che riproducono la dicotomia colono/nativo.

SIONISMO COME COLONIALISMO DI INSEDIA-MENTO

Naturalmente, la descrizione del sionismo come una forma particolare di colonialismo che mira ad impossessarsi della terra attraverso la spoliazione dei nativi non è una novità introdotta dai settler colonial studies, ma è ampiamente presente negli scritti anticoloniali dei palestinesi in epoca addirittura precedente alla pulizia etnica del 1948[2]. Questi autori possono non aver necessariamente utilizzato gli strumenti analitici e il lessico tipico dei settler colonial studies di oggi, ma hanno descritto con estrema efficacia e precisione i processi di spoliazione dei palestinesi e il progetto sionista di creare uno Stato ebraico esclusivo su tutta la Palestina storica.[3] (Bhandar e Ziadah 2016). La questione palestinese è inquadrata in termini di scontro tra la popolazione indigena in lotta per l’indipendenza e l’autodeterminazione e i coloni stranieri che, supportati dalle forze imperialiste mondiali, tentano di rimpiazzarla e di impiantare nel cuore del mondo arabo un avamposto colonialista rappresentato dallo Stato di Israele.

Il colonialismo di insediamento è stato a lungo il quadro ideologico di riferimento del movimento di liberazione palestinese nella sua analisi del sionismo, nell’articolazione delle strategie di resistenza e nella formulazione delle alleanze internazionali. I testi fondamentali elaborati dalla Resistenza palestinese - in particolare a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta - contengono una lucida analisi del sionismo come colonia europea di insediamento, inquadrano la lotta palestinese all’interno del movimento anticolonialista e terzomondista globale e propongono la costituzione di una Palestina unitaria, democratica e non confessionale al posto dell’insediamento coloniale sionista come unica soluzione che garantisca la convivenza pacifica e su basi di uguaglianza tra i coloni ebrei-israeliani e i nativi arabo-palestinesi. Già la Carta nazionale palestinese, il documento fondativo dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP), elaborato nel 1964 ed emendato quattro anni dopo, definisce il sionismo come “un movimento organicamente legato all’imperialismo internazionale [...] razzista e fanatico per natura, aggressivo, espansionista, colonialista nei suoi obiettivi e fascista nei metodi”. Israele, si legge nella Carta, è “lo strumento del sionismo, una base geografica per l’imperialismo mondiale, piazzata strategicamente nel mezzo della nazione araba per combattere le speranze di liberazione, unità e progresso degli arabi” (Kadi 1969).

Una delle più lucide e dettagliate analisi della natura esclusivista, espansionista e militarista del colonialismo sionista fu elaborata da Fayez A. Sayegh, fondatore del Centro di ricerche dell’OLP, che rappresentò un punto di riferimento per il dibattito intellettuale palestinese e che, oltre ad affrontare vari aspetti legati alla storia palestinese, si dedicò allo studio del sionismo e della società israeliana. Sayegh (1965) spiega che il sionismo rappresenta una forma particolare di colonialismo dalla “natura duale” che, da un lato tende allo sradicamento della popolazione indigena e, dall’altro, alla sua sostituzione con una popolazione di coloni che rivendica il controllo esclusivo della terra e della sovranità politica. La colonizzazione sistematica della Palestina «ha preso la forma combinata della spoliazione forzata della popolazione indigena, della sua espulsione dal paese, dell’impianto di una sovranità aliena sul suo territorio e della rapida importazione di orde di alieni per occupare la terra così svuotata dei suoi abitanti legittimi. Il popolo della Palestina ha perso non solo il controllo politico sul paese, ma anche l’occupazione fisica dello stesso: è stato deprivato non solo del suo inalienabile diritto all’autodeterminazione, ma anche del suo elementare diritto all’esistenza sulla propria terra» (: V).

Si tratta della definizione ante litteram del colonialismo di insediamento come modo specifico di dominio elaborata un seguito dai settler colonial studies. Le prima caratteristica fondamentale del sionismo è la sua “natura razziale”: solo in una condizione di “autosegregazione ebraica” in Palestina e di “esclusività ebraica” nel possesso della terra i sionisti hanno potuto realizzare il progetto di creare una società fondata sul principio della “superiorità ebraica”. L’espulsione dei “non ebrei”, ovvero dei palestinesi, è perciò una necessità insita nel suprematismo razziale sionista. La seconda caratteristica è la “dipendenza dalla violenza” nei confronti degli arabi, che rappresentano un bersaglio per il semplice fatto di essere presenti nella terra ambita dai sionisti. La terza è l’ “atteggiamento espansionistico”, in linea con l’obiettivo storico sionista di fondare uno Stato ebraico in “Eretz Israel”, ovvero tutta la Terra di Israele, che comprenderebbe il territorio della Palestina sotto il Mandato britannico, il Regno di Giordania, il Sud del Libano e il Sud e il Sud-Est della Siria (: 21–35). Il colonialismo di insediamento sionista, conclude Sayigh, a differenza di altri colonialismi europei basati sullo sfruttamento economico o sull’annessione territoriale, proprio in virtù della sua tendenza all’espulsione dei nativi, all’autosegregazione razziale e alla sovranità esclusiva è per sua natura incompatibile con la presenza e con la permanenza dei palestinesi sul territorio (: 5)[4].

L’analisi del sionismo come forma particolare di colonialismo è condivisa dalle principali correnti ideologiche dell’OLP. In un opuscolo di presentazione, l’organizzazione nazionalista al-Fatah inquadra la questione palestinese in termini di scontro coloni e popolazione indigena: «il problema palestinese è il risultato dell’espropriazione forzata della popolazione araba palestinese, la loro espulsione dal paese e l’impianto di una sovranità aliena sul loro suolo per far posto al raduno in Palestina dell’ebraismo mondiale» (Fatah, senza data: 1). Israele è definito come «Stato coloniale sionista [...] fondamentalmente motivato dai principi di autosegregazione, esclusivismo e supremazia razziale e religiosa» (: 5).

In una serie di opuscoli dal titolo “Studi ed esperienze rivoluzionarie” pubblicati nel 1967 al-Fatah dedica ampio spazio all’analisi delle lotte di liberazione cinese, vietnamita, cubana e algerina, collocando la lotta palestinese all’interno delle altre lotte anticolonialiste del tempo. In questo studio al-Fatah fornisce una dettagliata definizione del sionismo come “colonialismo di insediamento”, vale a dire una forma di colonialismo che non si limita ad occupare militarmente un territorio allo scopo di sfruttarne le risorse umane e materiali, ma una forma di colonialismo che prevede la sostituzione della popolazione nativa con gruppi di altri popoli stranieri che hanno il compito di “disperdere, sfruttare o eliminare” la popolazione originaria, come nei casi dell’Algeria, del Sud Africa e della Rhodesia. Vale la pena riportare un intero passo dell’opuscolo in cui si descrive con estrema efficacia la “natura coloniale-insediativa” del sionismo e il suo “espansionismo aggressivo”, giustificati sulla base di precetti derivati dalla fede ebraica:

Per quanto riguarda le forme di colonialismo che comportano l’insediamento di una popolazione straniera al posto dei nativi [...] il colonialismo rimuove l’impronta sociale del popolo oppresso, separandolo dal suo ambiente naturale. Può anche ridurlo al pari di una classe sfruttata che lavora al servizio degli interessi coloniali, asservita alla nuova classe che ha preso il posto della popolazione [nativa, nda] e che ha iniziato una nuova vita sulla sua terra. Come tale, il popolo sconfitto diventa, in tutte le sue classi, un’unica classe di lavoratori sfruttati. La storia si è resa testimone di una delle forme di colonialismo più cattive e violente che ha preso la forma dell’espulsione di un intero popolo dal suo paese, dell’occupazione della sua terra, della distruzione della suo essere sociale e e dell’imposizione della punizione del genocidio. Questo è esattamente ciò che il nostro popolo arabo palestinese ha sofferto e continua a soffrire. La conquista sionista rappre-senta l’occupazione nella sua forma più estrema. Attraverso di essa, il nostro popolo fu sostituito da gruppi dispersi provenienti da svariate società e uniti dall’interesse per la colonizzazione. I coloni sono guidati dal sionismo, un movimento coloniale razzista sostenuto dal potere finanziario e dai mezzi militari della Gran Bretagna e dell’America, i più grandi paesi imperialisti.

Dal momento che l’occupazione sionista mira a erigere una società nuova e separata sulle rovine di quella indigena, la lotta di liberazione, nella forma della guerra armata popolare, «deve portare non solo all’eliminazione della base imperialista, ma alla distruzione dell’intera struttura sionista della società [...] per estirparne completamente le radici, distruggendo le diverse istituzioni militari, politiche ed economiche e stroncando ogni loro possibile rinascita» (Fatah 1967).

Nell’analisi del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina (FPLP), organizzazione nata dal Movimento dei nazionalisti arabi e in seguito orientata al marxismo-leninismo, Israele è definito primariamente in base alla funzione che svolge nel sistema imperialista mondiale: esso è un avamposto coloniale impiantato in terra araba, organicamente legato al movimento sionista mondiale, utilizzato dall’imperialismo statunitense allo scopo di contrastare i movimenti arabi progressisti e garantire così lo sfruttamento delle risorse umane e materiali del mondo arabo. Nel manifesto programmatico del 1968, “Strategia per la liberazione della Palestina”, Israele è definito “un’entità politica, militare ed economica che cerca di ottenere la massima mobilitazione militare dei suoi due milioni e mezzo di cittadini per difendere la sua struttura razzista, espansionistica e aggressiva” (Popular Front for the Liberation of Palestine 1969).

In sintesi, il movimento di resistenza considera il sionismo come una tipologia specifica di colonialismo, di insediamento appunto, che non mira solamente al controllo politico e militare del territorio, o al suo sfruttamento, ma ha come obiettivo lo sradicamento della popolazione indigena e la sua sostituzione con una società di coloni stranieri basata sulla separazione, sull’esclusivismo e sulla supremazia razziale. Israele è considerata l’entità coloniale che incarna materialmente il movimento sionista, aliena al contesto arabo mediorientale e artificialmente tenuta in vita dall’afflusso di mezzi, soldi e armamenti statunitensi. Da ciò deriva necessariamente il suo carattere bellicista ed espansionista, fonte di perenne instabilità nel mondo arabo-mediorientale, e l’impossibilità di raggiungere pace, stabilità e giustizia nella regione senza la rimozione della sua struttura materiale e dell’ideologia che la sostiene. In altre parole, essendo il progetto sionista incompatibile con l’esistenza fisica dei palestinesi sulla terra, la desionizzazione della Palestina è considerata come precondizione per l’autodeterminazione.

L’IDEA DI STATO UNITARIO, DEMOCRATICO E NON CONFESSIONALE

In linea con questa analisi del sionismo, a partire dalla fine degli anni Sessanta il movimento di resistenza adottò la proposta di creare uno Stato democratico, unitario e non confessionale in Palestina al posto dello Stato sionista, come soluzione che avrebbe permesso allo stesso tempo l’autodeterminazione palestinese, garantendo il diritto al ritorno dei rifugiati e la fine dell’occupazione delle terre arabe, e la possibilità per i coloni ebrei di vivere come cittadini alla pari con i palestinesi nativi, salvo rinunciare ai principi del sionismo.

L’idea di Palestina unitaria, pensata in netto contrasto con la natura esclusivista e suprematista dello Stato ebraico, venne declinata secondo le due principali correnti di pensiero della Resistenza (Abdul-Majid 1979). La prima, rappresentata da al-Fatah, prevedeva la creazione di uno Stato palestinese indipendente come tappa precedente alla creazione di una entità araba federata. Lo Stato unitario e democratico di Palestina avrebbe garantito agli ebrei israeliani la piena cittadinanza, la partecipazione su basi di parità alla vita politica e all’accesso alle risorse e avrebbe permesso la libera espressione religiosa e culturale[5] di tutti i gruppi e le comunità (Rasheed 1970).

I sostenitori della seconda corrente di pensiero, nella quale possiamo annoverare sia organizzazioni panarabiste come il Fronte di liberazione arabo e al-Saiqa sia organizzazioni di ispirazione marxista-leninista come il già citato FPLP e il Fronte democratico, ritenevano che, considerato il legame storico tra la Palestina e il mondo arabo, sarebbe stato possibile creare uno Stato democratico palestinese solamente in seguito alla vittoria della rivoluzione araba, alla liquidazione delle entità sta-tali artificiali create dal colonialismo e all’eliminazione dell’entità coloniale sionista nella regione. A questo scopo, la lotta anticoloniale palestinese si sarebbe fusa a quella araba e la Palestina liberata sarebbe stata parte integrante di uno Stato arabo unificato. Per i sostenitori di questa corrente di pensiero, impegnarsi nella lotta di liberazione nazionale significava lottare allo stesso tempo per l’unità araba e per la rivoluzione sociale. La creazione di una Palestina liberata e organicamente legata a uno Stato arabo e socialista avrebbe fato venir meno i presupposti per lo sfruttamento economico e per l’oppressione nazionale, etnica e religiosa (Popular Front for the Liberation of Palestine 1970).

L’idea di Stato unitario e democratico segnò una svolta nel pensiero della Resistenza. Per i palestinesi, essa rappresentava una concessione storica: la popo-lazione nativa, legittima proprietaria della terra, era pronta a condividerla con gli ebrei, la maggior parte dei quali si erano insediati solo di recente in Palestina ed erano considerati i responsabili del loro sradicamento (Muslih 1990: 14). Inoltre, l’idea di Stato democratico implicò un ripensamento fondamentale della figura del nemico, i cui cardini erano, oltre all’accettazione della presenza ebraica sul suolo di Palestina, la netta distinzione tra sionismo ed ebraismo, il rifiuto delle soluzioni scioviniste basate sulla discriminazione o sull’espulsione dei coloni ebraici, l’appello alle forze ebraiche antisioniste e progressiste in Israele e nel mondo a rifiutare il sionismo per unirsi alla lotta palestinese.

DALLA LIBERAZIONE ALLA COESISTENZA?

A partire dalla metà degli anni Settanta, una serie di cambiamenti regionali[6], insieme all’indebolimento militare e all’isolamento politico dell’OLP, determinarono la sostituzione progressiva del progetto di liberazione anticoloniale con quello della costruzione statuale senza liberazione (Muslih 1990). Emergono in questo periodo due posizioni contrapposte in seno al movimento nazionale: per la corrente di maggioranza - incarnata da Fatah e in questa fase anche dal Fronte democratico - non è possibile preservare l’obiettivo strategico dello Stato unitario e democratico senza passare per una tappa intermedia in cui, anche attraverso negoziati, si edifichi un’autorità nazionale su qualsiasi porzione di territorio liberato in modo da soddisfare il “minimo dei diritti nazionali” palestinesi[7]. Secondo l’altra corrente di pensiero, alla luce dei rapporti di forza sfavorevoli alla Resistenza, ogni accordo negoziato con Israele per la costituzione di uno “staterello” accerchiato da Israele da una parte e dai regimi arabi reazionari dall’altra, avrebbe comportato la liquidazione della Resistenza e la rinuncia ai “diritti storici” dei palestinesi alla liberazione totale e al ritorno dei rifugiati.

Il cambiamento comincia nel giugno 1974, quando il Consiglio nazionale palestinese - l’organo legislativo dell’OLP che funge da parlamento di tutti i palestinesi, in esilio e nei territori occupati - stabilisce l’obiettivo di creare un’autorità palestinese su qualsiasi lembo di terra liberata dall’occupazione coloniale come fase intermedia verso la liberazione totale, e si conclude con la dichiarazione di indipendenza del novembre 1988 che prevede la creazione di uno Stato palestinese indipendente entro i confini del giugno 1967, al fianco di Israele. Questa dichiarazione apre la strada alla firma degli Accordi di Oslo nel 1994 e al cosiddetto “processo di pace”, cioè la rinuncia alla lotta armata, alla liberazione di tutta la Palestina e il riconoscimento della legittimità dell’occupazione coloniale sionista sulla maggior parte della Palestina storica.

Questi cambiamenti portarono a una ridefinizione della forma e della natura dell’OLP che, da movimento di liberazione anticoloniale in esilio si trasformò in organo di autogoverno all’interno della struttura coloniale israeliana (S¯ayigh 1997). In altri termini, la soluzione dello Stato unico inquadrata all’interno del discorso anticolonialista lasciò progressivamente il posto alla soluzione dei “due stati per due popoli” inquadrata all’interno del discorso della costruzione statale, del compromesso territoriale e del riconoscimento politico da raggiungere attraverso negoziati bilaterali sponsorizzati dagli Stati Uniti.

Naturalmente, i cambiamenti sul terreno si sono riflettuti sul modo in cui è stata inquadrata la questione palestinese. L’egemonia del discorso sionista sancita da-gli Accordi di Oslo ha creato una serie di distorsioni del modo in cui molti, soprattutto in Occidente, percepiscono la natura del conflitto. Una di queste distorsioni consiste nella riduzione della storia palestinese all’occupazione militare israeliana di Cisgiordania e Striscia di Gaza nel 1967, ignorando la lunga storia della colonizzazione sionista della Palestina che affonda le sue radici alla fine dell’Ottocento e assume proporzioni catastrofiche con la pulizia etnica del 1948. Un’altra distorsione avviene riducendo geograficamente la Palestina alla Cisgiordania e alla Striscia di Gaza, che rappresentano solo il 22% del territorio della Palestina sotto il Mandato britannico, e riducendo demograficamente i palestinesi ai soli abitanti di questi territori, ignorando i palestinesi con cittadinanza israeliana e coloro che vivono nei campi profughi e in diaspora ((Hilal 2015)).


DECOLONIZZARE LA PALESTINA

La soluzione “due popoli due stati” ha ignorato le realtà fisiche e politiche sul terreno, tra cui l’intreccio inestricabile tra le zone abitate dagli ebrei-israeliani e quelle abitate dai palestinesi e gli effetti irreversibili della colonizzazione, e presuppone che vi sia una falsa parità nel potere e nelle legittimità morale fra uno Stato colonizzatore e un popolo colonizzato. Inoltre, essendo basata sulla premessa che sia possibile ottenere la pace concedendo diritti nazionali limitati ai soli palestinesi che vivono nei territori occupati nel 1967, questa soluzione condanna i palestinesi cittadini di Israele ad uno status permanente di seconda classe e nega ai palestinesi rifugiati e in esilio il diritto al ritorno sancito a livello internazionale.

A venticinque anni di distanza dalla firma degli Accordi di Oslo, Israele non ha mai inteso porre fine all’occupazione militare della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, smantellare gli insediamenti coloniali, accettare l’istituzione di uno Stato palestinese indipendente entro i confini del giugno 1967 e non ha mai pensato di discutere il diritto al ritorno dei rifugiati. La visione del sionismo come colonialismo di insediamento chiarisce le ragioni profonde di questo atteggiamento di rifiuto, insito nella natura coloniale razzista dell’ideologia sionista, e rivela come il “processo di pace” e i negoziati bilaterali vadano piuttosto considerati come una delle modalità in cui ha operato la logica di eliminazione.

Lungi dall’essere un’occasione di riconciliazione infatti, la farsa del processo di pace infinito è servita a Israele per riconfigurare il dominio coloniale preferendo, in questa fase storica, la logica dell’apartheid, attraverso la creazione di un regime istituzionalizzato di oppressione, di dominio e di segregazione sistematica su base razziale, alla logica dell’espulsione di massa, pur largamente applicata in passato, ma impraticabile nelle attuali circostanze. Dal momento che, se si considera la Palestina storica nel suo insieme, i palestinesi sono ancora la maggioranza demografica, la politica dell’apartheid rappresenta l’espediente che meglio consente di mantenere la sovranità ebraica esclusiva sul territorio sulla base del principio sionista del “massimo della terra col minimo di palestinesi al suo interno”.

Il recupero del paradigma del colonialismo di insediamento, che pone al centro la dicotomia colono/nativo, permette di uscire dalla “paralisi concettuale" impostaci dalla soluzione due popoli-due stati e dalla “retorica della coesistenza” (Chomsky, Pappé e Barat 2015), invertendo la tendenza del movimento nazionale palestinese a prediligere l’obiettivo dell’autorità parastatale che coesiste al fianco dell’insediamento coloniale israeliano all’obiettivo della decolonizzazione. L’analisi del sionismo come colonialismo di insediamento è incompatibile con l’idea di coesistenza o con la possibilità di raggiungere un qualsiasi accordo che conservi la struttura e l’ideologia coloniale e mantenga operativa la logica di eliminazione dei nativi.

Il fallimento degli Accordi di Oslo, lo scoppio della Seconda Intifada e l’impraticabilità della divisione territoriale su base etnico-religiosa ha suscitato un rinnovato interesse per il dibattito sullo Stato democratico, unitario e non confessionale, oggi attualizzato nella formula dello Stato unico (uguaglianza di tutti i cittadini) o della soluzione binazionale (uguaglianza dei due gruppi nazionali). Malgrado le mutate circostanze storiche e i rapporti di forza sfavorevoli, molti palestinesi ritengono che la creazione di uno Stato unico, fondato sul principio in base al quale la terra di Palestina appartiene a tutti coloro che vi vivono e a coloro che sono stati espulsi o esiliati dal 1948, senza distinzione di religione, identità etnica, origini nazionali o status di cittadinanza attuale, sia l’unica soluzione globale, giusta e duratura, dal momento che permette di risolvere allo stesso tempo la questione ebraica in Palestina e il problema dei palestinesi in Israele, nei territori occupati di Cisgiordania e Striscia di Gaza, dei rifugiati e in generale della diaspora.

Ne consegue che non c’è autodeterminazione senza decolonizzazione. Non a caso, il Movimento per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele (BDS), lanciato dalla stragrande maggioranza delle organizzazioni della società civile palestinese nel 2005 e ispirato al movimento contro l’apartheid in Sudafrica, mira a garantire l’autodeterminazione delle tre principali componenti del popolo palestinese, chiedendo la fine dell’occupazione e della colonizzazione in Cisgiordania e Striscia di Gaza, la piena eguaglianza dei palestinesi cittadini d’Israele e il rispetto del diritto al ritorno dei profughi.



Riferimenti bibliografici

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NOTE

[1] Si vedano le opere fondamentali del campo di studi: (Wolfe 1999);(Wolfe 2006); (Veracini 2010); (Veracini 2013)

[2] Si veda, per il periodo precedente al 1948: (Pappe 2015)

[3] Per "Palestina storica" si intende il territorio posto sotto il Mandato britannico dopo la Prima guerra mondiale, che corrisponde all’attuale Israele e territori palestinesi occupati di Cisgiordania e Striscia di Gaza.

[4] Questa analisi del sionismo fu alla base della risoluzione approvata dall’Assemblea generale dell’ONU il 10 novembre del 1976 che equipara il sionismo a una forma di razzismo e di discriminazione razziale, risoluzione di cui lo stesso Sayegh fu uno dei principali artefici. Si veda al riguardo: (Sayegh 1976)

[5] Non nazionale, in quanto il riconoscimento di una comunità nazionale ebraica avrebbe legittimato le aspirazione sioniste a uno Stato indipendente. Le organizzazioni della Resistenza concordano sul fatto che gli ebrei in Palestina non costituiscono un gruppo nazionale, ma una comunità artificiale composta da varie nazionalità alla quale accordare libera espressione religiosa e culturale e parità di cittadinanza all’interno di uno Stato palestinese o di un’entità araba unificata.

[6] Il nuovo equilibrio di potere nato dalla guerra del 1973, l’espulsione dell’OLP prima dalla Giordania nel 1970-71 e poi dal Libano nel 1982, l’accordo di pace tra Israele ed Egitto, le pressioni degli alleati arabi e internazionali dell’OLP per una soluzione negoziata e l’appoggio incondizionato degli Stati Uniti a Israele.

[7] Con “diritti minimi” si intendenva la creazione di una entità palestinese sovrana e indipendente su parti della Palestina.

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