In gioco, c'è molto di più di un gioco
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In gioco c’è molto di più di un gioco, sia pure quello più popolare al mondo, il calcio. In gioco c’è la sopravvivenza di valori differenti da quelli prescritti dal liberismo: denaro e successo. In gioco c’è la possibilità di progettare, ancor prima che realizzare, una società in cui anche chi non sia ricco, famoso o vincente possa lo stesso vivere una vita dignitosa e gratificante. In gioco c’è la capacità di impedire la completa americanizzazione dell’Italia, dell’Europa, del mondo.
Mi fa male allo stomaco pensare che un motto come quello di de Coubertin, l’importante non è vincere ma partecipare, che caratterizzò le origini dello sport moderno (ancora adesso in inglese "a good sport" è chi sappia perdere), non sia stato semplicemente superato, come era inevitabile in regime di capitalismo, ma venga oggi considerato ridicolo anche da coloro che perdono sempre e che hanno interiorizzato le loro sconfitte come delle colpe, come mancanza di merito, come inettitudine, persuasi e umiliati da giornalisti, intellettuali da talk show e celebrity imbecilli e milionarie che ossessivamente ripetono in mondovisione che l’importante è vincere, anzi, che l’unica cosa che conta è vincere e che chi vince è giusto che abbia tutto e chi perde è giusto che non abbia nulla. Un darwinismo sociale d’accatto, dominante negli Stati Uniti ma sempre più diffuso in Europa, in Italia, anche grazie al giornalismo spazzatura degli Elkann e al calcio spazzatura di uno di loro, Andrea Agnelli.
Quanto alla partecipazione, è stata sistematicamente impedita, prima con la scusa del teppismo, poi della scarsa correttezza politica dei tifosi, quindi con la gentrificazione degli stadi, infine con la disneyficazione di quello che una volta era chiamato il “people’s game”, il gioco del popolo. Cosa credete che gliene importi, ai nababbi che lo controllano senza capirlo e amarlo, degli appassionati locali? Il popolo, non sanno neanche cosa sia: loro sono cosmopoliti, ossia senza patria, senza altra lealtà che quella verso il profitto; e la loro audience (non “pubblico”, parola detestata dai profeti delle privatizzazioni) sono i benestanti cinesi, giapponesi, arabi, americani, una massa da stordire con le esibizioni ormai quotidiane di star fabbricate dai media. Poi, quando il giocattolo si romperà (tutto ciò che il liberismo impone è a obsolescenza programmata), lo butteranno via e passeranno a rovinare qualcos’altro.
Prevedibile e coerente il progetto di un supercampionato europeo (ma i giornalisti italiani, servi dei potenti e delle mode, preferiscono chiamarlo con il nome inglese) riservato ai club più opulenti in modo da garantire che con gli enormi profitti fatti con lo streaming in Asia possano restare tali e anzi allarghino la forbice rispetto a tutti gli altri. Ovvio che a finanziare l’operazione ci fosse una delle maggiori banche stelle e strisce, la JP Morgan, come a dire il male assoluto; ovvio che fra i promotori ci fossero i “big six” inglesi, a suo tempo miracolati da Margaret Thatcher (quella che diceva che la società non esiste, solo gli individui) con la creazione della Premier League; ovvio che a corrergli dietro come cani fedeli ci fossero la Juventus degli americani Elkann, l’Inter dei cinesi, il Milan posseduto da uno dei maggiori fondi d’investimento di New York; ovvio che come momento fosse stato scelto quello in cui gli oppositori sono costretti a casa dal Covid e dalla crisi economica (che sta invece oscenamente arricchendo banche e multinazionali). Proprio degli sciacalli.
Pare che il colpo di mano sia fallito clamorosamente: i manager milionari e arroganti che lo avevano organizzato si sono rivelati degli sprovveduti. Andrea Agnelli più di tutti gli altri: "El País" lo ha definito un doppiogiochista, il "Figaro" un traditore, il "New York Times" ha citato il presidente dell’UEFA che lo accusa apertamente di essere un bugiardo seriale. Un imbarazzo nazionale: è necessario che la sua testa cada, come è già caduta quella del banchiere Ed Woodward, che di fatto comandava al Manchester United. Ma non bisogna pensare di avere vinto: l’avidità è la loro natura, come quella dello scorpione della favola, che punge la rana che lo stava traghettando attraverso il fiume e annega con lei; per cui aspetteranno l’occasione favorevole, sceglieranno dei cospiratori un po’ meno incapaci, e ci riproveranno. E quando, magari al terzo o quarto tentativo, ce la facessero, raggiungerebbero un secondo obiettivo, che forse gli importa ancor più del primo (fare miliardi): quello di demoralizzare e mortificare la gente ordinaria, costringendola a rifugiarsi, come tante volte è successo in questi ultimi trenta o quarant'anni, nello sterile cinismo del “così va il mondo” e del “tanto sono tutti uguali”.
Per cui bisogna approfittare della loro momentanea debolezza e dei loro recenti errori per creare condizioni che rendano impossibile il ripetersi di analoghi tentativi. Condizioni che aiutino la gente a non credere nei destini manifesti e nelle magnifiche sorti e progressive, non solo nel calcio. E che facciamo capire ai potenti che se tentano un colpo di mano e non gli riesce, pagheranno. Delle squadre implicate nella fronda liberista per instaurare un supercampionato europeo non guarderò più una singola partita, fosse anche la finale della Coppa dei Campioni (anche qui: perché usare un anglicismo?); e a chiunque le nominerà in mia presenza chiederò di cambiare discorso o di andarsene. Non conto niente ma per me già non esistono più e non mi importa che si dicano pentite. La sciarpa dell’Arsenal, la maglietta del Manchester United, la borraccia del Barcellona, affettuosi e graditi regali di persone care che conoscono la mia passione per il calcio, sono finite nell’immondizia (le tre squadre italiane coinvolte già le detestavo, quindi non avevo nulla da buttare).
Una reazione eccessiva? Al contrario, una reazione moderata, un blando atto di disobbedienza civile, l’unico consentito dalla dittatura liberista: codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. Ma è meglio dell’acquiescenza o del collaborazionismo. Alla estetizzazione della politica operata dal fascismo, scrisse Walter Benjamin nel 1936, in un periodo storico altrettanto cupo, si risponde con la politicizzazione dell’arte. È una forma di lotta che va riscoperta e utilizzata per contrastare il liberismo e la sua capacità di ridurre la politica a intrattenimento e gossip e l’intera società a spettacolo, in maniera più pervasiva e totalitaria del fascismo. Nella fattispecie suggerisco che alla trasformazione della politica in tifo (l’avrete notata nel berlusconismo, nel leghismo, nella bavosa aggressività dei conduttori televisivi) si risponda con la politicizzazione del tifo e dello sport. La demonizzazione e punizione dei traditori italiani, spagnoli e inglesi è un atto di resistenza politica.