La rivoluzione senza fine

La rivoluzione senza fine

Ad un anno dall'elezione di Morsi, l'Egitto torna a ribellarsi

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di Mara Carro
 
Il 30 giugno 2013 segna una data importante nella storia recente dell’Egitto. Il primo anniversario della presidenza di Mohammed Morsi ha visto una mobilitazione senza precedenti in tutto il paese, dopo una massiccia campagna di raccolta firme lanciata dal movimento Tamarod (Ribellione) che chiede le dimissioni del presidente Mohamed Morsi entro martedì, un governo tecnico in attesa di nuove elezioni e la sospensione della Costituzione. In nome della “legittimità” del presidente in carica, migliaia di egiziani hanno invece manifestato radunati davanti alla moschea di Rabaa el Adwayea al Cairo. Le proteste hanno raggiunto almeno sette governatorati, con un bilancio di oltre 600 feriti e almeno otto morti negli scontri tra i sostenitori e gli oppositori del presidente egiziano.  
 
Morsi ha giurato come primo presidente democraticamente eletto dell’Egitto il 30 giugno 2012, dopo i 30 anni al potere di Mubarak, ereditando un paese afflitto da una burocrazia corrotta e con un dato economico in constante peggioramento ma promettendo una svolta nei primi 100 giorni della sua presidenza. Ad un anno di distanza, il presidente non è riuscito a costruire l'amministrazione inclusiva di tutte le componenti sociali che aveva promesso, deludendo i copti e le donne, e ha adottato una Costituzione considerata troppo indulgente con i militari e troppo islamista nei contenuti per la componente laica della società egiziana. Dopo aver estromesso l’Esercito dalla gestione degli affari di Stato, Morsi si è ripetutamente scontrato con la magistratura, la polizia, i media e recentemente anche con alcuni artisti. Non è riuscito a tenere a freno la violenza contro i copti e gli sciiti e alcune sue recenti nomine, come quella del governatore di Luxor - esponente del partito Sviluppo e Costruzione, riconducibile all'organizzazione al-Jamaa al-Islamiya, implicato nell'attacco del 1997 al tempio della regina Hatshepsut, nella località turistica egiziana di Luxor, che uccise 58 turisti stranieri e quattro egiziani - hanno fatto molto discutere, esponendo ancora una volta lui stesso e la Confraternita all’accusa di voler islamizzare lo Stato e monopolizzare le istituzioni.
A pesare negativamente sul giudizio del primo anno di presidenza Morsi è soprattutto la mancata svolta economica, su cui grava il cronico rinvio di un accordo con il Fondo Monetario Internazionale per un prestito da 4,8 miliardi di dollari. Un terzo degli 85 milioni di egiziani continua a vivere in povertà, disoccupazione e l’inflazione sono in continua crescita e le riforme promesse per combattere la disoccupazione restano incompiute. Il carburante scarseggia, gli scioperi sono ormai quotidiani e lo stato dei servizi pubblici è in costante declino. Le riserve in valuta estera sono la metà di quello che erano sotto Mubarak e il valore della sterlina egiziana è sceso del 10% nei confronti del dollaro statunitense rispetto all'anno scorso.
 
Gli insuccessi della presidenza islamista sono divenuti il manifesto di coloro che si oppongono al governo Morsi. Un fronte eterogeneo che raccoglie laici liberali, nazionalisti, esponenti del vecchio regime, ma anche gruppi islamici e salafiti, confluiti nel Fronte di salvezza nazionale all’indomani della dichiarazione costituzionale adottata da Morsi mediante la quale il presidente aveva reso immuni tutti i suoi provvedimenti dal giudizio di qualsiasi altro organo, stabilito che nessuna autorità avrebbe potuto sciogliere l’attuale Consiglio della Shura o l’Assemblea Costituente e destituito il procuratore generale Abdel Meguid Mahmoud, nominato sei anni fa da Mubarak e considerato un suo retaggio, sostituendolo con Talaat Ibrahim Abdullah.  
Un gruppo che però manca di unità oltre che di reali alternative al governo islamista e che nei fatti è stato scavalcato dall’iniziativa dei giovani attivisti di Tamarod.
Il presidente Morsi, forte della legittimità della sua elezione, ha già chiarito che non intende dimettersi e ha nuovamente aperto al dialogo con l’opposizione. 
 
Dati economici alla mano, l’Egitto non può permettersi una seconda rivoluzione. Indipendentemente da quale scenario si materializzerà dopo il 30 giugno, tutte le forze politiche egiziane dovrebbero rendersi conto che nessun gruppo può ignorare o emarginare gli altri. Il governo dominato dalla Fratellanza musulmana dovrebbe sforzarsi di essere più inclusivo e trasparente, mentre l'opposizione dovrebbe rispettare le regole democratiche del gioco politico. Se l'opposizione dovesse riuscire a far dimettere Morsi, nessun futuro presidente sarebbe in grado di terminare il suo mandato perché dall'altra parte verrebbe usata la stessa tattica adoperata con Morsi. Se il sostegno a favore dell’ opposizione è ampio come essi sostengono, questo gruppi dovrebbero premere per tenere elezioni parlamentari il più presto possibile. Una vittoria alle urne darebbe loro non solo l’opportunità di formare il prossimo governo, ma di modificare la Costituzione e esercitare un potere di controllo sul presidente in modo democratico e civile. Se invece a prevalere saranno la violenza o tattiche non democratiche, questa “seconda” rivoluzione potrebbe privare gli egiziani delle conquiste della prima.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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