Lidia Undiemi: "La macchina democratica cessa di funzionare nel momento in cui il capitale prende (nuovamente) il sopravvento"

Lidia Undiemi: "La macchina democratica cessa di funzionare nel momento in cui il capitale prende (nuovamente) il sopravvento"

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di Lidia Undiemi 

 

Presi dal comprendere che piega prenderà l'emergenza, stiamo togliendo troppo tempo prezioso alla comprensione del problema principale che sta mettendo in crisi le democrazie mondiali e il benessere delle masse: lo strapotere del capitale globalizzato e il collasso del potere contrattuale dei lavoratori, che hanno fatto venir meno l'equilibrio di interessi tra classi sancito nelle costituzioni democratiche di tutto il mondo.

Questo è un passaggio determinante per capire le ragioni del declino politico, sociale e morale a cui stiamo assistendo: la macchina democratica cessa di funzionare nel momento in cui il capitale prende (nuovamente) il sopravvento, poiché la perdita del potere contrattuale dei lavoratori si traduce nella perdita di potere politico delle masse, facendo venir meno l'interesse della politica a tutelare l'interesse generale.

In questa folle corsa alla privatizzazione e alla globalizzazione incontrollata, il grande capitale riesce agevolmente a trasformare il potere dei soldi in potere politico, esercitando pressioni dentro le istituzioni pur non prendendone parte.

 

Essendo i centri di profitto del capitale globalizzato sparsi negli svariati settori produttivi e sociali, inevitabilmente si assiste ovunque a un riassetto del sistema di regole sbilanciato in favore dei suoi interessi, dal pubblico al privato.

Anziché evitare simili derive, la politica le asseconda, ma dovendosi comunque accreditare dinanzi alle masse cerca vie traverse per celare la reale posta in gioco, e quindi cerca di autolegittimarsi con poteri straordinari, retti da un interesse superiore, che insieme danno luogo allo stato di eccezione. Non importa quale sia l'eccezione – qualche anno fa era la crisi economica e finanziaria, oggi è l'emergenza sanitaria – il risultato è noto: accentramento di potere nelle mani dell'esecutivo e neutralizzazione del volere dell'elettorato in nome dell'interesse superiore, che parte appunto dai settori dell'emergenza per espandersi in tutti gli altri.

Le masse sono tagliate fuori, poiché tramite lo stato di eccezione chi governa è nelle condizioni di fregarsene del consenso.

Il patto tra oligarchie politiche ed economiche diviene gioco facile. Per carità, bene o male la storia ci insegna che a un certo punto le cose finiscono male anche per loro, ma intanto siamo in questa fase.

Il profitto è potere, e il potere si nutre di se stesso, quindi ha necessità di espandersi più che può, senza una meta definita. Nel momento in cui la politica asseconda questa non meta, probabilmente siamo destinati ad affrontare le conseguenze estreme di quest'approssimazione.

Gli stati divengono pertanto sempre più deboli dinanzi all'espandersi delle multinazionali, e in talune occasioni sono finanche disposti a dare incentivi pur di ottenere da queste un insediamento produttivo che garantisca un certo numero di posti di lavoro, incuranti delle conseguenze sistemiche di tali scelte.

Anche in politica però qualcuno inizia a sentire puzza di bruciato.

I meno svegli pensano di potere arginare le conseguenze disastrose della globalizzazione con deboli disincentivi, come l'ultima proposta italiana contro le delocalizzazioni che definirei provvedimento “pernacchia”, poiché agevolmente aggirabile e comunque inconsistente.

I più svegli hanno compreso che la non meta somiglia sempre più a una meta che li travolgerà, quindi iniziano a introdurre forme di ingerenze dello stato nei rapporti economici e del lavoro più incisive e che invadono il campo delle libertà individuali e contrattuali, aprendo campi dello stato di eccezione inesplorati nelle moderne democrazie. Questa potrebbe essere una importante chiave di lettura della sospensione delle libertà contrattuali attuata durante l'emergenza, come ad esempio il blocco dei licenziamenti.

Ora, non solo questa invadenza è un metodo di intervento eccezionale fuori dalla concezione di equilibrio tra classi previsto dalla Costituzione, ma è comunque inefficace, con la conseguenza che verrebbe inutilmente inferto un altro duro colpo allo stato di diritto in favore dell'autoritarismo politico.

Il motivo di questo timido e maldestro tentativo risiede nel fatto che i politici capiscono poco o nulla di globalizzazione e di multinazionali, quindi è quasi impossibile che riescano a proporre qualcosa di determinante, ma soprattutto, ripeto, rispettoso dei confini segnati dalla carta costituzionale, che ha una idea molto chiara del rapporto tra democrazia, conflittualità e libertà di espressione delle classi.

Con questi presupposti, si provi adesso ad immaginare se a un certo punto la politica dovesse dichiarare guerra alla globalizzazione.

Andrebbe alla cieca, e una volta compresa la sterilità delle proprie azioni inizierebbe a utilizzare metodi coercitivi sempre più stringenti tipici dello stato di eccezione, e le multinazionali, che sanno il fatto loro, schiererebbero i propri esperti legali per mettere a nudo un autoritarismo sfacciato (anche se oggi gli conviene), attuerebbero campagne mediatiche ostili (tanto l'informazione ormai appartiene a una oligarchia di grandi imprese).

Una politica anti globalizzazione improvvisata avrebbe certamente questo passaggio intermedio, che potrebbe concludersi con un crollo della maggioranza che l'ha messa in piedi, oppure con il consolidamento dell'autoritarismo insito nell'uso dello stato di eccezione, con conseguenze imprevedibili per le stesse masse, che magari riescono in un primo momento a giovare di questo attacco alle multinazionali. Domani senza ombra di dubbio subirebbero la scure dell'arbitrio politico con un semplice cambio di maggioranza.

Se con la Costituzione democratica un riequilibrio dei rapporti di forza tra capitale e lavoro può essere attuato nel rispetto delle libertà degli individui, in uno stato di eccezione anti globalizzazione (potrebbe essere la nuova emergenza?) uno stipendio, una opinione, una passeggiata, sarebbero nient'altro che una concessione del potere.

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