L’Italia nel Triangolo delle Bermude tra Pnrr, Mes e Patto di Stabilità

L’Italia nel Triangolo delle Bermude tra Pnrr, Mes e Patto di Stabilità

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di Fulvio Bellini - Futurasocietà

 

“L’uomo è immortale; la sua salvezza viene dopo. Lo Stato non è immortale, la sua salvezza si ottiene ora o mai più”.
Cardinale Armand-Jean du Plessis duca di Richelieu 



Premessa: alcune questioni sul senso di uno Stato

Henry Kissinger ha spesso dimostrato di essere affascinato dalla figura del Cardinale Richelieu, dal suo pensiero politico e dal suo modo di condurre lo Stato. Anche quando analizza l’operato di Otto von Bismark di un paio di secoli dopo, l’ex Segretario di Stato Usa ci infila il pensiero del Cardinale che abbiamo citato, ad esempio accostandolo al seguente passaggio di una lettera sul concetto di realpolitik indirizzata dal Cancelliere di Ferro al suo mentore, generale Ludwig von Gerlach, aiutante di campo del Re di Prussia: “Sono pronto a discutere con voi il punto di vista dell’utilità, ma se porrete antinomia fra diritto e rivoluzione, cristiani e infedeli, Dio e il diavolo, non potrò più discutere e mi limiterò a dire: ‘Non sono della vostra opinione e voi giudicate in me ciò che non vi spetta giudicare’. Questa amara dichiarazione di fede era l’equivalente funzionale dell’asserzione di Richelieu che, essendo l’anima immortale, l’uomo deve sottoporsi al giudizio di Dio, ma, essendo lo Stato mortale, questo può essere giudicato solo da come funziona” (Henry Kissinger, l’Arte della Diplomazia). Richelieu e Bismarck pongono alcune questioni di filosofia della politica assai utili da considerare nell’analisi della situazione italiana odierna, di un paese cioè che pare non veda nessuna luce nel tunnel di decadenza nel quale si è infilato ormai trent’anni fa. A titolo di aggiornamento, nell’ultimo mese del 2023 il Bel Paese è finito, consapevolmente oppure meno, addirittura al centro di una sorta di Triangolo delle Bermude, foriero di foschi presagi per il 2024 e gli anni a venire. Prima di affrontare il tema di questo articolo, segnalando che a mio parere sarà una delle principali chiavi di lettura degli agitati accadimenti politici di quest’anno, poniamoci qualche questione prendendo spunto dalle citazioni di Richelieu e di Bismarck nel libro di Kissinger, adattandole ai nostri giorni. Innanzitutto, è corretto dire che uno Stato è “mortale”? In altre parole, l’assetto repubblicano definito dall’attuale Costituzione italiana, ormai ridotta al rango di un Vangelo, e in quanto tale sbandierato continuamente allorquando la politica persegue i suoi fini esattamente in senso contrario del dettato (basta far mente locale a quale parodia sia ridotto il solenne contenuto dell’Articolo 1 se rapportato alla realtà del mondo del lavoro e alla sovranità popolare) può reggere di fronte a una sorta di “Costituzione materiale” sviluppata a partire dagli anni novanta e che ormai sta prevalendo su quella ufficiale? Può uno stato rimanere formalmente immutato quando la maggior parte dei precetti costituzionali sono contraddetti oppure ignorati, come sta accadendo negli ultimi decenni, appunto? Seconda questione: è corretto giudicare uno Stato a prescindere da come funziona realmente? Ad esempio: è giusto sostenere che, in nome della facoltà del popolo italiano di potere scegliere nelle urne tra una Giorgia Meloni, una Ely Schlein, un Matteo Salvini, un Giuseppe Conte e altri simili figuri, vale la pena subire le future finanziarie che dovranno trovare tra i 15 e i 40 miliardi ogni singolo anno, in attesa che diventino 100 a fine scomputo degli interessi sul debito, come disposto nel nuovo patto di stabilità europeo, che gli stessi figuri hanno passivamente accettato? La favola della fortuna di essere in un paese “libero e democratico”, per il quale qualsiasi sacrificio vale la pena, può funzionare sempre oppure vi è un limite oltre il quale il sistema svela il proprio autentico volto che potrebbe generare qualche repulsione e qualche dubbio sulla propagandata “superiorità morale” delle democrazie occidentali nei confronti delle cosiddette “autocrazie” cinese e russa? Sono temi da tenere sempre in considerazione nell’analisi politiche che facciamo, ma che il “Triangolo delle Bermude” nel quale è finita l’Italia potrebbe accelerare e portare questo paese oggettivamente allo sbando verso qualsiasi direzione: dalle svolte autoritarie interne, possibile compito affidato dal plenipotenziario Draghi alla Meloni, alla partecipazione a conflitti militari attivi agli ordini diretti degli Stati Uniti e non necessariamente mediati della NATO, sul modello delle “Coalition of the willing”, le cui prove si stanno facendo in questi giorni a proposito della flotta da allestire e mandare a largo delle coste yemenite.

L’Italia è finita nel Triangolo delle Bermude. Il primo vertice: il Pnrr 

Il Cardinale Richelieu aveva ragione quando sentenziava: “Lo Stato non è immortale, la sua salvezza si ottiene ora o mai più”; fa quindi una certa impressione vedere come, in nome della salvezza dell’Italia, il Partito Unico soprattutto a partire dal gabinetto Draghi e dalla sua filiazione, quello Meloni, abbia condotto il Bel Paese nel mezzo del Triangolo delle Bermude, luogo sinistro nel quale potrebbe accadere, ovviamente il condizionale è d’obbligo, che esso sparisca nelle sue torbide acque. Essendo un triangolo, dobbiamo correttamente descrivere quali siano i suoi i tre vertici e quali influssi negativi possano avere sul destino di questo disgraziato paese. Il primo vertice è rappresentato dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, del quale è opportuno ricordare i punti salienti. Il Pnrr in sé è un programma che ogni singolo Stato sottopone all’approvazione della Commissione Europea circa il modo in cui vuole investire i fondi che la UE ha stanziato all’interno del NextGenerationEu (Ngeu); questa è la ragione per la quale il gabinetto Meloni ha potuto cambiarlo rispetto a quello presentato dal governo di Giuseppe Conte. Il fondo cuba circa 800 miliardi e “per finanziare NextGenerationEU, la Commissione assume, a nome dell’Unione europea, sui mercati finanziari prestiti a tassi più favorevoli rispetto a quelli che la maggior parte degli Stati membri riuscirebbe a ottenere e ne redistribuisce gli importi… Fino al 2026 l’Unione europea raccoglierà per NextGenerationEU circa 800 miliardi di euro a prezzi correnti attraverso una strategia di finanziamento diversificata”, come si desume dal sito della Commissione Europea alla pagina “Piano per la ripresa dell’Europa”. La Commissione, quindi, chiede prestiti al mercato finanziario per girarli a sua volta agli Stati nazionali a fronte dei rispettivi Piani. Essendo prestiti per Bruxelles, quindi debiti che in ultima istanza verranno posti a carico delle capitali europee, gli stessi andranno restituiti a partire da una certa data, nella speranza che nel frattempo tali investimenti abbiano generato quel ritorno economico e quel surplus di valore da sottoporre a un maggiore prelievo fiscale da utilizzare per il rimborso. Per quanto riguarda poi le voci di spesa, citiamo per dovere di cronaca le famigerate sei missioni previste nel Ngeu: digitalizzazione e innovazione; transizione ecologica; infrastrutture per una mobilità sostenibile; istruzione e ricerca; inclusione e coesione; salute. Fino a ora abbiamo parlato del come dovrebbe essere. Nel caso dell’Italia, ora ci occupiamo della “verità effettuale” come avrebbe detto Niccolò Machiavelli. L’attuale Ministro della Difesa, Guido Crosetto, noto lobbista dell’industria bellica, non è nuovo a dichiarazioni “sincere” e utili a capire realmente le vere opinioni di questo governo sui temi realmente importanti, alla stessa stregua dell’intervista carpita da due comici russi al Presidente del Consiglio sulla guerra in Ucraina. Per quanto riguarda l’effettiva capacità dell’Italia di sfruttare i fondi del Ngeu, il Ministro è stato più che chiaro: “Pnrr, l’ammissione di Crosetto: ‘Non sappiamo come spendere 200 miliardi di fondi… Il sistema Italia non è in grado di spendere tutti i fondi del Pnrr. Bisogna prendere solo le risorse che siamo in grado di impiegare…. L’Italia può fare tutto tranne che perdere i soldi. Faccio un esempio: prendiamo 100 milioni di euro per un’opera, entro la scadenza ne spendiamo solo 98. Significa che dobbiamo restituirne 98 milioni e ci teniamo l’opera non finita che dovremo pagare con il nostro bilancio. Il problema non è solo burocratico, di progettazione. La vera domanda è l’Italia ha la possibilità di scaricare a terra 200 miliardi in tre anni?’”, scrive Open del 22 aprile 2023. Il governo italiano, quindi, è già consapevole che i fondi non verranno spesi oppure saranno spesi male, persi all’interno di quel fatale labirinto costituito dalla leggendaria inefficiente burocrazia italica, dall’altrettanto proverbiale corruttela della classe politica centrale e locale e dalla miope rapacità della classe imprenditoriale. Lo scenario che si prospetta deve destare preoccupazione perché l’Italia è il paese che riceve la maggior parte dei fondi previsti dal Ngeu, cioè 191,50 miliardi di cui 68,90 a fondo perduto e 122,60 sotto forma di prestiti, e il piano prevede che l’intera cifra venga erogata entro il 31 dicembre 2026. A partire dal 1° gennaio 2027 il governo italiano dovrà prevedere come ottemperare alla seguente regola: “I paesi membri dovranno direttamente restituire i prestiti, cosa che non avverrà con le sovvenzioni… I singoli paesi possono infatti accedere ai fondi attraverso due strumenti finanziari: i prestiti (grants); le sovvenzioni (loans)… Chi… ha beneficiato dei primi ha l’obbligo di ripagarli all’Unione europea, in un lasso di tempo che andrà dal 2028 al 2058. Sui prestiti si applica un tasso di interesse a condizioni agevolate” («Openpolis» del 16 ottobre 2023). Possiamo ora delineare il primo vertice del triangolo: l’Italia sta prendendo in prestito 122,60 miliardi che molto probabilmente non saranno in grado di generare quel “ritorno economico e quel surplus di valore da sottoporre a un maggiore prelievo fiscale da utilizzare per il rimborso”, quindi l’Italia dovrà trovare nelle pieghe del proprio bilancio oltre quattro miliardi ogni anno da restituire in trent’anni a partire dal 2028; è forse per questa ragione che Crosetto, di fatto, si augura di usare i minori finanziamenti possibile, alla faccia delle sei missioni riformatrici propugnate dal Ngeu. 

L’Italia è finita nel Triangolo delle Bermude. Il secondo vertice: il Mes

A questo punto dell’analisi, però, occorre farci la seguente domanda: se il debitore (leggi governo italiano) è già a conoscenza del fatto che i soldi presi non generanno il ritorno economico necessario per la loro restituzione, il creditore (leggi commissione UE) ne è altrettanto a conoscenza? Ovviamente sì. Per essere maggiormente precisi: se esistessero delle “tavole della legge” per la guida della UE da parte della Commissione, un suo comandamento sarebbe: “non prestare soldi all’Italia nella speranza che vengano volontariamente restituiti”. Non si tratta di prendere le parti di qualcuno e tanto meno della Von der Leyen; come spiegato in premessa, siamo di fronte a una guerra tra cattivi (lo Stato italiano) e cattivissimi (la Commissione Europea), mentre sono i buoni che, come al solito, latitano. Nessuna Commissione oppure organo europeo sano di mente ha qualche minimo dubbio sul fatto che l’Italia non è in grado di restituire volontariamente quanto ricevuto dal Pnrr, come neppure altre forme di prestiti straordinari. La ragione ce l’ha spiegata il ministro della difesa Crosetto, senza citare altri innumerevoli studi che descrivono la pessima capacità di spesa degli enti pubblici in Italia. Ma non è tutta colpa della burocrazia; anche il dogma liberista per il quale lo Stato debba immancabilmente sovvenzionare le imprese private ha ampiamente dimostrato di essere fallimentare. Non è facile calcolare il costante e ingente flusso di denaro che le casse pubbliche  hanno versato alle aziende private negli ultimi decenni, in quanto si tratta di una matrice complessa sulla cui ascissa vanno collocate le varie modalità di erogazione di finanziamento (sgravi fiscali a vario titolo, agevolazioni fiscali e contributive per le assunzioni, finanziamento su progetto, finanziamento a fondo perduto, bandi di concorso eccetera) e sull’ordinata vanno messi i vari enti erogatori (Stato centrale, Regioni, Provincie, Comuni, enti pubblici specifici). A titolo di esempio, un documento del Centro Studi della Camera dei Deputati del 8 luglio 2020 titolava: “Sostegno alle imprese” e scriveva: “Il Mise aggiorna periodicamente sul suo sito istituzionale la normativa attuativa della misura e le risorse complessivamente attivate, attraverso i diversi canali di finanziamento. In particolare, per il periodo di programmazione 2014-2020, allo strumento dei Contratti di sviluppo sono state assegnate risorse finanziarie per complessivi 3.595,30 milioni di euro”. Stiamo parlando di una pianificazione precedente il Covid-19, senza prevedere le cifre che sarebbero state significativamente aumentate già nel 2020 per far finanziare i cosiddetti ristori per le attività private grandi e piccole. Eppure, nonostante decenni di ragguardevoli denari pubblici versati nelle casse delle aziende nostrane, le stesse pigolano denaro tutti gli anni, come se fosse sempre la prima volta: “Bonomi, nella manovra nulla per la crescita, tolto 1 miliardo alle imprese”, titola l’Ansa del 13 novembre scorso. Nessuno però si chiede che fine hanno fatto i denari versati nei decenni precedenti e nessuno si meraviglia di leggere, ad esempio, il seguente titolo del «Corriere della Sera» del 5 aprile 2023: “Digitalizzazione, imprese italiane al palo: quasi tutte investono meno del 10% del fatturato”. Ma come? Uno dei principali mantra del Pnrr è proprio legato alla digitalizzazione. Nessuno nota che i teorici benefici in materia di competitività, livelli occupazionali e di reddito dei lavoratori, motivi per i quali uno Stato dovrebbe sostenere l’impresa privata, sono tutti ampiamente disattesi. Per queste ulteriori ragioni a Bruxelles sanno bene che l’Italia restituirà solo parzialmente, comunque difficoltosamente, i soldi del Pnrr, dovendo assistere al consueto gioco delle parti nel quale la politica accusa le imprese di essere inefficaci (leggi predatori), e le imprese accusano la politica di essere inefficiente (leggi incapace). Ecco che l’Europa si è cautelata preventivamente tramite il Mes, ovvero il Meccanismo Europeo di Stabilità, chiamato anche Fondo salva Stati, pensato per sostenere i Paesi dell’euro in temporanea difficoltà, a fronte di precisi impegni sulla politica economica e di bilancio. Il Mes è stato evidentemente pensato sul modello del Fondo Monetario Internazionale. I paesi comunitari lo hanno ratificato tranne uno, che lo ha approvato (nel luglio del 2012) ma non ha approvato la sua riforma (nel dicembre del 2023). Si tratta proprio di un paese per il quale il Mes è stato pensato: l’Italia. Il governo Meloni ha enfatizzato la recente bocciatura della ratifica della riforma del Mes, ma si tratta di una mera operazione di facciata. Se il governo ha sbandierato di aver evitato all’Italia il pericolo di dovervis rivolgersi per aiuti diretti alla propria finanza pubblica, poco si è detto sull’altra competenza del fondo: il salvataggio da eventuali crisi bancarie, dove il governo ha decisamente meno voce in capitolo rispetto alla direzione esercitata dalla Bce e dalla supervisione effettuata dalla sua succursale locale: la Banca d’Italia. In caso di crisi del sistema bancario italiano, evento tutt’altro che peregrino e in ogni caso occultato fino all’ultimo istante, ricorrere al Mes potrebbe essere una soluzione capestro per evitare quanto accaduto alla Grecia e descritto dal «Sole 24Ore» del 28 giugno 2015: “Grecia, banche chiuse per sei giorni. Tetto di 60 euro sui prelievi… La decisione della Bce di non aumentare il limite di 89 miliardi di euro dei prestiti di emergenza (Ela) alle banche greche già sotto pressione da giorni ha fatto decidere il governo Tsipras, con un decreto sulla ‘chiusura delle banche a breve termine’, ovvero fino a lunedì 6 luglio (il giorno dopo il referendum sulla proposta dei creditori). I bancomat riaprono a mezzogiorno di lunedì con un limite di ritiro massimo di 60 euro, tranne che per gli stranieri o di chi è in possesso di carte di credito emesse da istituti non ellenici”.  In caso di crisi bancaria italiana quanto accaduto ad Atene può riproporsi a Roma se rifiuta un eventuale aiuto proposto dal Mes; se lo accetta l’Italia dovrà sottostare al classico piano lacrime e sangue simile a quelli che l’Fmi ha imposto all’Argentina. Il Bel Paese può quindi scegliere se morire prima dell’intervento del Fondo salva Stati oppure dopo, ed è del tutto ininfluente se abbia o meno votato le recenti modifiche statutarie del Mes. 

L’Italia è finita nel Triangolo delle Bermude. Il terzo vertice: il Patto di stabilità 

Sia Pnrr che Mes, tuttavia, riguardano un futuro, certo oppure probabile. Dal punto di vista della restituzione del debito non competono né per l’immediato, e neppure per il recente passato. Dal punto di vista, appunto, del recente passato come si è comportato il bilancio italiano sul fronte della creazione di nuovo debito, diciamo dal 2020 in avanti? Solitamente guardiamo all’andamento del debito complessivo, questa volta invece prestiamo attenzione alla sequenza storica dei deficit annuali rispetto al PIL: nel 2020 -9,6%, nel 2021 -8,77%; nel 2022 -8,04% (fonte Statista.com), siamo ben lontani dal classico rapporto Deficit/PIL del 3% tipico del vecchio patto di stabilità, e mantenuto anche dal nuovo. Nonostante la finanziaria “di destra” di fine 2022 che ha già posto i temi dei tagli a sanità, servizi e welfare, nel 2023 il deficit tendenziale italiano previsto dalla Commissione europea è del 5,3% come ci riferisce «EUNews» del 15 novembre 2023. Inoltre «La StampaFinanza» del 15 dicembre scorso titolava: “Bankitalia, debito record a ottobre: sale a 2.868 miliardi di euro… Il debito delle Amministrazioni pubbliche italiane è aumentato di 23,5 miliardi a ottobre 2023 rispetto al mese precedente, raggiungendo il nuovo record di 2.867,7 miliardi di euro”. Non deve quindi meravigliare più di tanto che le trattative tra i maggiori stati europei riguardo il ritorno del Patto di Stabilità versione Post Pandemia abbiano escluso il paese col maggior debito d’Europa, e con la peggiore conduzione di finanza pubblica: l’Italia appunto. Siccome l’argomento è della massima importanza, l’accordo finale è stato preso dai due principali paesi della UE: Francia e Germania, perché la favola della rilevanza italiana nell’Unione è bagaglio esclusivo della propaganda nostrana, notoriamente avvezza a raccontare che gli “asini volano”. E come in passato, come abbiamo visto per Pnrr e Mes, l’Italia è sempre il principale destinatario delle valutazioni prima e delle decisioni poi prese dalla Ue in materia di finanza pubblica. Il nuovo Patto di stabilità declinato al caso italiano prevede un periodo transitorio per il quale i paesi con un rapporto deficit/Pil superiore al 3% debbono rientrare dello 0,4 per cento l’anno se l’opzione scelta è quella di quattro anni, che diventa dello 0,25 per cento l’anno se si sceglie il rientro sui sette anni. Per quanto riguarda il rapporto debito/Pil superiore al 90%, invece, la riduzione prevista è del 1% ogni anno. Il nuovo patto di stabilità quanto costa all’Italia? In attesa di proiezioni maggiormente dettagliate possiamo citare quanto elaborato dalla Direzione Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo citata da «Wall Street Italia» del 22 dicembre scorso: “assumendo che il deficit sia riportato sotto il 3% entro il 2026, servirà un avanzo primario pari al 2,2% del Pil per conseguire una riduzione media del rapporto debito/Pil di 1% all’anno, se il Pil nominale cresce del 2,5% annuo e il costo medio del debito è in media del 3,4%. La correzione fiscale cumulata rispetto alla situazione di bilancio del 2023 è pari a 3,7% del PIL: il deficit dunque dovrà essere portato e mantenuto a non più di 60 miliardi di euro, rispetto ai 109 miliardi del 2023. Ipotesi meno favorevoli sulla crescita o sulla situazione fiscale del 2026 implicano che l’aggiustamento necessario a ridurre il debito dell’1% all’anno in media siano anche superiori”. Secondo Intesa San Paolo, quindi, la prossima finanziaria dovrà trovare 49 miliardi di Euro tra maggiori entrate e minori uscite, anche se nelle commissioni bilancio sono girate cifre inferiori, circa 15 miliardi nel 2024. Lasciamo il terreno della finanza pubblica dal mero punto di vista tecnico ed entriamo in quello della politica. 

La politica estera del governo italiano preclude la crescita del Pil 

È assai probabile che Giorgia Meloni, all’atto di accettare la tutela di Mario Draghi alla vigilia della vittoria elettorale del 2022, entrando trionfante nella schiera degli atlantisti duri e puri, chiudendo di fatto la storia della “destra sociale” per diventare una manovale nelle file dei Neocon, sperava in cuor suo almeno di poter godere di una sorta di salvacondotto circa le abitudini della finanza pubblica nostrana. Draghi, in qualità di Proconsole Usa in Europa, avrebbe certamente apprezzato la convinta partecipazione del Bel Paese nella schiera dei sostenitori del Presidente-attore-burattino Zelensky e della sua guerra per procura contro la Russia. Sempre la Meloni avrebbe potuto mostrare con fierezza l’impegno del governo e del sistema mediatico propagandistico nell’inculcare agli italiani quanto fosse buono Zelensky e quanto cattivo Putin e tutto il noto corteggio di scempiaggini. Quando poi dagli Stati Uniti giungevano vari editti per i quali l’Unione Europea in generale e l’Italia in particolare avrebbero dovuto porre Mosca sotto reiterate sanzioni, anche se tali “castighi” si sarebbero ritorti sulla bilancia commerciale italiana, sotto le voci di maggiori costi per l’energia e minori sbocchi per le sue esportazioni, come riportato dal «Sole 24Ore» del 16 febbraio 2023, “Bilancia commerciale: Istat, deficit di 31 miliardi nel 2022 (Rco)”, e che l’andamento tendenziale positivo del 2023 è semplicemente dovuto a una forte diminuzione dell’import di energia, il Presidente del Consiglio si aspettava certamente il prosieguo della politica di “libera tutti” da parte della Ue sui bilanci nazionali. Invece no, nonostante tanto atlantismo e tanto recente sionismo, l’Italia ha dovuto accettare uno stop al libero e perenne indebitamento. Abbiamo visto che Il Centro Studi di Intesa San Paolo ipotizza una crescita nominale del PIL del 2,5%, un dato assai ottimistico, perché sinceramente non si capisce su quali mercati l’Italia dovrebbe fare i “numeri” necessari. Passiamoli in rapida rassegna. Per quanto riguarda la crescita del mercato domestico il rapporto di previsione del Centro Studi Confindustria presentato sabato 28 ottobre 2023 ci permette di scattare alcune fotografie: “L’andamento del PIL italiano nel 2023 si profila in forte rallentamento rispetto al 2022, quando era cresciuto del +3,7%: nello scenario base, che non include gli effetti delle misure contenute del DDL Bilancio, il Centro Studi Confindustria prevede un incremento annuo del +0,7%, già interamente acquisito. La crescita nel 2024 è prevista al +0,5%. (stima di marzo 1,2%). Il rallentamento è dovuto all’effetto negativo dei tassi di interesse elevati sulle imprese e sulle famiglie, e a una dinamica negativa, nell’anno in corso, del commercio internazionale”. Si può far notare che l’Italia è tradizionalmente un paese esportatore, ed è quindi abituato a non contare sul mercato domestico per fare Pil; tuttavia, se la vocazione italiana è l’export, si entra in un terreno assai scivoloso perché implica scenari di politica estera in cui l’Italia è ai margini di qualsiasi decisione. Sostanzialmente i mercati di sbocco delle esportazioni italiche sono divisi in due grandi aree: le esportazioni all’interno della’Ue e quelle all’esterno. Le esportazioni all’interno dell’Unione, a loro volta, sono caratterizzate sia da beni ma soprattutto da semilavorati e prodotti di filiera destinati in particolare al mercato tedesco. Negli anni novanta, le piccole e medie imprese, soprattutto del Nord-Est, erano state pronte a sostituire le committenze domestiche delle grandi aziende di stato, privatizzate e quindi saccheggiate dai nuovi proprietari, con l’ingresso nella filiera del valore che la Germania stava organizzando con alcuni paesi dell’ex blocco sovietico: Repubblica ceca e Polonia in prima fila. Parte rilevante dell’industria italiana, essendo riuscita non solo a bloccare ma far calare il costo del lavoro allo scopo di avvicinarsi alle medie dei paesi orientali citati, riusciva a rimanere nelle filiere produttive dei colossi tedeschi soprattutto nel comparto della meccanica e dell’automotive. Oggi quest’importante fetta dell’export italiano si è ridotta in quanto la Germania, principale obiettivo degli Stati Uniti nella sua “offensiva contro l’Europa”, è stata colpita e affondata attraverso il sabotaggio dei gasdotti North Stream e all’imposizione delle sanzioni suicide adottate nei confronti della Russia.  A causa della linea politica supina del governo Scholz, Berlino è entrata in una grave crisi economica: “La Germania è in recessione: nel 2023 Pil a -0,4%”, annuncia «SkyTg24» del 11 ottobre scorso, e le conseguenze per l’Italia sono inevitabili: “Cade la Germania, export dell’Italia giù dopo più di 2 anni” («Il Sole24Ore» del 16 giugno 2023). Ma se la Germania piange il resto dell’Unione non ride, e il Bel Paese si trova nelle condizioni di non poter recuperare quote di mercato con paesi come Francia, Spagna e paesi del nord e dell’est Europa in quanto in quei mercati si vendono praticamente solo le merci finite, mentre la voce dei semilavorati industriali oppure dei prodotti di filiera hanno un peso trascurabile. Dopo aver visto che dal mercato domestico c’è poco da sperare per la crescita del Pil italico, apprendiamo che nemmeno da quello comunitario giungono buone notizie. Rimane da analizzare il mercato extra europeo, e in questo caso si pensa immediatamente alla grande piazza cinese, e alla nostra posizione “privilegiata” in quanto membri della Belt and Road Initiative, quella via della seta grazie alla quale la Serenissima Repubblica di Venezia aveva ottenuto parte significativa della sua fortuna nel medioevo. Abbiamo quindi uno scenario alternativo da sfruttare? Purtroppo no, perché grazie alla lungimiranza della Meloni e del suo mentore Draghi: l’“Italia abbandona la Via della Seta, ma mantiene dialogo con la Cina”, titola il «Sole24Ore» del 6 dicembre scorso, e così l’unico paese europeo presente al forum a Pechino del 17 e 18 ottobre 2023 era l’Ungheria del mefistofelico Victor Orban. Che le relazioni complessive tra Italia e Cina sotto i governi Draghi e Meloni non andassero bene è fatto risaputo, smontare ottimi rapporti decennali non è cosa che si può fare in qualche mese, ma alla fine ci si riesce: “Cina, import ed export ancora in calo a settembre”, titola La Stampa del 13 ottobre. Tuttavia, i sostenitori dell’atlantismo duro e puro possono affermare che il calo dell’export verso due tradizionali mercati come quello russo e cinese, conseguenze dell’allineamento dell’Italia all’agenda di politica estera americana, sono compensate da un incremento significativo dell’export nei confronti degli Stati Uniti, vediamo quindi quali sono i dati che l’agenzia governativa United States Census Buro (una sorta di Istat americano) ci dice a proposito della quota dell’import italiano: partiamo dal dato pre Covid del 2019 di 57,24 miliardi di dollari, definendolo il dato target; nel 2020 scende a 49,44 miliardi; nel 2021 vi è un balzo a 60,99 miliardi; nel 2022 primo anno di sanzioni alla Russia si sale a quota 69,07 miliardi; nel 2023, secondo anno di sanzioni, il dato al 31 ottobre era di 60,63 miliardi, e quindi si può affermare che il dato del 2023 di 69 miliardi potrebbe essere confermato. Il contributo della metropoli imperiale in compensazione delle perdite italiane nei confronti dei mercati sino-russi vi è stato in ragione di 12 miliardi l’anno (differenza tra import 2019 e 2023), ma va altresì segnalato che l’export dagli Stati Uniti all’Italia è cresciuto nel triennio in modo sostenuto: 21,68 miliardi nel 2021, 27,71 nel 2022 e 23,61 al 31 ottobre 2023, in gran parte costituito da esportazioni di gas liquido in parziale sostituzione di quello russo. Bastano 12 miliardi a compensare le contrazioni dei mercati domestico, europeo e sino-russo? Evidentemente no, perché la crescita richiesta dal Centro Studi di Intesa San Paolo nella sua proiezione di riduzione del debito in ragione di 40 miliardi circa era del 2,5%, mentre l’ISTAT dichiara nel suo comunicato stampa del 5 dicembre scorso “Il Pil italiano è atteso in crescita dello 0,7% sia nel 2023 sia nel 2024, in rallentamento rispetto al 2022”. 

La politica fiscale del governo preclude la riduzione del debito 

Abbiamo visto che dalla crescita del PIL non si può sperare di trovare quel 1% annuale di riduzione del debito. È l’unica voce possibile? No, in questo paese esistono due “terreni inesplorati” per il fisco nazionale, che a tutt’oggi sono “off limits”: le tasse non pagate dalle grandi aziende, soprattutto bancarie, assicurative, del Web ed energetiche da un lato e la massa di evasori fiscali totali e parziali dall’altro. Abbiamo detto che accettare Mario Draghi come nume tutelare del nuovo governo ha significato, per la destra italiana di tradizione missina, abiurare la sua “anima sociale” per abbracciare il modello anglosassone di destra il quale, negli Stati Uniti comprende i maggiori partiti, seppure con sfumature differenti. Le caratteristiche salienti dei partiti borghesi, unici presenti nelle Camere di rappresentanza delle due sponde dell’atlantico sono accomunati dalla politica estera univoca che imprime le stimmate al sistema politico: fanatico atlantismo, che porta con sé il sionismo incriticabile; atlantismo e sionismo governano un’economia gravemente malata di finanziarizzazione, dove il denaro genera denaro per pochi centri di potere privilegiati, indebitando i sempre maggiori diseredati; atlantismo e sionismo inoltre isolano  l’Europa dal resto del mondo, con la conseguenza di incatenare il vecchio continente al trono degli Stati Uniti. Dal punto di vista fiscale, è dogma liberista che il peso delle tasse sia sempre più spostato sulle spalle dei ceti medio bassi, mentre forme di elusione dovute a complesse architetture societarie, garantiscono alle élite del denaro e alle loro corporation di pagare molto meno del dovuto. Facciamo l’emblematico esempio di Google Italia: “…. nel 2022 Google ha versato 8,87 milioni in tasse e imposte con Google Italy e 1,9 milioni di euro con Google cloud Italy, per un totale di 10,77 milioni di euro a fronte… di ricavi totali pari a 1,038 miliardi di euro (tasse e imposte, quindi, pari all’1% dei ricavi)” riferisce «Italia Oggi» del 22 agosto 2023. A riprova dell’occhio di riguardo fiscale nei confronti di multinazionali e grandi banche vi è la recente polemica sulla mancata tassazione degli extra profitti, sul fatto che a fronte dell’aumento dei tassi negativi per i correntisti quelli positivi sono rimasti immutati eccetera. In questo caso di quali cifre si parla? «MilanoFinanza» del 9 agosto scorso scriveva: “Il gettito previsto dagli esperti del governo è di 3 miliardi. Gli analisti in dieci minuti hanno messo i dati di bilancio delle banche e le previsioni 2023 su un foglio elettronico e sono arrivati a un gettito tre volte maggiore, intorno ai 10 miliardi”. Oltre ad aver rinunciato ai 10 miliardi, il governo Meloni ha anche difeso le multinazionali che fanno reddito in Italia con succursali (tra le quali il gruppo Stellantis, ex Fiat) fino a tutto il 2023, mentre dal 2024 verrà introdotta l’aliquota di favore del 15% effettiva, che non grava eccessivamente su questa categoria di privilegiati visto che il maggior gettito previsto è di soli 3 miliardi. Sul fronte dell’evasione fiscale delle persone fisiche, tema delicato per la destra che ha negli evasori un’importante aliquota del proprio elettorato, ci si limita a citare il seguente articolo de «La Repubblica» del 6 agosto 2023: “La Grande Evasione: ci sono trecentomila contribuenti che devono al Fisco oltre 500 mila euro a testa: 795 miliardi di tasse che l’Agenzia delle Entrate non riesce a recuperare. Tutto questo nel Paese in cui un contribuente su due dichiara meno di 17.800 euro l’anno”. In generale l’evasione fiscale è calcolata in media sui 100 miliardi l’anno. Risulta evidente il calcolo politico fatto dal governo Meloni, e che si è rivelato tragicamente errato proprio alla fine dello scorso anno: mantenimento di uno status quo per il quale il maggior gettito fiscale sarebbe dovuto gravare sui soliti noti, i soggetti al sostituto d’imposta, e avrebbe dovuto protrarsi almeno per tutta la durata della guerra in Ucraina. L’Italia è stata ligia nel partecipare al proprio suicidio economico, pardon alle sanzioni alla Russia, in ottemperanza agli editti imperiali provenienti dalla Casa Bianca: i maggiori costi di energia e materie prime calcolati dai mercati controllati dal dollaro hanno permesso agli USA di scaricare un’importante aliquota dell’inflazione del dollaro nel biennio 2022-2023, riducendo drasticamente il già magro tenore di vita di gran parte degli italiani. In cambio il Partito Unico a reti unificate, da Meloni a Fratoianni, avrebbe inneggiato all’Ucraina nazistoide in nome della libertà e della democrazia, ma anche a continuare a fare debiti senza fare una piega.

Conclusioni: l’Italia potrebbe diventare l’Argentina d’Europa

Il 13 dicembre 2023 nel mezzo di un discorso in aula, il Presidente del Consiglio sbotta, come descritto da «la Stampa» di quel giorno: “Ue, Meloni attacca Draghi: ‘Con lui foto senza risultati la politica estera è dialogo’” Poi la retromarcia di Palazzo Chigi: “La mia era una critica al Pd. Il nuovo Patto sia praticabile”. Perché questo sfogo della Premier? Sempre «la Stampa» dà la risposta: “Mi ha molto colpito che si sia fatto riferimento al grande gesto da statista di Mario Draghi e la foto in treno verso Kiev con Macron e Scholz. Per alcuni la politica estera è stata farsi foto con Francia e Germania quando non si portava a casa niente”. Già, ma a che cosa si riferiva Giorgia Meloni il 13 dicembre? Quali trattative erano in corso in quei giorni a Bruxelles? Quale appoggio è mancato proprio nel momento maggiormente necessario? Cerchiamo di dare risposta a questi quesiti, perché sono fondamentali per capire le inevitabili turbolenze della politica italiana del prossimo anno. Sia in occasione della guerra in Ucraina che nella recente, criminale operazione militare israeliana nei confronti dei civili palestinesi di Gaza, l’Italia si è dimostrata “più atlantista dell’Atlantico”. La sua supina posizione alla linea di politica estera dettata da Washington ha brillato per coerenza con le veline provenienti dalla Casa Bianca, anche se, in occasione dello “scherzo” che i due comici russi hanno fatto alla Meloni, la Premier ha pubblicamente ammesso di sapere sia cosa sta succedendo sul fronte ucraino sia cosa andrebbe fatto: quindi in cattiva fede sì ma stupida no. Non si tratta quindi di fanatismo ideologico revanscista nei confronti della Russia come quello, ad esempio, di un Olaf Scholz e di una Ursula von Der Leyen. È più probabile che invece si sia trattato di parte dell’accordo che la Meloni ha stretto con Mario Draghi all’atto della costituzione del suo governo. Magari, in cambio di cieca fedeltà ai diktat della Casa Bianca, oltre a meri calcoli di opportunismo personale, la Meloni ha chiesto una sorta di “scudo” nei confronti degli altri partner europei i quali, prima o poi, avrebbero dovuto mettere la mordacchia all’indebitato seriale per eccellenza, l’Italia appunto, che era dal 2020 che non si fermava più. In cambio dello scudo contro i “falchi” europei, il governo Meloni, unitamente al Commissario italiano Paolo Gentiloni (leggere a tal proposito il Post di Facebook di Alessandro Orsini del 17 dicembre 2023: “C’è qualcosa di mostruoso che si aggira nella politica italiana”), avrebbero fatto il massimo per sostenere la politica estera degli Stati Uniti, soprattutto quando contraria agli interessi italiani, cioè sempre. Tuttavia, in occasione delle fondamentali trattative per il ritorno al Patto di Stabilità e Crescita, come sempre largamente pensato per l’Italia, non solo l’accordo finale si è limitato ai maggiori stockholders Francia e Germania, ma i termini del Patto sono particolarmente punitivi proprio nei confronti dell’Italia, colpita sia nella sua passione di fare debiti annualmente (rientro del deficit dall’attuale 8% circa  del PIL al 3%), sia nel far finta di non avere un debito enorme (rientro del 1% annuo del debito). A Roma, il ruolo di Mario Draghi e del suo scudo di Capitan America nessuno lo ha visto, anzi, e quindi si spiega benissimo l’attacco risentito della Meloni al rappresentante degli interessi Usa in Europa, scordandosi del celeberrimo motto di Henry Kissinger: “essere un nemico degli Stati Uniti è pericoloso, ma essere un amico è fatale”. L’agenda politica italiana del 2024 è quindi scritta: a chi far pagare le maggiori tasse necessarie per ottemperare al Patto di Stabilità? Ai soliti noti, cioè i lavoratori dipendenti già vessati dal fisco e impossibilitati ad evadere, ma ormai spremuti fino all’osso? Agli evasori totali oppure parziali, spina dorsale dell’elettorato di tutti e tre i partiti di centro destra? Alle grandi major straniere con sedi in Italia, col rischio di irritare gli Usa come nel caso di Google? Anche in questo caso alcune risposte sono già pervenute: per quanto riguarda la tassazione degli extra profitti: “Addio tassa sugli extraprofitti, tutti i soldi restano in cassaforte”, «il Manifesto» del 12 novembre 2023; per quanto riguarda l’evasione fiscale: “Per Meloni far pagare le tasse ai piccoli commercianti è ‘pizzo di Stato’.”, «Il Fatto Quotidiano» del 26 maggio 2023. A pagare le tasse restano i soliti soggetti al sostituto d’imposta che però non sono assolutamente performanti dal punto di vista fiscale, per il loro numero sempre minore ma soprattutto per la loro capienza, sempre più piccola a causa del livello retributivo decrescente rispetto all’inflazione. Nel 2024, quindi, al governo Meloni sarà chiesto di prevedere come ottemperare al nuovo Patto di Stabilità; quali sono le strategie in possesso del centrodestra italico? Sostanzialmente sono due: da un lato cercare di sabotare l’iter di finalizzazione del nuovo Patto in sede europea, prospettiva però che ha scarsa possibilità di riuscita; dall’altro trasformare l’Italia nell’Argentina d’Europa, adottando, con tutte le differenze del caso, l’agenda del Presidente Javier Milei, e in questa strategia Roma potrebbe contare sull’appoggio degli Stati Uniti, che vedrebbero di buon occhio la crisi italiana la quale si riverserebbe inevitabilmente sull’Euro. Il Bel Paese è già sulla via indicata dall’economista argentino, fanatico iperliberista come lo sono, del resto, la quasi totalità degli esponenti politici italiani, i quali sono a giusta ragione membri del Partito Unico: in versione “urbana” se si tratta del Partito Democratico (basta far mente locale alla gestione prettamente sudamericana del comune di Milano da parte del Pd e del Sindaco Sala) e in versione “burina” se si tratta di Fratelli d’Italia, uniti nella sostanza e differenti nella forma. Possiamo quindi delineare lo scenario di base per l’Italia nel 2024: abbiamo detto che il Bel Paese è in un tunnel da circa trent’anni, ma ogni tunnel alla sua fine porta in un luogo: questo luogo potrebbe essere l’Argentina di Javier Milei.

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