Nelle pieghe del conflitto di classe: interviste a Guido Lutrario (USB) ed Eduardo Sorge (SI Cobas)

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Nelle pieghe del conflitto di classe: interviste a Guido Lutrario (USB) ed Eduardo Sorge (SI Cobas)

Queste due interviste, a Guido Lutrario dell’Esecutivo nazionale Usb, e a Eduardo Sorge (Eddy), portavoce nazionale dei Si Cobas e del movimento 7 novembre di Napoli, sono state realizzate durante la manifestazione unitaria che si è tenuta a Roma contro il G20 e per la sanità pubblica, a maggio 2021, e aggiornate successivamente alla luce di un’altra grande manifestazione, in risposta all’uccisione di Adil Belakhdim, coordinatore inter-regionale dei Si Cobas, avvenuta durante una protesta davanti ai cancelli della Lidl di Biandrate, in provincia di Novara.

 

GUIDO LUTRARIO:

 

Su quali contenuti l’Usb ha promosso le manifestazioni che si sono tenute in occasione del G20 sulla salute?

 

Abbiamo indetto uno sciopero nazionale per la sanità pubblica in occasione del G20 sulla salute, contro le privatizzazioni e il mondo delle società che gestiscono privatamente un servizio che per noi deve tornare ad essere completamente pubblico. L’obiettivo era quello di mettere in evidenza come questo sistema non abbia imparato niente dalla pandemia. Non c’è stato alcun intervento né sul piano delle strutture né sul piano occupazionale, dove persiste una clamorosa carenza di personale medico e infermieristico, né sulla necessità di un ritorno alla territorializzazione dei servizi. Né d’altronde si prevede di impiegare i soldi del Recovery Plan per ristrutturare il sistema sanitario pubblico. Tutte le fragilità emerse con il covid-19 resteranno. Un’altra grande questione è poi quella dei vaccini nel contesto della sudditanza italiana ed europea a Big Pharma e alle grandi aziende farmaceutiche multinazionali, l’indisponibilità ad abolire la privatizzazione dei brevetti, la logica del profitto a scapito della salute. Il G20, che si svolge a vent’anni dal G8 di Genova, ha mostrato una realtà molto contraddittoria fra i paesi anche sulla gestione della pandemia. L’Italia, il secondo paese più colpito, ha subito il ricatto di Confindustria e per questo non ha organizzato le necessarie e razionali chiusure, cioè dei lock down vari che consentissero di isolare i contagi e monitorare l’andamento del virus. Ora scopriamo che non solo interi settori produttivi non si sono mai fermati, ma hanno guadagnato alla grande nella pandemia. A essere stati veramente colpiti sono state le economie meno protette, come il turismo, la ristorazione, lo sport, lo spettacolo, ai quali sono stati rivolti interventi sporadici e non strutturali. A fronte di un ulteriore impoverimento della popolazione il piano proposto con il Pnrr di Draghi non si preoccupa delle disuguaglianze sociali o territoriali ma punta esclusivamente ad un’autentica ristrutturazione del sistema produttivo. Non c’è nulla che dia il senso della ripresa, della rinascita o della risposta alla vulnerabilità del sistema, non si punta a riorganizzare i settori strategici dell’economia facendo leva sull’indispensabile ritorno dell’economia pubblica, ma si lasciano marcire le crisi industriali che sono sul tavolo del ministero dello Sviluppo economico. Dietro l’apparente volontà di ricostruire la struttura pubblica c’è invece il suo forte ridimensionamento a favore delle grandi compagnie internazionali e la subalternità alle loro scelte come per l’Ilva di Taranto o l’Alitalia, e nessun intervento né di risanamento né di salvaguardia dell’occupazione. Da questo punto di vista, il piano predisposto dal governo con il sostegno dell’Europa è un disastro, e ci vorranno mesi di lotta dura per provare a modificare il verso di questo tipo di intervento.

 

Nell’Italia vassalla della Nato e della Troika, l’economia di guerra, motore del processo di accumulazione capitalista presentato da Joe Biden come un nuovo keynesismo, ha un ruolo centrale anche nei progetti di “ricostruzione” post-covid. Come si evidenzia questo tema nella lotta?

 

Abbiamo assistito ad un cambio di rotta nell’impostazione ideologica di fondo in materia di scelte economiche. Ora Draghi ripete che non è il momento di mettere le mani nelle tasche degli italiani, che bisogna dare e non prendere eccetera, mettendo da parte la necessità di tenere bassa l’inflazione e di tenere i conti pubblici sotto controllo. Ma se dalle parole passiamo ai fatti ci accorgiamo che Draghi e company hanno in mente uno stato al servizio della grande impresa, e un progetto funzionale esclusivamente alla costruzione dei “grandi campioni europei”. La lista delle 1000 imprese italiane che meritano di essere sostenute e rilanciate implica che centinaia di migliaia vengano mandate al macero perché troppo piccole, poco competitive e poco funzionali al processo di ristrutturazione previsto. I campioni europei sono i grandi monopoli, le grandi concentrazioni economiche. A loro vantaggio è stato costruito un sistema di regole tassativo e vincolante di controlli periodici sulla gestione dei fondi per evitare che nulla sfugga alla logica di questo piano. Il “keynesismo” di cui si parla è al servizio del sistema delle imprese. I soldi pubblici che oggi vengono messi a disposizione degli Stati sono funzionali alla ristrutturazione capitalista, nella quale l’Europa si attrezza a competere con gli altri poli imperialisti a livello globale. Una dinamica che stritola i lavoratori e le classi popolari, sia da noi che negli altri paesi. Le assonanze sono semmai con quel keynesismo militare che, dagli Usa, ha costruito un apparato di dominio nel mondo e non certo a favore dei diritti.

 

Come sindacato di base, voi avete costruito un intervento d’avanguardia con i lavoratori della logistica, con i braccianti, con le categorie che nessuno difende. Quanto pesa e come si inserisce questo lavoro nell’esigenza di ricostruire una nuova unità di classe?

Stiamo ragionando sulla catena del valore. In un paese come il nostro, le grandi fabbriche non esistono più e questo implica che non c’è più quella capacità di interrompere attraverso uno sciopero il processo produttivo. I lavoratori avevano questa grande arma che è stata via via indebolita, quindi c’è un dato oggettivo di minor forza. Nell’ipotesi di ricostruzione dell’unità di classe, dobbiamo agire sul sistema della circolazione delle merci e nella velocità che il capitale tende ad imprimere al percorso di ritrasformazione delle merci in capitale valorizzato. È qui, in questo reticolo di relazioni e di connessioni che settori come la logistica tendono a svolgere una funzione importante. Ma non sono solo loro a ritrovarsi di nuovo centrali, centrale diventa questa nuova classe operaia che comprende tanto i lavoratori della produzione, quanto quelli della logistica e della grande distribuzione, e potremmo aggiungere anche quelli della produzione primaria, i braccianti. Sono altrettanti spezzoni di un’unica catena, ricostruirla è abbastanza complicato, ma occorre cominciare a seminare l’idea che fermando questi spezzoni e stabilendo una connessione si può costruire una nuova forza operaia e una nuova possibilità di rilancio, ricreare un nostro potere contrattuale che i lavoratori hanno perso. Non è un caso se il padronato pensa di modificare la legge sullo sciopero introducendo limitazioni anche nel settore della logistica.

 

Il livello di ricatto e di minacce sulle categorie più atipiche di lavoratori, come quella dei riders, anche attraverso l’impiego delle imprese private per la sicurezza, sono pesanti. Come state affrontando questo problema?

Quello dei riders è davvero un mondo a parte, dove vengono applicati sistemi di sfruttamento completamente frammentati e addirittura con la pretesa di non riconoscerli nemmeno come lavoratori. Vi è poi l’applicazione della tecnologia presentata ideologicamente come modernità, mentre concretamente viene usata come strumento di controllo per monitorare passo a passo i movimenti di ogni singolo lavoratore ed esercitare così un disciplinamento capillare che lede anche il diritto di espressione. Vi sono numerosissimi casi di lavoratori che vengono sanzionati o licenziati per aver postato su fb un giudizio sull’azienda. Sono modalità che richiedono un riadeguamento della risposta sindacale. Non bisogna però credere che i riders siano un unicum. C’è infatti una modalità di utilizzo della forza lavoro che si è diffusa a macchia d’olio e che propone una nuova logica di gestione della forza lavoro: le aziende costruiscono bacini di forza lavoro molto più ampia di quella che effettivamente necessitano, con relazioni molto fluide che evitano una vera e propria contrattualizzazione. Se hanno bisogno di 100 lavoratori stabiliscono una relazione con 300 o 400 e poi li mettono in concorrenza tra loro, creando classifiche di affidabilità, disponibilità e capacità. In questo modo possono pescare continuamente scegliendo i più disponibili e gestendo in modo flessibile le richieste del mercato (esternalizzando i rischi). Un vero ritorno all’Ottocento.

 

In assenza di un soggetto politico forte, capace di trasporre su un terreno di potere la contraddizione tra capitale e lavoro, il sindacalismo di base ha dato a volte l’impressione di svolgere un ruolo di supplenza. Qual è la vostra riflessione al riguardo?

Non credo che il sindacato, sia pure in forma evoluta, possa colmare il vuoto dovuto all’assenza di un soggetto politico. Anzi, l’assenza di riferimento politico può rappresentare un elemento di debolezza per una organizzazione sindacale conflittuale e di classe. Uno dei punti di forza dell’USB è stato proprio quello di aver sempre mantenuto chiaro un indirizzo strategico che ci ha permesso di non perdere mai la bussola. La stessa adesione alla FSM sul piano internazionale è servita per collocare chiaramente la nostra organizzazione all’interno di un fronte di forze ben definito.

Talvolta subiamo una sorta di accerchiamento da parte della politica. Quando ti fai portatore di istanze sociali e hai un peso in alcuni contesti, a fronte della perdita di peso dei partiti della sinistra istituzionale, è normale che la politica finisca per blandirti, soprattutto sul piano locale, alla ricerca di serbatoi di voti e di consensi. In queste circostanze l’assenza di riferimenti politici e ideologici forti può diventare un punto di difficoltà e diversi compagni e quadri sindacali possono essere attirati da scorciatoie politiche e soprattutto elettorali.  L’assenza di riferimenti politico-istituzionali può far pensare che il rapporto con un partito o un soggetto istituzionale possa risolvere questioni che hanno ben altra portata.

Queste difficoltà le possiamo combattere rafforzando anche la preparazione politica dei nostri quadri e lavorando molto sul progetto di USB come nuovo sindacato di classe in Italia. In questo senso possiamo dare anche una mano alla ricostruzione di un soggetto politico forte come dici tu, ma sappiamo che il sindacato non può essere la soluzione, può dare una mano, ma non è la soluzione.

 

A proposito di vaccini, profitto e diritto alla salute, un esempio straordinario è arrivato da Cuba e dai medici cubani che hanno prestato la loro opera anche in Italia, nonostante il feroce bloqueo imposto dagli Stati Uniti. Che percezione c’è nei luoghi di lavoro delle tematiche internazionali e, in particolare, del continente latinoamericano che sta mostrando l’esistenza di un’alternativa?

 

L’arrivo dei medici cubani, richiesto anche da amministrazioni di destra ha mostrato una sorta di risveglio. Si è tornati a parlare di Cuba con modalità completamente diverse. E dire che, all’inizio della pandemia, era cominciata malissimo, per via che i cinesi venivano considerati gli untori. Poi, quando tutti hanno cominciato ad accorgersi che in Cina le cose andavano decisamente meglio che da noi, l’argomento è uscito di scena, perché parlare della Cina avrebbe voluto dire sottolineare tutte le carenze del nostro sistema capitalistico. La presenza dei medici cubani, venuti a condividere quello che hanno, non quello che gli avanza, è stato come una doccia benefica, un’esperienza inusuale e straordinaria: una grande opportunità per dire che non siamo condannati a vivere in questo sistema, possiamo vivere in un mondo in cui i valori della solidarietà riacquistino il peso che meritano. Ma c’è anche un altro tema, passato in sordina, che ha invece fatto presa tra i lavoratori, la Palestina. È stato un grande segnale che i lavoratori del porto di Genova abbiano impedito alle navi cariche di armi destinate all’esercito israeliano di salpare, come già avevano fatto per le armi dirette nello Yemen. Un esempio ripreso anche da altri porti nel mondo e che non vogliamo assolutamente lasciar cadere. Abbiamo infatti l’obiettivo di costruire una giornata mondiale contro l’uso militare dei porti che stiamo costruendo con i lavoratori portuali di molti paesi, dagli Usa alla Grecia, dalla Svezia alla Spagna al Sudafrica. Ci sembra un’ottima occasione per rilanciare l’internazionalismo.

 

Dopo la morte di Adil, un militante del Si Cobas, a Roma si è tornati in piazza in modo unitario. È possibile costruire un fronte comune a livello dei sindacati di base?

Adil è stato ucciso a Novara il 18 giugno in occasione di uno sciopero unitario indetto nel mondo della logistica per contrastare le azioni repressive che si erano registrate in diversi magazzini del Nord. La scelta di fare fronte comune davanti alla gravità dei comportamenti padronali è quindi precedente il suo assassinio. Poi ci sono state le manifestazioni dei giorni successivi che hanno raccolto la spinta emotiva che si è prodotta di fronte all’uccisione di un delegato sindacale. Ma già lì purtroppo abbiamo registrato un passo indietro dello spirito unitario perché le iniziative non sono state condivise né i passaggi sindacali successivi allo sciopero unitario e le relazioni con le controparti hanno visto nuovi momenti di condivisione. Se si sciopera assieme poi si concordano anche i passaggi che sono l’effetto dello sciopero, ma così non è stato.

Ci sono stati invece degli incontri tra diverse sigle del sindacalismo di base finalizzate a costruire uno sciopero generale unitario in autunno. In quegli incontri l’USB ha proposto tre cose: che lo sciopero venisse indetto attorno alla scadenza del blocco dei licenziamenti, perché è proprio su questo snodo che sta venendo a galla in modo dirompente il carattere completamente subalterno di Cgil, Cisl e Uil e c’è quindi bisogno di proporsi come alternativa concreta per milioni di lavoratori; che lo sciopero non avesse un carattere di pura testimonianza ma puntasse a realizzare forme di blocco della circolazione effettiva; e che abbracciasse un largo spettro di categorie visto che l’attacco che Draghi e Bonomi stanno portando al mondo del lavoro investe ampi settori, dal mondo produttivo a diversi settori pubblici al precariato diffuso. Non abbiamo omesso di sottolineare che lo spirito unitario finora aveva avuto un carattere più di propaganda che reale (per quanto detto sopra) ma che comunque la natura della situazione ci spronava ad andare avanti.

Noi siamo convinti che il contesto imponga una lettura più matura a tutti e costringa a guardare in faccia la realtà. Non so se ha un senso parlare di fronte comune. Noi siamo una confederazione ed abbiamo un insediamento in moltissimi settori. Non guardiamo la realtà dalla visuale specifica di un settore. Altre organizzazioni hanno una presenza prevalente in alcune categorie o in specifici ambiti territoriali e spesso agiscono a partire dalla realtà specifica che intercettano. Questo condiziona non poco la discussione e rischia di falsarla. E poi restano differenze di fondo su non poche questioni. Ne cito alcune in modo da capirci: noi siamo contrari ad organizzare finti scioperi in cui ai lavoratori si chiede di recuperare il giorno dello sciopero magari tornando a lavorare la domenica; pensiamo sia sbagliato mescolare la gerarchia aziendale con i delegati sindacali, se sei un capetto puoi essere iscritto al sindacato ma non svolgere funzioni di rappresentante sindacale; non siamo disposti a firmare accordi in cui si riconoscano limitazioni al diritto di sciopero o si facciano concessioni alle aziende che stanno al di sotto di quanto stabilisce la legge o il CCNL applicato; siamo contrari all’idea che il sindacato assuma un ruolo di gestione della forza lavoro puntando ad impossessarsi di cooperative o società.

Proprio in questi giorni i compagni di Abd El Salam, che lavoravano con lui alla GLS di Piacenza, hanno ottenuto dal giudice la reintegra sul posto di lavoro. Si tratta degli ultimi 15 di 33 lavoratori licenziati ingiustamente che hanno sconfitto la prepotenza aziendale, vedendo completamente riconosciuto il loro diritto a riprendere il lavoro nel magazzino dal quale erano stati mandati via. In quella vicenda non abbiamo mai accettato il comportamento del Si Cobas e abbiamo sempre ritenuto insostenibile che un’organizzazione sindacale, quale che sia, potesse spalleggiare dei licenziamenti. Quella vicenda, è inutile nasconderselo, continuerà a pesare fino a quando non sarà chiarita.

Potrei continuare ma segnalo queste cose per far capire che le differenze non sono di lana caprina ma rappresentano questioni fondamentali sulle quali non è facile passare oltre in nome dell’unità.  

Perciò in questa fase pensiamo sia più sensato parlare di costruzione unitaria di uno sciopero generale. Sarebbe già tanto se riuscissimo a fare questo.

 

 

Siamo a vent’anni dal G8 di Genova, come accennavi prima. Come ex attivista no-global, che bilancio fai di quella esperienza e come è stata elaborata nella conflittualità del presente?

Di quell’esperienza credo che vada conservato e valorizzato soprattutto l’aspetto che fu un movimento di rottura che aveva ben chiaro che per costruire un altro sistema bisogna combattere e distruggere quello nel quale siamo ingabbiati. Un movimento che dava all’azione conflittuale un grande valore: esprimere delle posizioni di principio e delle opinioni, anche ben argomentate e supportate dal mondo della scienza, non ha alcun effetto concreto se non si mettono in atto delle strategie collettive tese a combattere chi impedisce la realizzazione di quelle opinioni. Senza conflitto non c’è alcuna speranza per chi aspira al cambiamento sociale e ad un mondo più giusto. Negli anni c’erano state tante esperienze di forum alternativi che contestavano le narrazioni dei potenti della Terra, ma erano rimasti dibattiti per pochi iniziati. Seattle ebbe la capacità di scuotere il mondo perché alle parole ora i movimenti facevano finalmente seguire i fatti. Genova prosegue nella scia di quel famoso controvertice e ne amplifica il messaggio. 

Non so se quella vicenda sia stata ben rielaborata nel corso di questi vent’anni e se guardo al programma che una lunga lista di associazioni e sindacati ha preparato per il ventennale resto abbastanza perplesso. Il tema del conflitto rimane completamente fuori dalla scena. Penso che per parlare di Genova 2001 bisogna essere arrabbiati per quello che succede ancora oggi: se non hai questo furore non hai titolo per parlare di quello che successe allora e di quello che provammo a fare.

Un altro elemento di forza di quell’esperienza fu il suo carattere di movimento globale capace di mettere in connessione azioni e conflitti di tutti i continenti. Un’esperienza entusiasmante di costruzione di un’alternativa globale fondata sulla voglia di un cambiamento radicale che centinaia di migliaia di attivisti espressero in quella stagione in decine e decine di paesi.

Ci mancò invece una strategia complessiva capace di interpretare quello avevamo messo in moto. Benché molti di noi avessero già conosciuto in passato la brutalità della violenza dello Stato, quella risposta di guerra, con l’impiego di reparti addestrati a muoversi in contesti bellici, ci colse di sorpresa. E provocò un arretramento generale. Certo gli apparati repressivi pagarono un prezzo sul piano dell’immagine e dell’opinione pubblica ma riportarono una vittoria generale sul piano dei rapporti di forza. Da Genova 2001 il nostro sistema subisce una profonda involuzione sul piano delle libertà, del controllo, del disciplinamento, del soffocamento della protesta. Una situazione dalla quale non siamo certo usciti.

Personalmente da quell’esperienza ho tratto l’insegnamento che quando metti in moto una parte importante della società devi avere una strategia complessiva, devi sapere dove stai andando e disporre di una forza organizzata per affrontare la situazione. Ed anche che in questo scontro il movimento dei lavoratori, sia pure in condizioni completamente diverse dal passato, svolge una funzione essenziale. Pensare di rivoltare il mondo senza i lavoratori è una pura velleità. All’epoca si pensava che la presenza della Cgil e della Fiom in particolare nelle manifestazioni servisse a risolvere questo aspetto della questione. E questo fu un altro dei punti deboli di quella storia che contribuì allo scompaginamento che subimmo negli anni successivi.

 

 

INTERVISTA A EDUARDO SORGE, EDDY

 

Una bella piazza, unitaria e combattiva. Come l’avete costruita?

Nel giorno del G20 sulla salute, il Si Cobas indica ai lavoratori l’astensione dal lavoro come strumento di per mettere la salute prima del profitto. Speriamo che, dal ritrovarci insieme nelle piazze, possiamo passare alla mobilitazione unitaria nei magazzini, nelle fabbriche, nelle università, nei quartieri, per tradurre l’unità nel fuoco concreto della lotta di classe quotidiana.

Che significa ripartire dagli ultimi per ricostruire il conflitto di classe?

È molto difficile, perché si tratta dei settori più parcellizzati. Considera che il Si Cobas nasce dall’esperienza dei lavoratori immigrati della logistica, a volte inquadrati come soci-lavoratori, ricattati sia per la loro provenienza, sia per le condizioni salariali truffaldine, giacché come soci-lavoratori di una cooperativa percepiscono 600-700 euro al mese, ma lavorano anche 12 ore per tutti i giorni della settimana. Condizioni esistenti non solo nella logistica, ma anche in molti reparti del settore tessile, come a Prato, dove stiamo conducendo una battaglia enorme con i lavoratori auto-organizzati. Consideriamo l’auto-organizzazione uno strumento di contrasto contro i processi di burocratizzazione che si sono manifestati in questi anni, purtroppo anche nel sindacalismo di base. Noi mettiamo al centro i delegati dei consigli di fabbrica, com’era una volta. E adesso, grazie alle lotte, viene rispettato il contratto nazionale di questi lavoratori, si sono ottenuti miglioramenti salariali e anche il riconoscimento del nostro sindacato, benché non siamo firmatari degli accordi di rappresentanza. Ci siamo fatti riconoscere con la lotta, col picchetto, bloccando la merce, quindi facendo male davvero al padrone, e anche pagandone le conseguenze.

I lavoratori africani organizzati esprimono un contenuto di classe molto esplicito, uniscono la lotta economica e quella internazionalista, gridano slogan che sembrano provenire dalle manifestazioni degli anni Settanta. Come si spiega?

Perché mentre in questi anni in tanti pensavano a come superare il Novecento, la realtà del lavoro mostrava che siamo tornati all’Ottocento, a condizioni di sfruttamento insopportabili, con i caporali che ti dettano i tempi, eccetera. Quanto alla maggior capacità di trasporre sul terreno politico le lotte economiche, forse questo avviene perché i lavoratori migranti non sono figli della sconfitta del movimento operaio che abbiamo subito qui in Italia, e perché l’elemento internazionalista è anche una realtà concreta. Nel Si Cobas sono presenti lavoratori di oltre 50 nazionalità. Per esempio, i lavoratori della Tnt di Liegi hanno risposto subito alle nostre mobilitazioni, in solidarietà con le nostre lotte. Abbiamo molti lavoratori che hanno conosciuto le carceri dei paesi africani o di altri paesi dove la repressione politica è enorme, un’esperienza che pesa nel processo di lotta e di coscienza. Un altro esempio riguarda la religione. Prima, molti lavoratori pregavano Allah prima di fare un picchetto, nel corso della lotta hanno imparato che la priorità è modificare le cose qui e non nell’aldilà. Inoltre, penso per esempio alla mobilitazione dei facchini, nella lotta i lavoratori scoprono direttamente il vero volto dello Stato, l’assenza di spazi di mediazione. Questo non vuol dire ignorare che esistano fasi di bastone e altre di carote, come cerca di fare anche questo governo. Però, quando ti becchi il foglio di via, quando ti becchi le multe covid perché ti dicono che non puoi manifestare mentre puoi lavorare fino alle 4 del mattino, è chiaro che l’attacco non è più solo sindacale, ma anche politico. Come dice spesso uno dei nostri, non siamo noi a decidere di far politica, è la politica che ha deciso di occuparsi di noi.

Come si può pensare a costruire lotte che incidano a livello globale?

La risposta merita un approfondimento a più livelli. Il primo riguarda la modalità di rompere la gabbia dell’Unione Europea, non per tornare a frammentarsi in mille pezzi, per rivendicare un ipotetico ritorno all’interno della sovranità nazionale, che per noi non esiste, ma per ricostruire i mille rivoli della lotta di classe mettendo al centro i contenuti unificanti delle lotte politiche sia contro la troika che contro i governi nazionali. Come si fa? Al di là degli sforzi soggettivi, è necessario che ci siano le lotte reali, pensiamo che anche il processo di riorganizzazione politica passi attraverso il protagonismo di una nuova stagione di lotta. Dei segnali ci sono. In questo anno abbiamo costruito legami con i lavoratori della sanità di Portland, del Bangladesh. Ci occupiamo di tutta la catena Zara. La nostra idea è di costruire uno sciopero transnazionale dove, oltre a bloccare la fase finale della distribuzione, possiamo bloccare anche a monte, nei paesi dove la merce si produce. Un altro esempio è rappresentato dal porto di Napoli, dove la CO.NA.TE.CO., che sfrutta i lavoratori e non applica il contratto collettivo dei porti, è la stessa società che inquina con tonnellate di rifiuti industriali il porto, è la stessa che ha accolto le armi israeliane, bloccate dai portuali. Le lotte dei giovani di Fridays For Future sono state condotte a livello internazionale, e si possono unire a quelle degli operai che sono al centro della contraddizione. Certo non c’è una formula magica, e neanche si deve rincorrere l’unità per l’unità, ma costruire un Fronte unico che per noi è di classe, nel quale le organizzazioni piuttosto che porsi il problema di rivolgere appelli costituenti alla ricostruzione di soggetti politici che non si sa bene chi debbano rappresentare, si facciano un’analisi di coscienza e diventino strumenti per la classe, perché l’unica arma che abbiamo è la lotta di classe. Detto così sembra una riduzione al terreno rivendicativo e economicista, noi pensiamo invece che vi siano delle battaglie sindacali nei luoghi di lavoro che possono essere molto più significativi di mille programmi politici, perché quando si vince, si costruisce coscienza e unità di classe. Di fronte all’offensiva padronale e alla globalizzazione della logica del capitale, oggi non possiamo giocare di rimessa, dobbiamo ricreare una prospettiva internazionalista, provando a costruire legami, connessioni con le esperienze che già esistono: dai minatori, ai lavoratori che scioperano in Medioriente, e di cui si parla poco perché spesso siamo anche noi ancora troppo eurocentrici nelle nostre analisi. È vero che siamo nel cuore dell’imperialismo, ma per questo dovremmo guardare anche a quel che avviene al di fuori delle nostre fortezze.

Voi avete proposto una Piattaforma definita Patto d’Azione. Come si articola e con quali obiettivi?

L’abbiamo definita Patto d’azione perché indica la partecipazione di varie organizzazioni che si uniscono su azioni concrete finalizzate alla costruzione di un fronte unico di classe. Faccio un esempio. In presenza di un attacco repressivo che, ovviamente, è conseguenza della crisi strutturale del capitalismo e delle lotte che si determinano, dobbiamo avere una cassa di resistenza nazionale che sostenga tutta la struttura: non solo le spese legali, ma anche tutti i lavoratori che continuano a lottare nonostante siano stati licenziati. Per esempio, non è possibile agire da soli contro l’impiego dei body guard da parte delle singole aziende contro i lavoratori, come avviene a Milano, o a Peschiera. Occorre una risposta generale perché quel che accade nelle singole aziende indica la riconfigurazione del capitalismo, la sua strategia per i prossimi decenni. Oggi scontiamo un ritardo, ma il punto non è come si recupera questo ritardo, ma come stiamo dentro questa contraddizione, come riusciamo a starci a testa alta e non con le ossa rotte e da questo punto di vista, non c’è più tempo. Quindi, l’appello che facciamo come Fronte unico non è solo quello di mettere da parte i litigi, ma di misurarsi a livello strategico con la dinamica reale dello scontro di classe. Il problema non è tanto come verranno impiegati i fondi per il Recovery Plan, quando da dove verranno prese le risorse per finanziare questo piano, lottare fin da subito contro lo strozzinaggio che lo Stato e la borghesia faranno sui lavoratori mediante il debito pubblico. Su questi temi e sulla capacità di stare nelle lotte si gioca la partita. Per noi, internazionalismo significa affrontare la contraddizione capitale-lavoro, quella di genere e quella antimperialista costruendo un programma di lotta ma anche una prospettiva.

Prima accennavi alla chiusura di spazi di agibilità per le lotte, alla criminalizzazione del conflitto di classe, al rapporto tra legalità e legittimità. Come state riflettendo su questo tema?

Il ricatto repressivo è enorme, per i lavoratori migranti significa il ritiro del permesso di soggiorno, per molti giovani significa decine di denunce, di processi amministrativi pari a centinaia di migliaia di euro. La repressione ha anche carattere preventivo, e mira a eliminare sul nascere qualunque ipotesi di ricomposizione. Non riguarda solo i compagni, ma tutti i proletari. Un meccanismo che viene da lontano, pensiamo alla repressione che subisce il movimento dei disoccupati organizzati di Napoli. Dobbiamo attrezzarci per fronteggiarla. Sulla questione legittimità e legalità, è chiaro che oggi è legale un decreto come quello Salvini che viene applicato a lavoratori che scioperano, dove un picchetto diventa oggetto di condanna penale mentre fino a qualche anno fa veniva considerato parte dello sciopero, di una normale attività sindacale. Ma noi sappiamo fin troppo bene che ogni periodo storico definisce gli standard dei diritti e della legalità borghese in base ai rapporti di forza stabiliti dalla lotta di classe. Oggi veniamo da una sconfitta storica, sta a noi ripartire con la consapevolezza che dobbiamo farlo fuori dalla legalità borghese, perché se le lotte sono un problema di ordine pubblico, la soluzione non può certo darcela il prefetto. Ora la domanda è: come ci immaginiamo le lotte? Quanto pesa la memoria del passato conflitto? Gli arresti di ex brigatisti a Parigi e la spettacolarizzazione che ne è seguita indicano che “lo spettro del comunismo” è morto più per certi compagni che per la borghesia, che ne ha ancora paura.

Ci sono paesi come Cuba e Venezuela che stanno mantenendo aperta una prospettiva per le classi popolari e per i popoli che non si inginocchiamo all’imperialismo, e per questo subiscono il peso di misure coercitive unilaterali illegali. Come viene percepita questa resistenza dai lavoratori immigrati?

Nei nostri lavoratori, anche se sono per lo più legati ai popoli arabi, ogni ingiustizia dell’imperialismo provoca una reazione. Personalmente, credo vadano sostenute tutte quelle esperienze che sono in contrasto con l’ordine mondiale capitalista e imperialista. Tuttavia, penso che a fronte di un capitalismo così globalizzato, la soluzione vada al di là dei singoli stati e non possa che essere internazionale.

Adil Belakhdim, un vostro militante, è stato investito da un camion davanti ai cancelli della Lidl di Biandrate. Come sono andate le cose? E come valuti la grande reazione solidale che è arrivata da tutte le componenti della sinistra di classe e sindacale?

Adil era il nostro coordinatore di Novara. Le cose sono andate come abbiamo riportato nei comunicati pubblici. Un crumiro, avvelenato dall'azienda e dai padroni, in nome dei tempi di produzione e in nome del profitto, ha investito Adil che era in picchetto con gli operai per il rispetto dei contratti di lavoro. Un episodio i cui mandanti sono chiari: Confindustria, Governo e padroni. 

Le lacrime di coccodrillo istituzionali sono inutili ed infami, considerando che vogliono fare diventare Adil un loro morto, casomai approfittando per proporre qualche legge di ulteriore limitazione allo sciopero affermando che il picchetto è una forma pericolosa che porta a queste situazioni.

Siamo stati travolti dalla reazione di vicinanza che la morte di Adil ha prodotto, ad ora abbiamo già raccolto quasi 80.000 euro per la famiglia. La solidarietà che ci è arrivata è stata grande, così come è importante ricordare che in quel giorno (il 18 Giugno) c'era lo sciopero nazionale della logistica convocato dal SiCobas a seguito delle aggressioni a San Giuliano, Lodi e Tavazzano, come alla TexPrint di Prato. Da quell'episodio, altre organizzazioni di base, su invito del SiCobas, hanno aderito al percorso che auspichiamo porterà ad uno sciopero generale in autunno unitario e forte contro le politiche Unione europea e del governo italiano.

Oltre la solidarietà, però, sarà necessario che questa si traduca in arma concreta tramite la condivisione delle iniziative di lotta ed un percorso da tradurre nel concreto e nel fuoco dello scontro di classe.

 

A vent’anni dal G8 di Genova, come intendete proseguire la lotta contro il G20?

A vent'anni da Genova, sia per i compagni nostri che c'erano, sia per chi come me non c'era, credo che una cosa sia chiara. Se un altro mondo era possibile, oggi un altro mondo è necessario. Non entro nel merito delle straordinarie mobilitazioni da Napoli a Genova, ritengo possa farlo chi c'era. A distanza di vent'anni, credo però sia chiaro che ogni movimento che non preveda nel suo programma il superamento del sistema attuale finisca per collaborare al tentativo di tenerlo in piedi. Dal ricordo e la memoria fondamentale di quelle giornate, crediamo sia necessaria una ricognizione del presente che dialetticamente spieghi il passato alla luce del programma comunista. Insomma, sciogliere anche un nodo politico importante: altermondialismo o anticapitalismo?

 

 

Ti è stato imposto il foglio di via. Cosa significa in concreto?

Sì, un foglio di via dall'hinterland milanese perché per la Questura sarei "soggetto che esprime pericolosità sociale", perché ritengono il mio comportamento dedito alla commissione di reati che offendono e mettono in pericolo la sicurezza e la tranquillità pubblica. Un foglio di via da San Giuliano Milanese perché, in quanto coordinatore sindacale, ero al fianco dei lavoratori che resistevano a mazzieri, crumiri e squadracce a difesa dei profitti della FedEx. Un foglio di via che già è arrivato a oltre 30 lavoratori e coordinatori della Lombardia. Un’escalation repressiva che colpisce tanti lavoratori, attivisti, realtà di lotta. Questo avviene oggi, a me, a pochi giorni dalla comunicazione per l'indagine per associazione per delinquere, come ad altri compagni del SiCobas, Iskra, disoccupati, lavoratori, solidali e tante realtà di lotta.

Per noi, pericoloso per la salute pubblica è il comportamento di una multinazionale che, in barba agli accordi, chiude l'azienda per riaprire altrove, per sfruttare lavoratori interinali. È pericolosissimo che sia il Questore di Milano a dire se il compenso economico per un licenziamento sia congruo o meno. È pericoloso il capitale, sono pericolosi i padroni, lo stato borghese che difende i profitti di pochi estratti dal sudore dei tanti. I reati veri sono i licenziamenti, l'arruolamento di squadre private per aggredire i lavoratori, sono i sistemi giungla della logistica, sono le mancate risposte istituzionali. È pericoloso un sistema sociale e politico basato sullo sfruttamento. E solo gli sfruttati, organizzati, possono difendere sé stessi per il miglioramento delle proprie condizioni di lavoro e di vita, per una nuova società senza sfruttati né sfruttatori.

La notifica del foglio di via, è arrivata a pochi giorni dall'indagine per “associazione a delinquere”. Ma alcune volte quando i padroni e Stato sollevano una pietra, la

mobilitazione proletaria gliela fa ricadere in maniera pesante sui piedi.

Geraldina Colotti

Geraldina Colotti

Giornalista e scrittrice, cura la versione italiana del mensile di politica internazionale Le Monde diplomatique. Esperta di America Latina, scrive per diversi quotidiani e riviste internazionali. È corrispondente per l’Europa di Resumen Latinoamericano e del Cuatro F, la rivista del Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV). Fa parte della segreteria internazionale del Consejo Nacional y Internacional de la comunicación Popular (CONAICOP), delle Brigate Internazionali della Comunicazione Solidale (BRICS-PSUV), della Rete Europea di Solidarietà con la Rivoluzione Bolivariana e della Rete degli Intellettuali in difesa dell’Umanità.

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