Non è una crisi nel capitalismo. E' la crisi del capitalismo

Non è una crisi nel capitalismo. E' la crisi del capitalismo

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di Richard D. Wolff* – 9 giugno 2020


Il capitalismo ha sempre avuto cicli economici. Le imprese capitaliste che producono beni e servizi sono organizzate in modo caratteristico intorno alla relazione conflittuale tra datore di lavoro e dipendenti e alla relazione competitiva dei mercati. Queste relazioni centrali del capitalismo generano insieme instabilità ciclica. Dovunque il capitalismo è diventato il sistema economico di una società negli ultimi tre secoli i cicli economici si sono verificati ogni 4-7 anni. Il capitalismo ha meccanismi per sopravvivere ai propri cicli, ma sono dolorosi, specialmente quando i datori licenziano dipendenti. Diffuse sofferenze (disoccupazione, fallimenti, finanze pubbliche scompaginate, ecc.) hanno introdotto l’etichetta di “crisi” ai declini ciclici del capitalismo. Solo in occasioni speciali, e raramente, le crisi cicliche nel capitalismo sono divenute crisi del capitalismo come sistema. Ciò ha solitamente richiesto che altri problemi non economici (politici, culturali e/o naturali) raggiungere un crescendo di picchi circa nello stesso momento di un declino economico ciclico. Oggi è un momento di crisi sia nel, sia del capitalismo statunitense.


La politica economica statunitense oggi si concentra su quello che è già il peggior declino del ciclo economico dal crollo del 1929. Mentre i dati si accumulano può ben dimostrarsi il peggiore dell’intera storia globale del capitalismo. Quaranta milioni di lavoratori statunitensi disoccupati si ritrovano con entrate perse, risparmi che svaniscono e un aggravamento delle finanze di famiglie eccessivamente indebitate.
 

L’odierna disoccupazione di massa minaccia anche quelli che ancora lavorano, i restanti 120 milioni di membri della forza lavoro statunitense. La disoccupazione di massa induce sempre i datori a tagliare i salari, le indennità e le condizioni di lavoro. Se alcuni dei loro dipendenti si licenziano, molti tra i milioni di disoccupati accetteranno quei posti abbandonati. Sapendo questo, la maggior parte dei dipendenti accetta i tagli dei loro lavoratori. I datori li giustificheranno come imposti dalla “pandemia” o da quelli che affermano essere i suoi effetti sui loro profitti.


Guidati da Trump e dai Repubblicani e tollerati dai leader Democratici, i datori statunitensi stanno intensificando una guerra di classe contro i lavoratori. Questo è ciò che la disoccupazione di massa realizza. Da un lato Washington salva i datori con trilioni di dollari. Dall’altro Washington consente (mediante finanziamenti) una disoccupazione di massa che compromette direttamente l’intera classe lavoratrice. Germania e Francia, per esempio, non hanno potuto consentire tale disoccupazione a causa delle influenze sociali dei loro movimenti sindacali e partiti socialisti. In acuto contrasto, le prevedibili conseguenze della disoccupazione di massa negli Stati Uniti stanno aggravando divisioni sociali, rinnovato razzismo, proteste sociali e repressione governativa (spesso violenta).


Un presidente disperato teme perdite elettorali perché il suo governo ha mancato di prepararsi o di prevenire (1) un brutto virus o (2) un declino del ciclo economico capitalista o (3) la loro catastrofica combinazione. Suprematismo bianco, brutalità poliziesca, controllo dei media di massa e così via, servono ai tentativi di Trump di mobilitare la sua base politica. Lo stesso vale per i suoi attacchi a capri espiatori stranieri mirati a deviare la colpa dal suo governo e dalle carenze del sistema. Essi includono migranti, Cina, Organizzazione Mondiale della Sanità, ex alleati europei, eccetera.


Tutte queste manovre tattiche del regime Trump/Repubblicano provocano opposizioni. Tuttavia esse restano sparpagliate e disorganizzate politicamente. Invece di mobilitarle e coordinarle, la dirigenza del Partito Democratico fa il contrario. Ha minato il movimento di Bernie Sanders, specialmente dividendolo da una larga parte della comunità afroamericana a reddito medio. In tal modo bloccando, anche se solo temporaneamente, una potente opposizione emergente, i leader del Partito Democratico hanno scoraggiato l’opposizione di massa a salvataggi, disoccupazione, minimi test per il COVID-19 e tutti gli altri fallimenti governativi. Vogliono solo vincere le elezioni del novembre 2020. Le vaghe promesse di Biden di un “ritorno alla normalità” sono offerte come antidoti sedativi alla divisività allarmistica basata sulla crisi di Trump/Repubblicani. Trump si getta in un programma radicalmente filocapitalista accoppiato a una guerra reazionaria culturale e politica contro i diritti e le libertà civili. E’ la vecchia strategia del Partito Repubblicano, ma una versione molto più estrema. I Democratici la contrastano con reazioni reazionarie: una resuscitata Guerra Fredda (contro Russia e/o Cina) e una sicurezza interna meno sfilacciata di quella pianificata dal Partito Repubblicano. Le guerre culturali sono forse il solo campo in cui i Democratici ritengono di guadagnare voti non cedendo ulteriormente a pressioni di destra.


L’alternanza di governi Democratici e Repubblicani ha prodotto l’attuale stallo. L’isolamento globale accompagna la declinante influenza economica e politica statunitense. La supremazia tecnologica del paese è sempre più sfidata globalmente e specialmente in e dalla Cina. Tentativi di bloccare tale sfida non sono riusciti e probabilmente non faranno meglio in futuro. Ulteriori insulti alla Cina – perseguiti da entrambi i partiti maggiori – non faranno che rallentare la crescita economica proprio quando convergono molte circostanze a rendere ciò il futuro meno desiderabile. Livelli record di debito governativo, societario e delle famiglie rendono l’economia statunitense eccezionalmente vulnerabile a shock e declini ciclici futuri.


La popolazione statunitense sotto i quarant’anni di età si dibatte sempre più con debiti insostenibili. I posti di lavoro e i redditi che ha di fronte hanno già minato l’accesso al “Sogno americano” che era stato loro promesso da bambini. Né hanno grande speranza nel futuro poiché l’odierna pandemia-cum-crollo impone loro altre sofferenze. Che crescano proteste, provocate ulteriormente dalla repressione governativa, non dovrebbe sorprendere nessuno.


Ripetuti sondaggi in cui metà dei giovani “preferisce il socialismo al capitalismo” riflettono una crescente antipatia per la loro realtà capitalista in deterioramento. Nel sistema scolastico statunitense plasmato dalla Guerra Fredda dai tardi anni Quaranta, le reali teorie e pratiche del socialismo non erano insegnate seriamente. Dibattiti tra i socialisti su come il socialismo stava cambiando o dovrebbe cambiare restano largamente ignorati. Il crescente interesse odierno alle critiche del capitalismo e alle varietà del socialismo riflette il rifiuto da parte dei giovani dei tabu della Guerra Fredda nonché di un capitalismo che li ha largamente delusi.


Non è probabile alcun “ritorno alla normalità” dopo gli shock sistemici sommati della pandemia del COVID-19 e della depressione capitalista. Molti non vogliono tale ritorno perché ritengono che quella normalità abbia condotto sia alla pandemia sia al crollo economico. Ritengono anche che i dirigenti di quella vecchia normalità – direttori generali industriali nelle loro posizioni sia private sia governative – dovrebbero subire un duro esame politico e una dura opposizione a causa di dove ha condotto quella normalità e di dove probabilmente condurrà di nuovo.


Quei dirigenti non stanno risolvendo i problemi che hanno contribuito a creare: test del tutto inadeguati per il virus, salvataggi più vasti che mai delle maggiori banche e imprese, disoccupazione di massa e aggravamento delle disuguaglianze di patrimonio e di reddito.


Perché allora mantenere al potere quei dirigenti? Non dovremmo aspettarci oggi da loro risultati diversi rispetto a quando le condizioni erano “normali”.


Naturalmente le proteste sono divampate nelle comunità afroamericane e attorno a esse. Oltre alla loro lunga storia di assoggettamento a discriminazione sociale e occupazione e alla repressione poliziesca, è importante ricordare che tali comunità hanno sofferto peggio nella Grande Recessione del 2008-2009. La loro disoccupazione ha fatto allora un balzo, hanno perso sproporzionatamente la casa a causa di pignoramenti, eccetera. Sono morti di coronavirus in misura considerevolmente superiore rispetto alle comunità bianche. A causa della sproporzionata dipendenza da posti di lavoro sottopagati nel settore dei servizi hanno ancora una volta sofferto sproporzionatamente per il crollo del capitalismo USA del secondo decennio del 2000. Quando poi un presidente favorisce spudoratamente la supremazia bianca e i suprematisti bianchi, pronunciando e ripetendo commenti razzisti, sono pronti gli ingredienti per suscitare proteste. Per quanto utili alle campagne elettorali di Trump/Repubblicani, le proteste sociali e le reazioni oppressive della polizia aggiunto acuti conflitti sociali e una combinazione già disastrosa di pandemia virale e crollo economico.


Trump è un prodotto e un segno dello sfinimento del capitalismo statunitense. La lunga, comoda alternanza tra Partito Repubblicano e Democratici dopo il trauma della Grande Depressione degli anni Trenta ha realizzato il suo scopo. Ha demolito la ridistribuzione di Roosevelt della ricchezza dall’alto alla fascia media e inferiore. Ha “corretto” quel problema invertendo la distribuzione di ricchezza e reddito. La copertura ideologica per tale “correzione” è stata la demonizzazione trasversale del socialismo interno sommata al perseguimento trasversale della Guerra Fredda all’URSS. La maggiore disputa tra Repubblicani e Democratici ha riguardo i modi e la misura del sostegno governativo al capitalismo privato (come in Keynes contro Friedman, eccetera). Tale controversia minore è assurta allo status di “problema principale” da dibattere per politici, giornalisti, e accademici perché si sono piegati al tabu sui dibatti riguardo a capitalismo contro socialismo.


Il capitalismo ha ridistribuito in misura così estrema ricchezza e reddito all’un per cento al vertice, in tal modo impantanando la maggiore in superlavoro e debito eccessivo, e ha così cancellato i “buoni lavori” (delocalizzandoli all’estero e all’automazione) che il sistema stesso si attira una disaffezione, critica e opposizione sempre più intensi. All’inizio l’aggravamento delle divisioni sociali esprimeva la disintegrazione del sistema. Oggi aperte proteste di piazza portano gli Stati Uniti un passo più prossimi a una totale crisi del sistema.


Trump ha assoggettato i vecchi dirigenti del capitalismo minacciandoli politicamente con piccole aziende e lavoratori a medio reddito eccitati e arrabbiati. Trump promette a questi ultimi un ritorno a ciò che avevano prima che la ridistribuzione verso l’alto li colpisse. Dice ai vecchi dirigenti che solo lui e la sua base possono garantire le loro posizioni sociali  al vertice di un capitalismo contemporaneo ridistribuito verso l’alto. Loro salveranno i vecchi dirigenti da Bernie, “progressismo” e “socialismo”. La vecchia dirigenza “centrista” del Partito Democratico offre un’opposizione debole, parziale, sperando che Trump si spinga troppo in là e faccia implodere il Partito Repubblicano.


Dopo la pandemia e la disoccupazione di massa usata per “gestirla”, salari e provvidenze subiranno grossi colpi nei mesi e anni a venire. La ricchezza sarà ulteriormente ridistribuita verso l’alto. Le divisioni sociali si aggraveranno e lo stesso le proteste sociali. Questa crisi nel capitalismo è anche una crisi del capitalismo.


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*Richard D. Wolff è docente emerito di economia presso l’Università del Massachusetts, Amerst, e docente ospite del Programma di Laurea in Affari Internazionali della New School University, a New York. Il programma settimanale di Wolff, “Economic Update”, è consorziato con più di cento stazioni radiofoniche e raggiunge 55 milioni di spettatori televisivi attraverso Free Speech TV. I suoi due libri recenti presso Democracy at Work sono Understanding Marxism Understanding Socialism, entrambi disponibili presso democracyatwork.info.

Questo articolo è stato prodotto da Economy for All, un progetto dell’Independent Media Institute.

 

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