Parlare di pace e negoziati è tabù. L'ammissione del NYT

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Parlare di pace e negoziati è tabù. L'ammissione del NYT



PICCOLE NOTE

 

Stian Jenssen, capo di gabinetto del segretario generale della NATO, è stato l’ultimo, in ordine di tempo, a dover subire pesanti ritorsioni per aver osato affermare che è necessario trovare un modo per porre fine alla guerra ucraina, anche accettando, se necessario, la cessione di parte dei territori attualmente sotto il controllo di Mosca.

Dal durissimo contraccolpo subito da Jenssen prende spunto Steven Erlanger per scrivere un meditato articolo pubblicato sul New York Times il 1 settembre con un titolo più che significativo: “Mentre il conflitto ucraino prosegue, parlare di negoziati è diventato quasi un tabù” (si potrebbe togliere quel “quasi”).

La chiusura dello spazio politico-mediatico

Così il NYT: la dura reazione subita da Jenssen, “dicono alcuni analisti che sono stati criticati in maniera analoga, riflette una chiusura del dibattito pubblico sulle opzioni per l’Ucraina proprio nel momento in cui è più necessaria una diplomazia creativa”, dal momento che il fallimento della controffensiva ucraina, che tutti davano per vincente, è ormai palese (tanto che Zelensky ha licenziato il ministro della Difesa, primo capro espiatorio di tale fallimento).

Eppure, “dal momento che anche il presidente Biden ritiene che la guerra probabilmente finirà con dei negoziati, Samuel Charap, politologo della RAND Corporation, ritiene che in una democrazia dovrebbe aver luogo un dibattito serio su come arrivarci. Ma anche lui è stato criticato per aver suggerito che gli interessi di Washington e Kiev non sempre coincidono e che è importante parlare con la Russia di un esito negoziato”.

Sul punto, Charles A. Kupchan, professore della Georgetown University ed ex funzionario di Stato americano, ha affermato: “L’atmosfera politica si è inasprita e, nel complesso, nello spazio politico persiste un tabù sulla possibilità di dar luogo a un serio confronto sull’Endgame”.

“Kupchan”, annota Erlanger, “sa di cosa parla. Lui e Richard N. Haass, ex presidente del Council on Foreign Relations, ad aprile hanno scritto un pezzo su Foreign Affairs in cui esortavano Washington e i suoi alleati a elaborare ‘un piano per passare dal teatro di guerra al tavolo dei negoziati’ e furono ampiamente criticati”.

“Tali critiche si sono inasprite considerevolmente dopo che i due, insieme a Thomas E. Graham, ex diplomatico americano a Mosca, si sono incontrati in privato con il ministro degli Esteri russo, Sergey V. Lavrov, per esplorare la possibilità di negoziati”.

[…] “Intavolare una conversazione su un possibile Piano B è cosa ardua – dice ancora Kupchan – come ha dovuto registrare nel modo più duro Jenssen e com’è accaduto a noi che stiamo cercando di elaborare dei Piani B. Siamo oggetto di ondate di critiche e di abusiCiò che in precedenza era qualcosa di simile a un tabù ora è diventato un tabù inviolabile”.

Constanze Stelzenmüller, della Brookings Institution, si è spinta oltre, definendo “immorale” la ricerca di una soluzione negoziata, rendendo in tal modo esplicito ciò che è implicito in questa deriva. Infatti, come indica la parola tabù, non siamo di fronte a un diniego di natura politica, ma a un veto, un dogma, di natura religiosa, che non ammette deroghe.


Il tabù della pace e la guerra eterna

Ciò che in questi mesi si è palesato in tutta la sua evidenza e potenza nasce dal post 11 settembre e nei decenni delle guerre infinite grazie anche alla complicità e alla connivenza di tanti che ora inorridiscono di fronte al mostro che essi stessi hanno creato, sottostimandolo alcuni, alimentandolo altri.

Alla jihad, la guerra santa, lanciata da fondamentalismo islamico ha corrisposto la guerra santa al Terrore. Opposti estremismi che si sono alimentati a vicenda e che, non a caso, negli anni hanno trovato convergenze contro i comuni nemici, come ha palesato la guerra libica, con al Qaeda usata come truppa di terra della NATO contro Gheddafi; la guerra yemenita, con le milizie salafite in guerra contro i ribelli Houti; e, infine (ma si potrebbe continuare), la guerra siriana, dove gli islamisti radicali hanno combattuto contro Assad, le milizie iraniane e i russi.

Tutte guerre nelle quali lo spazio del dibattito pubblico si è andato via va restringendo, con una stretta diventata ferrea per la guerra siriana, riguardo la quale non era (né è) consentito dire nulla che divergesse dalla narrazione mainstream.

Quanti hanno osato sfidare le narrazioni mainstream nel tempo sono stati allontanati, emarginati o normalizzati, anche se i più sono stati costretti a normalizzarsi da sé per non perdere il posto di lavoro o hanno abbracciato entusiasti il nuovo credo per le prebende e la carriera che ciò assicura.

Così le guerre infinite di questi decenni sono state anche un banco di prova per modellare uno spazio politico-mediatico atto all’impegno attuale, molto più duro dei precedenti, che pure era stato previsto da decenni, dal momento che il momento del confronto diretto tra l’Impero d’Occidente e quello, più variegato, d’Oriente era l’orizzonte ultimo delle guerre infinte.

Si avvera, sotto altre spoglie, lo scenario del Grande Fratello orwelliano, che vede lo il super-Stato guidato dal Grande Fratello, i cui cittadini sono benignamente irreggimentati, condurre una lotta eterna con le due contrapposte potenze, l’Eurasia e l’Estasia… spes ultima dea.

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Piccole Note è un blog a cura di Davide Malacaria. Questo il suo canale Telegram per tutti gli aggiornamenti: https://t.me/PiccoleNoteTelegram

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