Petrolio, bugie e neo-colonialismo: perché l’Esequibo è la nuova frontiera della rapina globale
Dietro la retorica del “diritto internazionale”, la Guyana regala giacimenti alla Exxon, mentre il Venezuela resiste all’assedio
Il contenzioso sull’Esequibo, regione strategica ricca di petrolio e risorse naturali, non è solo una disputa territoriale, ma un emblematico scontro tra la difesa della sovranità storica e gli interessi di potenze esterne che, attraverso governi locali asserviti, cercano di plasmare la geopolitica della regione. Le dichiarazioni della vicepresidente venezuelana Delcy Rodríguez hanno rilanciato con forza la posizione di Caracas: l’Esequibo è territorio venezuelano, e ogni tentativo di derubricare la controversia a mera questione giuridica da risolvere in tribunali internazionali rappresenta un attacco alla legittimità storica del Paese.
Guyana: un governo “strumento” di Exxon Mobil e Washington
Rodríguez non ha usato mezzi termini nel denunciare il ruolo della Guyana, definendola un “capataz de la Exxon Mobil”, ovvero un esecutore degli interessi della multinazionale statunitense e, per estensione, degli Stati Uniti. Georgetown, secondo Caracas, agisce come un governo fantoccio, replicando dinamiche coloniali: mentre formalmente celebra la propria indipendenza (ottenuta nel 1966), di fatto perpetuerebbe la logica di saccheggio delle risorse avviata dal Regno Unito, ex potenza coloniale.
La Guyana, insediando basi militari straniere e accelerando lo sfruttamento offshore in collaborazione con la Exxon — che dal 2015 ha scoperto giacimenti valutati in oltre 30 miliardi di barili — sembra aver abbracciato un ruolo simile a quello di altri governi “fiancheggiatori” di Washington: il presidente guyanese Irfaan Ali come uno “Zelensky caraibico”, pronto a militarizzare la regione pur di garantire il controllo occidentale su risorse strategiche. Un parallelismo non casuale, considerando il sostegno politico-diplomatico degli USA a Georgetown, incluso l’invio di navi da guerra nel Mar dei Caraibi nel 2023.
Visualizza questo post su Instagram
La Corte dell’Aja: uno strumento di pressione neo-coloniale?
Caracas rifiuta categoricamente la giurisdizione della Corte Internazionale di Giustizia (CIJ), ricordando che l’unico quadro legittimo per risolvere la disputa è l’Accordo di Ginevra del 1966, che impone una soluzione negoziata tra le parti. La decisione della CIJ del 1° maggio, che ha intimato al Venezuela di cancellare le elezioni regionali previste nell’Esequibo per il 25 maggio, è stata bollata come un “atto interventista” privo di basi giuridiche.
Per Rodríguez, la CIJ è diventata un’arena dove gli interessi delle multinazionali e delle potenze occidentali si sovrappongono al diritto internazionale: «Nessun processo manipolato dal lobbying della Exxon Mobil all’ONU costringerà il Venezuela ad accettare decisioni illegittime». La mossa della Guyana di portare il caso all’Aja nel 2018 — sostenuta da Stati Uniti e UE — viene interpretata come un tentativo di bypassare il dialogo diretto, imponendo una sentenza “pilotata” che legittimerebbe l’occupazione de facto della regione.
Venezuela: unità nazionale contro il disprezzo storico
Mentre la Guyana si presenta come vittima, la retorica di Caracas punta a smascherare un doppio standard: da un lato, Georgetown accusa il Venezuela di militarizzazione, dall’altro consente alla Exxon (e implicitamente alla nefasta accoppiata USA/NATO) di stabilire una presenza militare-economica nell’area, trasformando l’Esequibo in un avamposto estrattivo. Intanto, il Venezuela ribadisce il proprio impegno costituzionale: il 25 maggio si voterà per eleggere le autorità regionali della Guayana Esequiba, perché «il sole del Venezuela nasce nell’Esequibo», come recita lo slogan nazionale.
La posizione venezuelana non è mero nazionalismo: affonda le radici in secoli di storia. L’Arbitrato di Parigi del 1899, che assegnò il territorio al Regno Unito, fu contestato fin dall’inizio da Caracas a causa di accordi segreti a attività di corruzione da parte di Londra. L’Accordo di Ginevra, firmato alla vigilia dell’indipendenza guyanese, riconosceva proprio la natura controversa dei confini, impegnando entrambi i Paesi a trovare una soluzione pacifica. Oggi, però, la Guyana viola quel patto, preferendo una Corte internazionale chiaramente filo-occidentale.
Geopolitica del petrolio: quando le risorse alimentano il neo-colonialismo
Dietro la disputa c’è una realtà innegabile: l’Esequibo offshore è una delle ultime frontiere petrolifere globali. La Guyana, con il PIL in crescita del 300% grazie agli accordi con Exxon, è diventata il simbolo di un modello estrattivo neo-coloniale, dove le élite locali cedono risorse a multinazionali straniere in cambio di profitti immediati, svendendo la sovranità a lungo termine. Caracas, al contrario difende un principio sacrosanto: le risorse dei popoli devono essere controllate dai popoli, non da multinazionali o potenze straniere.
Pace o provocazione?
La Guyana, incoraggiata da Washington, gioca con il fuoco: invece di negoziare seriamente, alimenta tensioni con azioni simboliche (come le esercitazioni militari con forze USA) e ricorsi giudiziari strumentali. La Repubblica Bolivariana del Venezuela, dal canto suo, non chiede altro che il rispetto degli accordi storici e del diritto all’autodeterminazione. Se Georgetown continuerà a fare il “gallo da combattimento” per conto terzi, rischia di trasformare una disputa territoriale in un conflitto aperto, con conseguenze imprevedibili per l'intera regione. L’unica via d’uscita rimane il dialogo bilaterale, lontano dalle pressioni di Exxon Mobil e delle potenze che dietro di essa si nascondono.