Pino Arlacchi - Le guerre in corso e il futuro della pace mondiale

Pino Arlacchi - Le guerre in corso e il futuro della pace mondiale

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Su gentile concessione dell'Autore, pubblichiamo l'intervento dell'ex vicesegretario Onu, Pino Arlacchi, al Forum di Verona tenutosi quest'anno a Samarcanda ed organizzato dall'Associazione Conoscere Eurasia



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di Pino Arlacchi 

Samarcanda, 3 novembre


Due guerre nel giro di tre anni possono sembrare una smentita della narrativa di un mondo multipolare più stabile e pacifico di quello sotto tutela americana che lo ha preceduto. Per alcuni commentatori questi due conflitti - in Ucraina e quello tra Israele e Palestina - sarebbero un'inversione di tendenza verso un sistema internazionale in preda al caos, dove chiunque può attaccare, bombardare, distruggere un avversario senza temere la reazione di un gendarme garante della sicurezza mondiale.

La mia opinione è che il significato profondo delle guerre in corso sia l’opposto di quanto predicato in questi giorni dai profeti di sventura, che parlano di un Armageddon post-americano che ci farà rimpiangere i tempi della guerra fredda e del dominio unipolare post-1989.

Questi conflitti non segnano l’avvio di un processo che ci porterà - di crisi in crisi, di genocidio in genocidio, di violenza di massa in violenza di massa – verso una terza guerra mondiale e verso un nuovo imbarbarimento dei rapporti tra gli Stati. Essi sono piuttosto un contraccolpo, una reazione a dinamiche di progresso del sistema internazionale che avanzano da decenni, e che proseguiranno nonostante stragi e lutti perpetrati dai poteri e dagli interessi che vengono minacciati.

Prenderò come esempio il Medioriente ed i BRICS.

Negli ultimi anni i BRICS si sono imposti all’ attenzione mondiale come il nucleo di un nuovo ordine planetario più giusto e inclusivo. Un ordine multiculturale, multivalutario, privo di nemici mortali, dove non ci sono blocchi ostili, aperto alla cooperazione tra i popoli e fondato sul rispetto delle identità e delle sovranità. Un ordine non militarista, non colonialistico, la cui economia è lontana dal “capitalismo classico” nel senso che nei Paesi BRICS l’autorità pubblica, lo Stato, non è asservita al potere economico. Il sistema dominante è qui il “Developmental State”, dove lo Stato è il regista dei mercati e dello sviluppo socioeconomico. Il PIL dei BRICS supera ormai quello dei G7. La cui popolazione è solo il 6% di quella mondiale, contro il 41% dei BRICS. La maggior parte degli Stati sono impegnati in una corsa per lo sviluppo e la prosperità e non sanno più cosa farne di 800 basi militari statunitensi collocate nei quattro angoli della terra. L’ultima cosa a cui il 90% dei cittadini della terra sta pensando è di essere invischiati in un’alleanza militare che li costringa a combattere contro il nemico di qualcun altro, situato magari a migliaia di chilometri di distanza dalle loro vite.

In questi giorni di guerra e di disperazione viene spesso derisa l’affermazione di Jake Sullivan, il consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti che ha affermato poche settimane prima del barbaro attacco di Hamas ai civili israeliani, che il Medioriente era più tranquillo allora di quanto lo fosse stato nei due decenni precedenti. Il tono derisorio, in realtà, è del tutto fuori luogo. Sullivan aveva ragione. Il Medioriente prima del 7 ottobre appariva in effetti come l’esempio più convincente di un influsso benefico della multipolarità: sauditi ed israeliani che dialogano per la prima volta con mediazione statunitense, turchi e siriani che si incontrano grazie a Mosca. E, soprattutto, due arcinemici storici come i sauditi e gli iraniani che depongono le spade, firmano accordi e riaprono le ambasciate per merito cinese. E occorre aggiungere una orrenda guerra nello Yemen che entra in standby, sullo sfondo di un crollo verticale del terrorismo e dei conflitti nell’ intero Medioriente allargato - dall’ Afghanistan alla Libia all’ Iraq - dopo il ritiro americano dalla regione.

Grazie ad Hamas e Netanyahu, questo scenario è andato in pezzi. Odi e divisioni stanno riaffiorando in una regione che per alcuni non si muove verso un’epoca di allentamento delle tensioni, ma corre il serio pericolo di una nuova guerra. Cionostante, non credo che si arriverà ad uno scontro generalizzato tra i paesi arabi e l’Iran da un lato e Israele all’ altro. Non ci sarà una ripetizione dello Yom Kippur del 1973, quando Egitto e Siria lanciarono un attacco a sorpresa contro le forze armate israeliane. L’ Egitto è da tempo in buoni rapporti con Israele, che ha dal 1994 un trattato di pace con la Giordania. La Siria di oggi non ha né l’umore né gli armamenti necessari per scendere in campo.

I soli due candidati ad un allargamento della guerra sono l’Iran e gli Hezbollah. Ma entrambi hanno segnalato di non essere in cerca di uno scontro militare a tutto campo con Israele. Se lo avessero voluto, tralaltro, avrebbero partecipato direttamente all’ attacco iniziale di Hamas. E non l’hanno fatto.

Le uniche entità inclini a uno scontro esistenziale, all’ ultimo sangue, sono i fanatici di Hamas da un lato, ed i membri del governo di estrema destra di Tel Aviv. Entrambi hanno tutto da perdere dal processo di distensione che era in atto in Medioriente prima del sanguinoso attacco del 7 ottobre. Entrambi non credono nella soluzione dei due Stati. Entrambi non sono interessati a dare spazio ad una rappresentanza dei palestinesi forte e pulita. Ed è su questo terreno che non hanno fatto altro, negli ultimi anni, che favorirsi sfacciatamente a vicenda, rimandando lo scontro ad una resa finale dei conti. Che adesso è arrivata per iniziativa di Hamas, che ha battuto sul tempo Netanyahu.

Hamas è consapevole che dal miglioramento dei rapporti nella regione, e anche dalla riduzione delle tensioni tra Stati Uniti ed Iran, è facile che riemerga il progetto dei due Stati assieme ad un affievolimento del sostegno estero ai suoi militanti. Netanyahu, dal suo canto, vuole la guerra perché per lui è l’unico modo di evitare la galera per corruzione e per continuare l’apartheid contro i palestinesi.  

Una controffensiva israeliana troppo sanguinosa – come quella in atto - può certo favorire un intervento armato dell’Iran e dei suoi alleati Hezbollah libanesi. Ma, almeno finora, il rischio di escalation verso una guerra vera e propria tra Israele ed Iran rimane limitato. Hezbollah, l’Iran e lo stesso Israele sono accumunati dalla riluttanza ad assumersi un rischio così grande.  

Staremo a vedere.

In ogni caso, qualunque sia l’esito delle guerre in corso, il cammino dei megatrends che operano al servizio della pace non si interromperà. Si tratta di un cammino tormentato, pieno di momenti difficili. L’ avanzata della multipolarità farà diminuire i conflitti nel periodo medio-lungo, ma nell’immediato ne creerà di nuovi, sulla scia dei vecchi attriti e sulla scia di situazioni create da nuovi equilibri. È stato Kant ad insegnarci che andamento del progresso umano non è lineare, ma incerto e discontinuo. La pace può stagnare o arretrare per periodi anche lunghi. Può essere interrotta da regressioni sconfortanti, durante le quali gli uomini sembrano tornare indietro senza avere imparato nulla. Ma Kant recupera la contraddizione costituita dalle esplosioni di violenza tramite il concetto del learning process. Una dinamica secondo la quale sono proprio le cadute all’indietro dell’umanità che finiscono con lo stimolare il progresso etico e la pace. Questa progressione tramite temporanee regressioni è tipica di quell’ animale dalla razionalità imperfetta che è l’uomo e che impara, sia pure a fatica dai propri errori.

È per questo che credo che il mondo multipolare, i BRICS e la crescita della sicurezza globale hanno ancora - nonostante le battute di arresto – molta strada da compiere.

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