Se perfino Confindustria smentisce la Meloni
di Federico Giusti
Il Centro Studi di Confindustria dovrebbe essere una fonte autorevole anche per la Presidenza del Consiglio e, se i giudizi, con tanto di rilevazioni statistiche, sull’economia non sono rosei, qualche dubbio dovrebbe sorgere anche tra i Banchi del Governo a riguardo delle politiche fino ad ora adottate.
L‘ultima rilevazione , fine Aprile, sulla produzione industriale, tra le imprese di grandi dimensioni associate a Confindustria, rileva aspettative in peggioramento rispetto al mese precedente. Il numero di intervistati convinti che la produzione rimarrà stabile, è pari a poco più della metà del campione (51,8%).
Le imprese intervistate che credono in un aumento della produzione non superano un quarto degli intervistati (21,4%) e aumentano infine i pessimisti convinti che la produzione diminuirà (26,8%): Aprile: segnali negativi dalle imprese
Ma sarà utile scorrere anche un’altra pubblicazione: RTT chiude il 1° trimestre in riduzione
Dopo Eurostat, Istat e Fondo Monetario anche Confindustria evidenzia uno stato di crisi della nostra economia, una crisi di lungo corso che getta anche ipoteche negative sul futuro. Piergiorgio Ardeni (Sviluppo al Capolinea, 2025 Meltemi editore), dopo avere analizzato, da anni è un attento osservatore della situazione italiana, in precedenti pubblicazioni ha analizzato la composizione delle classi sociali con l’ascensore sociale praticamente fermo da lustri e l’impatto delle politiche populiste, oggi nel suo ultimo libro documenta la lunga crisi del nostro paese iniziata oltre 30 anni fa.
Se oggi il Paese sembra fermo al capolinea non possiamo imputarne le responsabilità al solo Governo Meloni, al contempo siamo in presenza di scelte reiterate nel corso degli anni da Esecutivi di diverso colore politico.
Da anni ormai si pensa che facendo pagare meno tasse alle imprese si possa uscire dalla crisi, sgravi fiscali e incentivi hanno favorito il secondo livello di contrattazione assecondando la logica che i premi di risultato e di produttività siano strumenti insostituibili per accrescere il potere di acquisto e far ripartire i consumi interni e l’economia.
Ma queste ricette si sono dimostrate da tempo errate, la produttività non è data dalla riduzione del costo del lavoro e dalla intensificazione dei ritmi ma piuttosto dagli investimenti tecnologici, innovativi e nel campo della formazione che nel corso degli anni sono stati invece fortemente ridotti. La produttività aumenta con una Pubblica amministrazione efficiente (al cui interno operino giovani laureati e diplomati mentre invece registriamo la forza lavoro più anziana die paesi UE), con un sistema scolastico moderno e attrezzato bisognoso di finanziamenti rimuovendo anche i numeri chiusi per l’accesso alle facoltà universitarie. Una scelta , quest’ultima, auspicata da chi ha dimostrato come la limitazione degli accessi non rappresenti un vantaggio ma solo un inutile danno.
Se guardiamo all’abbandono scolastico i dati sono drammatici al pari della crisi demografica, dell’invecchiamento della popolazione (attiva e non) e la bassa natalità, insomma non solo sono mancati gli investimenti pubblici e privatim a il nostro paese ha pensato di puntare tutto sulla riduzione del costo del lavoro e sui processi di delocalizzazione.
E non siamo usciti da una crisi di lungo periodo, non è servito a tal riguardo il jobs act, non sono stati utili gli sgravi fiscali e l’indebolimento dello stato sociale, la depauperizzazione dei salari e delle pensioni .
Per comprendere entità e gravità della situazione occorre guardare a un lasso di tempo ben più lungo di quello del Governo Meloni, se i nostri politici restano schiavi dei sondaggi leggerannola realtà solo in termini parziali e per mera polemica elettoralistica , la decadenza del nostro paese inizia con gli anni novanta del secolo scorso, sia sufficiente ricordare che i salari anche quando aumentavano il potere di acquisto in tutti gli altri paesi della UE allargata in Italia erano invece in calo. Lo stesso discorso vale per il lavoro, gli occupati nella fascia che va dai 25 ai 45 anni in Italia sono meno degli altri paesi europei, se consideriamo ore effettivamente lavorate poi il divario si fa sempre più grande.
Il Governo Meloni ha sostanzialmente perseverato nelle politiche del disinvestimento sottovalutando , al pari di chi l’ha preceduto, i divari e gli squilibri crescenti tra Nord e Sud, uomini e donne, giovani e adulti sono oggi mggiori di quanto fossero 20 o 30 anni fa, è stato sottovalutato il cambiamento climatico e il dissesto idrogeologico come la necessità di intervenire per la bonifica e messa in sicurezza di ampie porzioni del territorio. E questa miopia ha immediate ripercussioni sui conti pubblici, basti pensare a quanto costa alle finanze statali la mancata manutenzione e prevenzione di certi fenomeni.
Se invece vogliamo confutare il luogo comune italico secondo il quale la grande ricchezza produttiva sia nelle piccole e medie imprese, è sufficiente consultare i dati Eurostat con l’Italia che vi impiega il 61% della forza lavoro ossia il 20 per cento in più della Germania che per quanto in recessione resta la economia più forte del vecchio continente.
Negli anni sessanta c’era lo stato e la azienda pubblica a trainare la produzione industriale, oggi quell’impresa non esiste più e tra i suoi becchini c’è quel Romano Prodi che inspiegabilmente continua ad essere invocato a sinistra, ma putroppo anche da settori sindacali, come salvatore della patria.
Se le imprese con dimensioni maggiori presentano poi la produttività più alta e garantiscono maggiori investimenti anche in settori tecnologicamente più avanzati, non si capisce la ragione per cui in nanismo industriale e produttivo, come lo definiva il compianto Luciano Gallino, non sia mai stato ritenuto un problema per la classe politica italiana.
E per questo non deve destare meraviglia la disattenzione cronica verso i problemi reali del paese come avere sottovalutato la immobilità della struttura occupazionale con l’allargarsi della forbice rispetto ai maggiori paesi europei.
Alla luce di queste considerazioni si rende doverosa una presa di posizione sui referendum del prossimo 8 e 9 Giugno.
L’invito a non recarsi alle urne arrivato dal Governo non desti meraviglia perchè non è la prima volta che accade , i precedenti inviti al boicottaggio arrivavano da esponenti politici del campo avverso.
Meloni ricorda quindi Renzi e facendo mancare il quorum otterrebbe un grande risultato ossia salvaguardare gli interessi delle imprese, di chi non vuole la responsabilità dei committenti , pubblici e privati, in caso di infortuni e morti sul lavoro negli appalti, di chi nega i diritti nelle piccole e medie aziende pensando che la reintegra al lavoro in caso di licenziamento illegittimo resti un errore. Meloni e il centro destra assomigliano al Pentapartito del 1985 che si schierò , con Cisl Uil e parte della CGIL; a favore del taglio di alcuni punti della scala mobile. Ma ironia della sorte gli attuali governanti non erano i paladini del popolo, del cambiamento e i nemici della partitocrazia? Giusto a ricordare che il connubio tra destra e poteri economici forti (o comunque gli interessi datoriali) è sempre più forte, anzi potremmo definirlo un matrimonio solido che non conosce turbolenze o crisi.