“Un nuovo liberalismo inclusivo contro le disuguaglianze del mondo contemporaneo”

 “Un nuovo liberalismo inclusivo contro le disuguaglianze del mondo contemporaneo”

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di Michele Blanco*

Introduzione

La globalizzazione liberista, il progresso scientifico, le enormi, e sempre più, crescenti diseguaglianze[1], la grande e gravissima emergenza ambientale richiedono una nuova ed urgente risposta teorica e politica. Perché sappiamo bene che senza freni «il capitalismo, per proliferare, ha bisogno di sfruttare sempre nuovi territori in cui poter espandersi, ma poi, come succede ai parassiti che non possono alimentarsi senza distruggere le condizioni della propria sopravvivenza, non appena realizza l’obiettivo, esaurisce anche la fonte del proprio nutrimento»[2]. Le gravissime emergenze ambientali e sociali, ma non solo, ci dimostrano come l’analisi del capitalismo parassitario fatta da Rosa Luxemburg sia stata più che profetica e, purtroppo, a distanza di un secolo attualissima.

Sullo stesso argomento, negli anni molto più recenti, abbiamo avuto degli avvertimenti, anche da ambienti molto più vicini al potere economico. Nel 1972 venne pubblicato il primo rapporto del Club di Roma nel quale si chiariva l'interconnessione fra l'espansione economica incontrollata e la produzione di rischi crescenti per la vita[3]. Infatti con la pubblicazione del Rapporto sui limiti dello sviluppo umano del 1972 è la stessa idea di progresso economico, fino ad allora concepito come un grande processo lineare ed espansivo, che comincia ad incrinarsi. Nel Rapporto vengono per la prima volta delineate le conseguenze dell’aumento continuo della popolazione sull’ecosistema terrestre. La scienza lancia un appello chiaro e documentato sulla questione dei limiti. Ma la maggior parte dei governi dell’Occidente industrializzato ignora o sottovaluta l’analisi del Rapporto e procede speditamente a finanziare il proprio sistema di welfare attraverso un sostanziale aumento della pressione fiscale, concentrata particolarmente sulle classi medie, dei disavanzi di bilancio e del debito pubblico complessivo. Malgrado questo, le disuguaglianze di reddito sono aumentate anche in tutti i paesi avanzati e sono diventate un problema centrale del capitalismo di oggi, nella sua attuale feroce versione neoliberista[4]. Perché in qualsiasi modo la possiamo pensare, dobbiamo convenire con questa bella definizione delle nefaste conseguenze del neoliberismo: «Comunque le si valuti, le teorie neoliberiste compromettono istruzione, salute, aumentano disuguaglianze e riducono le quote di reddito destinate ai lavoratori; di tali effetti non è possibile dubitare»[5].

Il neoliberismo è stato definito, e viene sempre più considerato, anche come l’esito di una lotta di classe che ha visto uscire vincenti i potenti. Che lo scontro fosse in atto e che i vincitori sarebbero stati loro, l’aveva capito uno dei più noti miliardari del mondo, Warren Buffett, che già nel 2006, intervistato dal New York Times, aveva affermato: «Certo che c’è guerra di classe, ma è la mia classe, la classe ricca che la sta conducendo, e noi stiamo vincendo»[6]. E pochi anni dopo, ricorda ancora D’Eramo, lo stesso Buffett «ribadiva il concetto non più che i ricchi questa guerra di classe la “stavano vincendo” ma che “l’avevano già vinta”». Una lotta dunque conclusa con successo e vinta non dal basso ma dall’alto[7], il cui inizio si può collocare, grosso modo, circa cinquant’anni fa.

 Ancora nella strettissima attualità abbiamo conosciuto anche altre gravi problematiche, come la pandemia[8] e la guerra, le tante disumane guerre combattute nel mondo senza nessuna interruzione dalla fine della seconda guerra mondiale, oggi anche in Europa che sembrava ormai al riparo da tale tragica sciagura[9].

Sul tema della pandemia giustamente si chiede, e ci chiede, la Pennacchi «Dalla pandemia insorge una domanda: ha senso interrogarsi sull’eticità del capitalismo? …L’interrogazione sul capitalismo è anche un’auto-interrogazione che aveva già preso vita nei mesi precedenti all’arrivo del coronavirus. Nell’agosto 2019, l’America’s Business Roundtable (associazione dei Ceo delle più grandi e potenti corporations americane) aveva lanciato sul “Washington Post” un manifesto proclamante l’abbandono della teoria della shareholders value (il primato della massimizzazione del valore per l’azionista, cardine del neoliberismo) e mercoledì 18 settembre 2019 il “Financial Times” aveva intitolato così a tutta pagina la sua copertina: Capitalism. Time for a Reset. Nel gennaio del 2020, il Forum di Davos aveva inneggiato al “mai più profitti senza etica” e celebrato una narrazione per cui i problemi ambientali e sociali, con in testa quello della diseguaglianza, li avrebbero affrontati e risolti i capitali privati. A esplosione della pandemia acclarata, il “Financial Times”, che già di fronte alla crisi globale del 2007/2008 aveva dedicato una propria rubrica alla “crisi del capitalismo”, intitola l’editoriale del 29 marzo 2020 Virus puts responsible capitalism to the test»[10].

Liberalismo inclusivo

Per gli autori del libro: il liberalismo inclusivo[11] è l’unico esito auspicabile e possibile del capitalismo, sistema che accettano, ma che, al tempo stesso, ritengono ingiusto e insostenibile per questo da riformare interamente. Infatti loro intendono rimanere all’interno del liberalismo, lo dichiarano esplicitamente, nell’introduzione affermano chiaramente che il loro intento è di non voler fondere liberalismo e socialdemocrazia: «L’espressione ‘liberalismo inclusivo’ si riferisce … al compromesso fra aspetti socialisti e liberali, visto però dall’interno del pensiero liberale»[12]. Per Karl Polanyi[13] il mercato capitalistico, senza un intervento attivo, serio e lungimirante della politica e dello stato, non è in grado di “tenere insieme” la società. Infatti la lezione più importante che ci ha lasciato fu la grande intuizione di comprendere quanto il dominio dell’ideologia economica neoliberale potesse danneggiare le relazioni sia con la natura, sia fra gli uomini. Guardando le idee di Polanyi insieme alle teorie economiche di Keynes, suo contemporaneo, entrambi sono da considerare ispiratori e grandi progenitori delle tesi sviluppate nel testo liberalismo inclusivo. Keynes, in particolare, aveva come obiettivo fondamentale, più volte dichiarato nei suoi pregevoli scritti, quello di assicurare il benessere delle grandi masse della popolazione, cosa possibile anche restando nel contesto di un’economia di mercato e di uno stato liberale. Il suo obiettivo era quello di coniugare i diritti individuali e le regole costituzionali di uno stato di diritto -della rule of law- con il benessere diffuso. Soddisfare i progetti di vita di una gran massa di persone era possibile all’interno di un’economia di mercato, di un’economia capitalistica ma tenuta costantemente sotto controllo attraverso una continua e opportuna regolamentazione. Si tratta di una interessante corrente del pensiero liberale, definita come embedded liberalism (liberalismo inclusivo) che si oppone e vuole superare il “liberalismo senza vincoli” (unfettered), che caratterizza il neoliberismo, Dilmore e Salvati cosi lo definiscono: «quell’assetto politico, economico e sociale che riteniamo sia desiderabile, sia realistico e dunque obiettivo di una battaglia politica che può essere combattuta con la ragionevole aspettativa di essere vinta». Quindi abbiamo «l’aspirazione a tenere strettamente uniti gli aspetti più desiderabili di una concezione liberale e di una socialista»[14]. Comunque notiamo che, nelle considerazioni degli autori, sembra quasi che l’unfettered liberalism non abbia avuto padri[15]. Sono stati, invece, evidentemente gli imprenditori, con le grandi capacità delle loro organizzazioni confindustriali di influenza dell’opinione pubblica, e la finanza, in particolare con i suoi collegamenti internazionali, ad imporre ai governi occidentali la svolta verso politiche che hanno finito per abbattere la quota dei salari sul reddito nazionale e divaricato le retribuzioni fra top incomes (redditi superiori) e redditi dei lavoratori low-skill (a bassa specializzazione) precipitati verso la povertà, anche in periodi di grande crescita economica[16]. Questo modello ha preso forma a partire da quella che è stata chiamata «la rivoluzione dello Stato minimo»[17] messa in pratica a partire, dalla fine degli anni settanta del secolo scorso, con l’insediamento di Margareth Thatcher, come primo ministro inglese, e di Ronald Reagan come presidente degli Stati Uniti d’America[18].

Due sono i principi fondamentali che lo hanno animato. Il primo, di carattere negativo: l’affermazione, perentoria quanto molto arbitraria, che «lo Stato sociale che si fa carico degli individui dalla culla alla bara non si discosta molto dal Grande Fratello di Orwell»[19]. Il secondo di carattere positivo: se gli imprenditori pagheranno meno imposte, la crescita sarà assai più vigorosa e la ricchezza, come una goccia, scenderà dal vertice della gerarchia economico-sociale fino agli strati più bassi della popolazione. Stato minimo, quindi, per i teorici neoliberisti, significa assoluto rifiuto delle politiche di welfare tese a massimizzare il valore dell’uguaglianza e drastica riduzione della pressione fiscale onde garantire la più alta efficienza. E, in effetti, mentre nel 1981 il Governo federale statunitense prelevava sino al 75 per cento dei redditi più elevati, a partire dal 1989 l’aliquota massima è passata al 33 per cento. Con il risultato che nel 2004 l’1 per cento più ricco degli Stati Uniti percepiva il 16 per cento del reddito totale nazionale, cioè il doppio di quello che percepiva nel 1980[20].  Quindi «l’ordine neoliberista ha avuto innanzitutto una dimensione interna: ha scardinato il modello economico e sociale noto come embedded capitalism (un capitalismo sottoposto a regole e affiancato da politiche sociali) attraverso strategie di deregolazione e abolizione delle barriere alla concorrenza e al libero movimento dei capitali. In questo modo si è ribaltato il rapporto fra mercato e democrazia: quest’ultima ha dovuto rispettare i crescenti vincoli del capitalismo e diventare «conforme al mercato», anche quando creatore di diseguaglianze inique e ingiutificabili.

Come hanno mostrato i lavori di Branko Milanovic e Thomas Piketty, l’ultimo cinquantennio ha assistito ad una crescita senza precedenti della polarizzazione fra i redditi. La dimensione esterna dell’ordine neoliberista ha invece prescritto lo smantellamento delle barriere al commercio, promuovendo una globalizzazione «spinta» dei mercati»[21]. Ci troviamo di fronte ad una situazione dove i più ricchi hanno «un reddito sempre maggiore, [questi sono riusciti a raccogliere] i frutti della globalizzazione e [hanno accumulato] una ricchezza senza precedenti, gli americani piú fortunati hanno visto scendere le proprie aliquote fiscali. Per i lavoratori, nel frattempo, i salari rimanevano fermi, le condizioni di lavoro peggioravano, i debiti si gonfiavano e le tasse diventavano piú salate. Dal 1980 in poi, il sistema fiscale statunitense arricchisce i vincitori dell’economia di mercato e impoverisce quelli che dalla crescita economica traggono ben pochi benefici»[22].  Purtroppo i ceti conservatori, responsabili, vengono chiamati in causa troppo poco al confronto delle loro gravi responsabilità, soltanto nei capitoli conclusivi del libro, nei quali si delinea la costruzione del “liberalismo inclusivo”. Salvati e Dilmore si dichiarano giustamente a favore di politiche anti-trust e di accordi internazionali che riducano l’attrazione degli operatori finanziari per i “paradisi fiscali”. Al contempo, però, gli autori consigliano ai partiti progressisti europei di non elaborare programmi e proposte di politica economica troppo “avanzate”, a cominciare dalla tassazione della ricchezza e delle alte tassazioni progressive sulle successioni. Le proposte di Piketty vengono respinte: agli autori appare infatti «sorprendente» il progressista e troppo socialista «disdegno di Piketty» per «le ripercussioni» di una riforma dei diritti di proprietà[23]. Pur riconoscendo che oggigiorno «la mobilità sociale si è indubbiamente ridotta»[24], gli autori ritengono improponibile una riedizione della democrazia economica dei Trente Glorieuses. Delle domande sorgono in modo spontaneo: dov’è il carattere inclusivo di questa versione di liberalismo? Forse il nuovo Leviatano da cui dobbiamo difenderci non è lo Stato, ma piuttosto il capitalismo selvaggio, il neoliberismo ancora tutto da superare? In queste considerazioni non si mette bene in evidenza che l’«accrescimento delle diseguaglianze» sia dovuto alla globalizzazione che ha divaricato la diseguaglianza fra Nord e Sud del mondo (a beneficio delle élite dei paesi avanzati), e che l’incontrollato impatto del progresso tecnico su posti di lavoro e salario, siano chiaramente il frutto dei poteri economici del liberalismo senza limiti (unfettered). Riusciamo a percepire come la predominanza di questo modello culturale di origine occidentale, basato su società industriali e post-industriali, tecnologicamente avanzate sostanzialmente ispirate solo a principi economicistici e consumistici all’interno di una rete commerciale di portata globale, impedisca ormai una visione corretta della realtà. Questa visione ormai predominante accredita, infatti, l’idea che il “sistema” in cui viviamo sia costituito da sole relazioni economiche e produttive, non considerando il fatto, reale, che esso rappresenti invece un sottosistema rispetto all’ecosistema globale[25].

 Beck descrive con puntualità questo tipo di meccanismo: «Con globalismo indico il punto di vista secondo cui il mercato mondiale rimuove o sostituisce l’azione politica, vale a dire l’ideologia del dominio del mercato mondiale, l’ideologia del neoliberismo. Essa procede in maniera monocausale, economicistica, riduce la multidimensionalità della globalizzazione ad una sola dimensione (quella economica, a sua volta pensata in maniera lineare) e considera tutte le altre dimensioni – globalizzazione ecologica, culturale, politica, civile – se pure lo fa, solo subordinandole al predominio del sistema del mercato mondiale»[26]. Evidente che il neoliberismo tende ad annullare le differenze tra politica ed economia. L’agire economico si libera dai vincoli, dai controlli giuridici democratici, sociali ed ecologici che la politica dovrebbe fissare.

  Certamente una fondamentale corrente del pensiero socialista democratico, quella riformista o liberale nelle varie declinazioni, con una grande tradizione risalente alla prima metà del secolo scorso ci sembra molto più progressista, pur arrivando alle stesse conclusioni del liberalismo inclusivo, ma con maggiore speranza di una effettiva uguaglianza tra le persone, con evidenti e molto più coraggiosi propositi di uguaglianza e redistribuzione della ricchezza. Tra gli esempi fondamentali del socialismo liberale abbiamo il pensiero di Carlo Rosselli che riteneva il socialismo un grande ideale, l’ideale dell’effettiva attuazione «progressiva dell’idea di libertà e di giustizia tra gli uomini … sforzo progressivo di assicurare a tutti gli uomini una grande possibilità di vivere la vita che solo è degna di questo nome sottraendola alla schiavitù della materia e dei materiali bisogni che oggi ancora domina il maggior numero»[27]. Per Rosselli esiste un collegamento necessario tra socialismo e liberalismo ma resta fondamentale il fatto che l’ideale della libertà deve essere per tutti, con la giustizia sociale diffusa, non solo per pochi privilegiati.  Molto più progressista rispetto agli attuali sostenitori del liberalismo inclusivo ci sembra anche il liberalsocialismo di Guido Calogero. Egli si oppose al liberalismo classico, della mano invisibile, con la proposta di un liberalismo etico che metteva la libertà «quale civile forma di vita, quale struttura della convivenza da difendere e perfezionare». Il suo socialismo etico era «un programma morale d’azione proiettato sui problemi della convivenza … [prospettava] un maggiore equilibrio nelle libertà d’uso di certi beni e una più giusta equazione delle possibilità di soddisfarsi riservate ad ogni individuo nel seno della comunità», con gli ideali di libertà e di giustizia sociale che «si presuppongono a vicenda e ciascuno trova nell’altro il suo completo correttivo». Concludeva che: «C’è piuttosto un'unica verità del liberalsocialismo»[28] la giusta definizione ideale per integrare l’ideale di libertà con l’ideale di giustizia sociale. Sulla stessa linea ideale troviamo il pensiero di Norberto Bobbio che considera come nel «concetto di persona, cioè di individuo socialmente atteggiato, la giustizia soddisfa la sua profonda esigenza di essere sintesi di individualità e società»[29].  Proponendo infine che «tra lo stato liberale e lo stato socialista vi è una forma intermedia di stato che è sintesi dell’uno e dell’altro: lo stato democratico»[30]. In tutto il suo percorso intellettuale Bobbio sarà sostenitore del socialismo liberale, della democrazia[31], dei diritti umani fondamentali[32] e della necessita della giustizia sociale, per il persistere «… delle scandalose disuguaglianze delle società capitalistiche, non solo al loro interno, ma anche nei rapporti tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo»[33].

Di fondamentale importanza è la leva educativa; che deve essere considerata, giustamente, come la risorsa insostituibile per l’equo sviluppo dell’umanità. Interessante il fatto che, sempre più, le coscienze illuminate sostengano che sia necessario investire in educazione, istruzione e formazione, ponendo attenzione al tempo stesso alle politiche attive per il lavoro. Condivisibile l’importante riflessione sulla necessità che gli scenari del lavoro futuri impongono in qualche modo investimenti nell’educazione che non possono prescindere da alcuni obiettivi, ad esempio l’innalzamento dell’obbligo scolastico a 18 anni (come alcuni governi del Nord Europa stanno già facendo, si veda la Finlandia) ed investimenti in formazione continua diretta a persone di tutte le età. Il tema dell’istruzione, insomma, è una delle leve fondamentali del liberalismo inclusivo, perché ritornando a promuovere la mobilità sociale, può diventare uno dei fattori di ridistribuzione del reddito e di contrasto alle disuguaglianze sociali, e in fondo il vero sostegno alla tenuta della democrazia. In questa prospettiva la lotta per un ambiente migliore si innesta nella lotta contro le disuguaglianze e nella rinata fiducia nell’investimento in educazione[34]. Ormai ci sembra, sempre più, evidente che sono necessari cittadini preparati e professionisti in grado di affrontare con nuove capacità immaginative le complesse sfide che ci sono poste dalle attuali drammatiche crisi globali e in grado di sperimentare nuovi mondi possibili, per affrontare le drammatiche crisi globali del mondo contemporaneo.

 Sempre indispensabile è il richiamo ai movimenti politici progressisti per gli ideali di un futuro sostenibile che accolga la pluralità e l'interconnessione nei diversi piani, sociale, ecologico e tecnologico. Questi movimenti progressisti attaccano le tesi prettamente liberiste ritenendole falsamente scientifiche anche se sono state egemoni nella cultura occidentale degli ultimi decenni[35], interessante il loro esplicito riferimento alla teoria dell’egemonia culturale di Gramsci[36]. Non ci sono dubbi che in ogni epoca storica si producono discorsi e ideologie che non fanno altro che legittimare la disuguaglianza esistente e chi detiene il potere non fa altro che cercare di descriverla come una cosa naturale[37].

Negli ultimi 40 anni abbiamo avuto «il trionfo dell’ideologia meritocratica [che] porta inesorabilmente alla sua conclusione logica, vale a dire allo smantellamento delle norme previdenziali, di quella assicurazione collettiva contro le disgrazie individuali, oppure alla riformulazione di tali norme - un tempo considerate un indiscriminato obbligo di confraternita e un diritto universale - in un atto di elemosina concessa da chi ne ha voglia a chi ne ha bisogno»[38]. Quindi le regole economiche, sociali e politiche che strutturano l'insieme delle società sono costruite dalle classi al potere per giustificare e implementare, quanto più possibile, i loro privilegi. Piketty spiega che, il mercato e la concorrenza, profitti e salari, capitale e debito, lavoratori qualificati e non qualificati, lavoratori locali e stranieri, i paradisi fiscali e la competitività, non esistono in quanto tali. Esse sono costruzioni sociali e storiche che dipendono interamente dal sistema giuridico, fiscale, politico, educativo e sociale prescelto dalle classi al potere e dalle categorie di pensiero e giustificative che si decidono di adottare. Da quando esiste l’agricoltura e non siamo più cacciatori-raccoglitori, ogni società umana non fa altro che giustificare le sue disuguaglianze: bisogna trovarne le ragioni, altrimenti l’intero edificio politico e sociale rischia inesorabilmente di crollare. Ogni epoca produce quindi discorsi e ideologie che non fanno altro che legittimare la disuguaglianza esistente e chi detiene il potere non fa altro che cercare di descriverla come una cosa naturale[39]. Quindi le regole economiche, sociali e politiche che strutturano l’insieme delle società sono costruite dalle classi al potere per giustificare e implementare, quanto più possibile, i loro privilegi[40], questo è accaduto in tutte le epoche storiche.

Lo studioso cattolico Ermanno Gorrieri[41] dichiara con grande semplicità che «la povertà economica, sia relativa che assoluta (...), altro non è che l’aspetto più grave e intollerabile di un fenomeno più generale: la disuguaglianza»[42]. La povertà, anche per importanti esponenti del mondo cattolico, e in generale le diverse forme di diseguaglianza sociale, sono i prodotti del funzionamento di un determinato modello sociale, non sono semplicemente il frutto delle distonie o inefficienze nei suoi processi regolativi. In fondo i meccanismi economici, politici, sociali e culturali, che generano la povertà per alcuni individui o gruppi, sono gli stessi che producono benessere e integrazione per altri[43].

 Nella globalizzata interconnessa realtà odierna, analizzando il ruolo del diritto, in particolare nei sistemi di Common law anglosassone che sempre più influenza il diritto applicato nella stragrande maggioranza delle nazioni la studiosa Katarina Pistor sostiene che per «i capitalisti globali questo è il migliore dei mondi possibili, perché consente loro di scegliere le leggi che più li favoriscono senza dover investire nella politica per volgere le leggi a proprio vantaggio. … L’impero della legge … [è composto] da una serie di leggi domestiche selezionate, intessute assieme da regole, come il diritto internazionale privato»,[44] che permette a queste leggi di essere riconosciute e applicate in tutto il mondo[45]. Infatti: «il diritto civile statunitense si è imposto in tutto il mondo e tutti i vari trattati di commercio vengono negoziati e firmati solo in cambio dell’applicazione del diritto statunitense alle controversie … [Esso]finisce per plasmare la concezione e l’amministrazione della giustizia in tutto il mondo: cambia il nostro diritto senza che ce ne siamo accorti»[46]. Tutto questo comporta che il commercio e la finanza possano prosperare ovunque senza, spesso, tenere in considerazione e rispettare le leggi dei vari stati nazionali, dove i commerci e gli scambi finanziari vanno ad incidere. Ormai gli interessi delle classi dominanti non hanno bisogno «di piegare la mano dello stato» per ottenere le migliori protezioni legali, tutto ciò che serve loro sono buoni avvocati in grado di padroneggiare alla lettera il diritto del capitale, con gli esperti, cioè gli avvocati degli studi legali, che scelgono, indisturbati, la legge che maggiormente avvantaggia i loro ricchi clienti. Un esempio su tutti, persino in ambito dell’Unione Europea[47], qualsiasi società privata può scegliere lo stato dove pagare le tasse: tutti i maggiori gruppi industriali e multinazionali scelgono il sistema fiscale più conveniente. Il tutto senza nessuna considerazione per le infrastrutture, delle quali usufruiscono, o dei finanziamenti nazionali ai quali in ogni occasione attingono, che sono pagati dalla fiscalità generale dello stato dove operano, producono o vendono le loro merci.  Senza che ci sia nessun vantaggio per lo stato, e i suoi cittadini, ma, soprattutto, senza nessuna remora da parte del capitalista e imprenditore, di turno che approfitta di queste leggi, o regolamenti, che gli permettono di fare quello che più gli conviene, a danno e costi, della collettività generale, quindi della maggioranza della popolazione[48].

Giustificazione delle ingiuste disuguaglianze e crisi della democrazia.

Piketty, analizzando l’ideologia meritocratica, riassume, criticandolo, tutto lo storytelling della narrativa su cui si basa il neoliberismo: la disuguaglianza moderna è giusta, perché deriva da un processo liberamente accettato dove ognuno ha pari opportunità di accesso al mercato e alla proprietà, e dove tutti beneficiano spontaneamente dell'accumulazione dei più ricchi, che sono anche i più intraprendenti, i più meritevoli e i più utili[49]. Ma ancora in modo più preciso mette in evidenza che: «Sotto la copertura del “merito” e delle “capacità” personali, vengono in realtà perpetrati i privilegi sociali, perché i gruppi svantaggiati non hanno i codici e la strumentazione dialettica con cui viene riconosciuto il merito. La popolazione studentesca è aumentata moltissimo … Ma la classe operaia ne resta quasi completamente esclusa»[50], il riferimento è fatto prendendo spunto dalle statistiche, pressoché identiche in tutti gli stati occidentali, dove meno dell’1 % per cento dei figli dei braccianti agricoli accede all’istruzione universitaria, al confronto del 70% per cento dei figli degli industriali e all’80% dei figli dei professionisti. Insomma il «privilegio culturale e simbolico è più subdolo, perché si presenta come il risultato di un processo liberamente scelto in cui tutti, teoricamente, hanno le stesse possibilità».[51] È evidente che una società che voglia essere efficiente deve premiare “i capaci e meritevoli” per ottenere un vantaggio importante ed effettivo per tutti: ovviamente siamo concordi che è meglio essere curati da un bravo medico che da un medico impreparato o, addirittura, da chi fa un qualsiasi altro lavoro e ha altre specializzazioni. Ma il merito è qualcosa che riguarda la giustizia e l’efficienza. La scomposizione del merito, che è relativo e molteplice, deve poter permettere a ciascuno di avere un proprio ambito in cui può segnalarsi socialmente, senza appiattire tutto a una dimensione che inevitabilmente condanna la maggioranza delle persone alla mediocrità. La distinzione fra il meritarsi una posizione e la retribuzione ad essa associata oltre una certa soglia può non essere meritata, come nel caso dei super manager o di alcuni sportivi professionisti pagati in modo eccessivo da ogni punto di vista lo si voglia vedere. Bisogna evitare tutti gli eccessi ingiustificabili nelle disuguaglianze di reddito e ricchezza[52]. In qualche misura è come se si desse ormai come assodata l’evidenza delle diseguaglianze sulla base di una cospicua letteratura, ormai esistente, e si prova ad allargare il ragionamento, partendo dall’economia, per arrivare alla sfera sociale ed all’azione politica. Considerando inconfutabilmente e   senza nessuna ombra di dubbio che «l’interesse primario e più urgente dei magnati [è] quello di ridurre le tasse ai magnati stessi»[53]. Ma non dobbiamo più farci ingannare dagli oligarchi super ricchi e dai magnati della finanza, sempre più propensi ad arricchire e non pensare minimamente alle condizioni di vita del 99 per cento della popolazione del mondo, sempre più povera[54].

Sull’argomento il grande sociologo francese Pierre Bordieu, critico severissimo del neoliberismo e della sua ideologia utilizza parole sprezzanti, che non ammettono appello: « il neo-liberismo è l’utopia dello sfruttamento senza limiti ed è in corso di realizzazione mediante la distruzione di tutte le strutture collettive capaci di ostacolare la logica del mercato puro»[55], egli continua dichiarando che si tratta di «Una logica che tende a distruggere la "mano sinistra dello stato", ovvero quanti lavorano nel sociale, nell’educazione, nel welfare. Settori che il neoliberismo puro ritiene inutili. Assolutamente inutili»[56].

Mauro Gallegati in una serrata critica del modello economico della teoria ortodossa, arriva a smascherare gli inconsistenti, non scientifici, presupposti teorici dell’approccio neoliberista: «L’economia mainstream pone al centro della sua indagine un individuo astratto, un atomo isolato, che esiste a parte degli altri e agisce indipendentemente da questi … L’ipotesi del massimo-minimo (costo e utilità) deriva dalla fisica classica ed è funzionale solo a ridurre il comportamento degli agenti a quello – senza strategie o apprendimento – degli atomi. L’uso di un espediente analitico debole e fuorviante come l’’agente rappresentativo’ ha permesso di trasformare una scienza sociale come l’economia in una quantitativa»[57]. Considera inoltre che «la fisica classica crede nel principio olistico che il comportamento aggregato dei mercati può essere ricondotto a quello delle componenti elementari … nelle scienze sociali la questione è più complicata: il tipo di teoria economica che è noto al partecipante nell’economia ha un effetto sull’economia»[58]. Il modello di EEG[59] presume che le domande e le offerte siano poste in equilibrio grazie alla “mano invisibile” dei movimenti dei prezzi. Ma nella effettiva realtà dei mercati, inesorabilmente, il sistema economico non converge per nulla all’equilibrio attraverso la flessibilità dei prezzi. Un’eterogenea moltitudine di agenti produce movimenti che non sono convergenti ma erratici, perché dovuti a una complessa dinamica endogena, invece che alla reazione “razionale di agenti con capacità previsiva infinita” a fenomeni o politiche esogene. I limiti dell’analisi di EEG discendono dall’avere ipotizzato la reciproca autonomia fra gli agenti, invece della loro reale interconnessione, dalla quale dovrebbe aversi un’analisi più verosimile e convincente del mercato.

Il neoliberismo (unfettered liberalism) ha ispirato i due punti fondamentali del “paradigma dominante”: Il primo l’”austerità” a tutti i costi, avviata negli anni ’80 e ‘90 con la deregolamentazione del mercato del lavoro e il ridimensionamento del Welfare, e sfociata nell’idea che la ripresa dopo la crisi finanziaria – nonostante non lo Stato ma le banche l’avessero prodotta – avrebbe dovuto consistere nel taglio della spesa pubblica (secondo la teoria dell’”austerità espansiva”, al contrario di quanto pensava Keynes, occorre meno – non più – intervento pubblico). Il secondo, la teoria, che a molti è sembrata molto improbabile fin da quando fu enunciata, dello “sgocciolamento” (il trickle-down): un abbassamento della tassazione, che nell’avvantaggiare i ricchi, accelera l’attività di investimento, producendo una crescita del PIL che, nello “sgocciolare” verso tutti i membri della società, riduce le diseguaglianze. Registriamo che i due esiti “di successo” previsti non si sono verificati, in nessuna parte del mondo. Nei fatti: una volta che ancora più austerità è stata messa al servizio dello “sgocciolamento”, la crisi si è enormemente e inesorabilmente aggravata, con gravi esiti sulla vita delle persone. Infatti, come era purtroppo evidente che sarebbe accaduto, abbiamo il fenomeno che Luttwak ha chiamato il «turbo capitalismo»[60], esso ha generato una incredibile ridistribuzione della ricchezza che ha portato l’ineguaglianza a livelli di gran lunga più elevati rispetto a qualsiasi altra nazione del mondo progredito, il riferimento è agli Stati Uniti[61]. E ha altresì generato una nuova classe sociale: i working poors (poveri lavoratori), i quali, con la loro sempre più diffusa presenza, hanno smentito il teorema fondamentale del neoliberismo, secondo il quale «la migliore garanzia contro tutti gli sfruttamenti è il mercato»[62]; e hanno altresì completamente screditato la comoda teoria della goccia.

 Purtroppo dal 1980 ad oggi il paradigma neoliberista ha fatto crescere, inesorabilmente, ed in modo enorme «una massa di sottoproletariato di cui il sistema produttivo non ha alcun bisogno»[63]. Ancor di più, queste persone vivono in un sistema di «criminalità violenta, uso di droga, disoccupazione, analfabetismo e disgregazione familiare»[64].  Con il grave risultato che, fra 1980 e il 2005, il numero dei detenuti nelle prigioni americane è passato da 500 mila a due milioni. Questi incredibili dati ci dimostrano l’iniquità del paradigma neoliberista, ma anche la sua intrinseca irrazionalità. Infatti, le risorse che lo Stato avrebbe potuto impiegare per ridurre l’area del degrado sociale sono state destinare alla gestione di un universo carcerario di proporzioni abnormi.

Analizziamo la società nord-americana perché su di essa il neoliberismo ha agito in modo quasi totalizzante, infatti sembra essere regolata dal principio secondo il quale «i tentativi dei governi di interferire con le operazioni dei mercati riducono la qualità della vita e della libertà»[65]. Troviamo negli USA il sistema sanitario, basato sul rifiuto totale e ostinato del welfare state di tipo europeo e socialdemocratico. La sua ingiusta iniquità è di una evidenza inoppugnabile: ben 45 milioni di cittadini sono privi di assistenza sanitaria, a questi dobbiamo aggiungere e tenere presenti anche altri milioni di immigrati clandestini, che tutti insieme non avendo il denaro per stipulare una polizza di assicurazione sanitaria restano senza nessuna assistenza e possibilità di cura. Un sistema del tutto irrazionale, ingiusto e iniquo. Questa irrazionalità è stata documentata da uno studio comparato del sistema sanitario americano con quello canadese, dal quale risulta che «negli Stati Uniti i costi amministrativi complessivi – includendo, cioè, sia i costi amministrativi delle compagnie assicurative sia i costi amministrativi dei fornitori di servizi sanitari – rappresentano il 31 per cento della spesa sanitaria, contro una percentuale del 17 per cento in Canada. In termini monetari, questa differenza corrisponde a 300 miliardi di dollari in più, vale a dire a un terzo della differenza nella spesa sanitaria fra Stati Uniti e Canada»[66].

Amartya Sen, da tempo, mette inoltre in evidenza che «vi sia fame in un Paese così ricco come gli Stati Uniti»[67], dove anche se i gruppi sociali più poveri tendono ad avere redditi maggiori di quelli delle classi medie dei Paesi in via di sviluppo, larghi strati della popolazione statunitense deve far ricorso all’assistenza pubblica o alle associazioni private per non soffrire la fame. Ma a volte la realtà è sorprendente perchè in un sistema di mercato ricco e autoregolato, gruppi sociali più o meno ampi si trovano a dover soffrire, come ampliamente dimostrato, addirittura la privazione alimentare, la fame[68]. Lo sviluppo tecnologico, altamente positivo nel lungo periodo, comporta spesso, nel breve periodo, gravi costi umani, che si scaricano, inesorabilmente, su tutti coloro che vengono espulsi dal processo produttivo.

 Il periodico sconvolgimento della struttura della popolazione attiva è accompagnato, inevitabilmente, da licenziamenti, declassamento, totale sradicamento: tutti fenomeni che non possono non generare «ingiustizie intollerabili»[69]. Sappiamo che la crescita economica della ricchezza, alimentata dalla crescita della produttività del lavoro, fa nascere nuove domande e quindi nuovi posti di lavoro. Per ottenere questo ci sono periodi di tempo che passano inesorabilmente sulla vita delle persone. In questo periodo le vittime del progresso, cioè tutti coloro che le nuove tecnologie rendono “superflui”, sono abbandonati al loro destino. E questo nel bel mezzo della più grande opulenza mai registrata nella storia dell’umanità. Tutto questo ci fa pensare che la realtà smentisce clamorosamente l’idea cardinale dell’ideologia neoliberista, e cioè che il mercato autoregolato garantisce l’uso razionale delle risorse scarse. Smentisce altresì l’idea secondo la quale il mercato autoregolato garantisce anche «l’armonia degli interessi rettamente intesi di tutti i gruppi e gli individui della società»[70].

 Da quanto abbiamo visto risulta evidente che «il capitalismo è miope, e non è capace di effettuare quegli investimenti sociali di lungo periodo nell‘istruzione, nelle infrastrutture, nella ricerca e nello sviluppo di cui avrebbe bisogno per la sua stessa sopravvivenza. Per fare questi investimenti ha bisogno dell’aiuto del Governo, ma la sua ideologia gli impedisce sia di riconoscerne la necessità, sia di chiedere questo aiuto»[71].

Rifkin partendo da queste considerazioni ha criticato duramente il «sogno americano» perché è «troppo centrato sul progresso materiale personale e troppo poco preoccupato del benessere generale dell’umanità per continuare ad avere fascino e importanza per un mondo caratterizzato dal rischio, dalla diversità e dalla interdipendenza; è diventato un sogno vecchio, intriso di una mentalità legata a una frontiera che è stata chiusa tanto tempo fa»[72]. Infatti, Rifkin ha elogiato la socialdemocrazia per il fatto che essa, con la sua azione riformatrice, è riuscita «a creare la più umana forma di capitalismo finora conosciuta»[73]. La socialdemocrazia è riuscita a migliorare il capitalismo perché non ha dimenticato l’idea che la società non è solo il luogo in cui si svolge il gioco economico degli scambi; ma è soprattutto una “comunità morale” nella quale, come ha sostenuto John Rawls tutti i suoi membri «hanno in comune un senso di giustizia, e sono legati dalla fratellanza civica»[74] e dalla condivisione di «uno scopo finale»[75].

Il socialista italiano Giorgio Ruffolo ripeteva spesso: «I socialisti dicono sì all’economia di mercato; no alla società di mercato». Perché i socialisti non ritengono che il mercato debba essere il solo ed esclusivo regolatore delle relazioni fra i cittadini e sottolineano la necessità di esercitare sempre il principio di solidarietà. Un principio così estraneo alla cultura neoliberista che Hayek non ha avuto esitazione alcuna a sentenziare che la giustizia sociale è «un fuoco fatuo che porta gli uomini ad abbandonare i valori che in passato hanno permesso lo sviluppo della civiltà»[76] e che «il Governo assistenziale che mira alla giustizia sociale …riconduce di necessità al socialismo e ai suoi metodi coercitivi ed essenzialmente arbitrari»[77].

 Negli ultimi anni Boitani mette bene in evidenza che il teorema della ‘mano invisibile’ assolutamente «ignora la distribuzione del reddito e della ricchezza cui gli esiti di mercato danno luogo»[78], inoltre dichiara che «siamo proprio sicuri che il “mercato del lavoro”, lasciato a se stesso, sia il regno della libertà per tutti in ogni luogo e in ogni tempo»[79]. Il prezzo altissimo della “svolta neoliberista” è che la diseguaglianza, non venendo combattuta, inesorabilmente si aggrava: «Tanto maggiore la diseguaglianza … tanto più alto è il rischio … di cadere nella povertà assoluta»[80].  Ecco perché le disuguaglianze di reddito sono aumentate, anche, in tutti i paesi avanzati e sono un problema centrale del capitalismo di oggi, nella attuale inesorabile e feroce versione neoliberista. Perché in qualsiasi modo la pensiamo, dobbiamo convenire con questa bella definizione delle conseguenze del neoliberismo: «Comunque le si valuti, le teorie neoliberiste compromettono istruzione, salute, aumentano disuguaglianze e riducono le quote di reddito destinate ai lavoratori; di tali effetti non è possibile dubitare»[81].  Oggi più che mai abbiamo «bisogno di “politica” nel senso forte del termine, perché solo così possiamo promuovere quella cultura comune, quel modo condiviso di rapportarsi alla sfera della convivenza entro uno stesso spazio pubblico (idem sentire de re publica) senza il quale non si costruisce quella che è la base di ogni aggregazione politica … è la tensione verso il conseguimento del bene comune»[82].  Il liberalismo inclusivo[83] è caratterizzato, nelle intenzioni dei vari autori che lo propongono, da istituzioni che promuovono non solo mercati liberi ed economie aperte, ma anche politiche sociali atte al raggiungimento della piena occupazione, la ricerca della stabilizzazione del ciclo economico, una distribuzione più equa dei redditi e delle ricchezze, un’adeguata protezione sociale per tutti i cittadini e, più di recente, azioni concrete volte ad affrontare le più recenti sfide globali come il cambiamento climatico e le pandemie.

Il fondamentalismo di mercato, che domina incontrastato l’attuale sistema economico, invece, pur consentendo alle istituzioni di un paese di perseguire su scala molto, veramente molto, ridotta alcuni di questi obiettivi (per esempio una protezione sociale limitata per i gruppi sociali più deboli), sostiene che spetti essenzialmente al mercato fornire una risposta, con il minimo possibile di interferenza da parte dello stato e dei corpi intermedi. Ma nella realtà le trasformazioni in corso, in particolare, la globalizzazione del potere finanziario ha indebolito, e in molti casi ha ridotto al collasso, la sovranità e, soprattutto, le risorse a disposizione degli Stati nazionali, anche occidentali, che, di conseguenza, non sono più stati in grado di garantire protezione sociale e sicurezza ai rispettivi cittadini. Il discorso diventa ancora più difficile in situazioni come in tutte quelle nazioni in via di sviluppo, dove una lontana parvenza di stato sociale non è mai, concretamente, esistita. Infatti, anche in molte di queste nazioni, il mercato concentra la ricchezza nelle mani di poche persone, nella maggioranza dei casi abbiamo una esigua minoranza che detiene il potere economico e quello politico. Tutto questo accade perché l’idea di capitalismo viene sempre esportata nella versione ultraliberista, cioè senza nessuna forma di controllo politico e nessun beneficio sociale[84]. Forse è questa la vera natura del capitalismo, lo stesso Adam Smith scriveva ne L’origine e la natura della ricchezza delle nazioni (1776) che: «…il potere dei numeri [la democrazia] mal si concilia con il potere della proprietà [capitalismo]».

 Il fondamentale tema della democrazia effettiva e della partecipazione popolare che sia in grado di incidere effettivamente sulle decisioni politiche si viene a caratterizzare da crescente preoccupazione e da una crescente regressione. Infatti nel mondo di questo inizio del terzo Millennio possiamo constatare con estrema facilità, purtroppo senza averne smentite, che la maggioranza dell’umanità non decide, bensì subisce le decisioni. Molte grandi nazioni non sono democratiche, come la Cina comunista, la Corea del Nord, l’Arabia Saudita e il Myanmar, in altre sono vigenti forme di “democrazie” piuttosto autoritarie, dove i mezzi di comunicazione di massa sono o dello stato o in mano di amici di chi detiene il potere, come in Russia e tantissimi stati africani e asiatici. Il fatto è che «Molti stati possono oggi essere definiti democratici, ma spesso la storia delle loro istituzioni politiche rivela quanto fragili e vulnerabili siano i meccanismi democratici. Del resto, la democrazia come forma di organizzazione della vita politica è un fenomeno abbastanza recente e l’idea stessa di democrazia ha una storia complessa e travagliata, caratterizzata da definizioni spesso tra loro in contrasto»[85]. Inoltre chi pensava che la caduta dell’Unione Sovietica e dei suoi paesi satelliti avrebbe liberato le forze democratiche in tutto il mondo oggi deve ricredersi, perchè assistiamo ad una crescita inesorabile, anno dopo anno, di sistemi che pur dichiarandosi democratici non garantiscono i principi più elementari dello Stato di diritto. In queste nazioni spesso le opposizioni sono ridotte al silenzio e in molti casi gli oppositori vengono incarcerati senza un giustificato motivo, oppure sono costretti ad espatriare. In molte nazioni registriamo la totale assenza di libertà di stampa, il monopolio assoluto dei mezzi di informazione da parte di chi detiene il potere, il controllo spasmodico dei social media, false campagne elettorali senza nessuna reale possibilità per le opposizioni di partecipare attivamente alla vita politica democratica e con la totale assenza di norme a tutela delle minoranze. Registriamo sempre più Stati nel mondo in cui le libertà fondamentali si riducono anziché ampliarsi ed avanzare, tanto che oggi la maggioranza degli abitanti del pianeta vive in paesi da considerare non pienamente liberi ed effettivamente democratici. La fonte è Freedom House[86], organizzazione statunitense che monitora lo stato della democrazia nei vari paesi del mondo. L’ultimo rapporto, che abbiamo a disposizione, segnala il 2021 come il sedicesimo anno consecutivo in cui complessivamente sono di più i paesi in cui i diritti politici e civili, per non considerare i diritti sociali, sono diminuiti di quelli in cui sono aumentati. I dati sono preoccupanti: la popolazione mondiale che vive in nazioni libere e realmente democratiche è passata dal poco meno del 40% al 20,3% nel giro di un decennio. Ma ad espandersi non sono forme politiche di dittatura considerate classiche[87] ma forme di “democrazia incompiuta”, nelle quali solo formalmente esistono libere elezioni e separazione dei poteri ma troviamo nella realtà che i poteri effettivi sono esercitati da un leader, un gruppo di potere, o da un partito con lo scopo ultimo di mantenere il potere e rendere ininfluente il dissenso. Queste forme di Stato ibride sono state definite in molti modi: semidemocrazie, democrazie virtuali, autoritarismi elettivi, democrazie autoritarie, autoritarismi soft. Con un termine nuovo sono state chiamate anche “democrature”[88], usando una crasi tra democrazia e dittatura, ma il termine più opportuno per definirle, per le caratteristiche di questi regimi, è autoritarismi.

 Il problema è che tra le nazioni che rischiano di ridurre le libertà democratiche viene considerata anche l’India dell’attuale primo ministro il fondamentalista indù Modi, che è considerata dall’indipendenza la democrazia più grande del mondo con il suo 1,4 miliardo di abitanti. Se anche l’India dovesse regredire dal punto di vista democratico ci troveremmo nella spiacevole situazione che i tre quarti di popolazione mondiale sarebbero in condizioni di deficit democratico. Ma il tema della attuale crisi della democrazia nasce da motivi economici, infatti «Se … la democrazia del mercato viene trasformata in una democrazia come mercato, l’idea di democrazia finisce di fatto per coprire il totalitarismo del mercato. Essa diventa una democrazia totalitaria frutto della coercizione, della militarizzazione della vita quotidiana e dell’accentramento. Ovunque la democrazia totalitaria ha all’origine una perdita o una trasformazione della cultura che ne prepara le basi e la democrazia totalitaria sembra essere il regime politico della tarda modernità»[89].

 Allo stato attuale, quindi, non tutto sembra dirigersi verso un trionfale mondo democratico e del benessere diffuso, come i teorici neoliberisti sostenevano. In particolare a partire dalla caduta del muro di Berlino (1989)[90], si va verso una società del rischio[91] e dei rischi, sempre più diffusi e pericolosi, dove anche le conquiste di civiltà (nel campo dei diritti umani, della partecipazione politica, delle condizioni sociali, della maggiore equidistribuzione dei redditi e dell’assistenza gratuita per i meno abbienti) sono messe fortemente in discussione[92]. In molte nazioni sviluppate sono stati smantellati, elusi, ridotti fondamentali diritti sociali. Importanti e recenti studi comparativi di storia economica dimostrano, inesorabilmente, che la «lezione complessiva della … ricerca è che il processo dinamico di un’economia di mercato e di proprietà privata, se abbandonato a se stesso, alimenta … potenti fattori di divergenza, potenzialmente minacciosi per le nostre società democratiche e per i valori di giustizia sociale sui quali esse si fondano»[93].

 In verità, le economie avanzate hanno già conosciuto una forma di liberalismo inclusivo, caratterizzato dall’affermazione dei diritti sociali, nel corso degli “anni gloriosi” (1945-1975), il periodo del cosiddetto “compromesso socialdemocratico”, negli anni in questione le politiche degli stati erano ispirate al benessere diffuso a tutti gli strati della popolazione. Periodi di fondamentalismo di mercato sono stati invece la Belle Epoque (1870-1914) e l’era neoliberista attuale (1980-2022). La possibilità di una nuova forma di liberalismo inclusivo discende dall’insostenibilità di quell’esperienza –il neoliberismo– che le democrazie liberali hanno vissuto tra l’inizio degli anni ’80 del secolo scorso e la crisi finanziaria del 2007-2008 e vivono tuttora. Come già avvenne nel periodo del compromesso socialdemocratico (dove per esempio i partiti democristiani o conservatori, in molti paesi europei, difesero gli interessi di gruppi sociali che non facevano parte del compromesso distributivo tra capitale e lavoro) o del periodo neoliberista (dove i partiti socialdemocratici cercarono di trovare soluzioni innovative alla flessibilizzazione[94] del mercato del lavoro: si pensi per esempio alla flexicurity danese)[95].  Il liberalismo inclusivo consente di identificare meglio nemici e avversari. I nemici sono coloro che negano la democrazia rappresentativa, la rule of law e i diritti fondamentali delle persone. Gli avversari sono coloro che credono sia possibile, con pochi aggiustamenti, continuare le politiche di non regolazione economica che

[1]  Si veda W. Staley, Un mondo pieno di miliardari, in “Internazionale”, n. 1460, del 16/05/2022, articolo dove viene descritta la situazione attuale: «Negli ultimi vent’anni il numero di persone con patrimoni enormi è aumentato in misura impressionante, rendendo l’intero pianeta un posto più disuguale», p. 50, continua «Oggi il processo è diventato in un certo senso più facile, ci sono molti più miliardari. L’elenco del 2022, per esempio, ha 573 nomi in più rispetto a quello del 2020, poco prima dell’inizio della pandemia. Quell’anno il mondo stava sfornando nuovi miliardari a un ritmo di circa uno ogni 17 ore, ha osservato Forbes. In cima alla nuova lista c’è Elon Musk, con un patrimonio netto stimato di 219 miliardi di dollari. Dietro di lui c’è Jeff Bezos, con 171 miliardi. Da qui si prosegue con: Bernard Arnault e famiglia (158 miliardi), Bill Gates (129), Warren Buffett (118), Larry Page (111), Sergey Brin (107), Larry Ellison (106), Steve Ballmer (91,4) e Mukesh Ambani (90,7), l’uomo più ricco dell’Asia e, confesso, la persona più in alto in classifica di cui non avevo mai sentito parlare. Se continuiamo a scorrere la lista, considerando solo gli statunitensi, la maggior parte dei nomi è familiare: dalle vaste fortune create dalla Silicon valley alla Walmart (gli eredi più ricchi del fondatore Sam Walton hanno circa 65 miliardi ciascuno) fino alla Nike (47,3 miliardi), all’ex moglie di Jeff Bezos (43,6) e alla vedova di Sheldon Adelson (27, miliardi). Ma alla fine, si cominciano a incontrare nomi meno noti: Thomas Peterffy, immigrato dall’Ungheria comunista e pioniere del mercato azionario computerizzato (numero 80, 20,1 miliardi). Robert Pera, che ha fondato una cosa chiamata Ubiquiti Networks … (numero 127, 14,6 miliardi). A tal proposito, c’è poi Dustin Moskovitz, che a Harvard divideva la stanza con un altro ragazzo che avrebbe avuto la bella idea di creare un social network (numero 167, 11,5 miliardi). In poco tempo, si arriva ai Peter Gassner del mondo, e ce ne sono tanti: secondo Forbes negli Stati Uniti ci sono 735 miliardari, che in totale possiedono più di 4.700 miliardi. Dieci anni fa ce n’erano solo (“solo”) 424. Vent’anni fa 243. Continuano a moltiplicarsi e la loro ricchezza cresce, anche – o soprattutto – perché il resto di noi resta indietro», p.52; Assistiamo all’ emergere di un aumento incredibilmente osceno delle disuguaglianze che ha il gravissimo effetto, anche nelle nazioni democratiche, di produrre una disaffezione molto forte verso la democrazia, da parte di moltissimi cittadini che non si sentono rappresentati e economicamente rimangono in grandi difficoltà. Interessanti argomentazioni sulle diseguglianze nel mondo di oggi le possiamo trovare sintetizzate in G. Azzolini, L’eguaglianza al tempo della globalizzazione, in “Teoria politica”, del 01/12/2021, n. 11/2021, pp.181-192.

[2] R. Luxemburg (ed. or. 1913), L’accumulazione del capitale: contributo alla spiegazione economica dell’imperialismo, Torino, Einaudi, 1968, p. 345; Si veda sul tema la rivista: AA. VV., (a cura di B. Bianchi, M. Turchetto), L’accumulazione del capitale di Rosa Luxemburg, in “DEP - Deportate, esuli, profughe”, N. 28, del  07/2015. Sull’attualità del pensiero di Rosa Luxemburg si veda: G. Di Benedetto, La primavera che viene. Attualità di Rosa Luxemburg, Milano, Mimesis, 2022.

[3] D. H. Meadows, D. L. Meadows, J. Randres, W. W.Behrens, I limiti dello sviluppo, Milano, Mondadori, 1972. Questi essenziali argomenti verranno ripresi, da molti studiosi, negli anni seguenti, in particolare da Ulrich Beck, che scrisse esplicitamente di rischio per l’umanità nel suo famoso e fondamentale studio U. Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, Roma, Carocci, 2000, che a p. 36 sostiene: «Nella realtà si intrecciano, e spesso si scontrano, due logiche: la razionalità scientifica e la razionalità sociale. Quella scientifica, se non riesce a collegarsi con quella sociale, rimane vuota, quella sociale, se non riesce a collegarsi con quella scientifica, rimane cieca». Nel mondo di oggi si perde, infatti, la certezza del diritto, del valore, dell’essere-persona responsabile ed autentica, in nome dell’“apparire” come pseudo-valore di consumo e meccanicistico; abbiamo una modernità liquida nella «convinzione che il cambiamento è l’unica cosa permanente e che l’incertezza è l’unica certezza», in Z. Bauman, Modernità liquida. Roma-Bari, Laterza, 2011, pp. 8-11. Secondo Bauman, si tratta di una modernità senza punti di riferimento solidi, pertanto la “liquidità” è riscontrabile nei mezzi e nelle finalità che appaiono confusi e spesso invertiti tra loro, si veda Id., Vita liquida. Roma-Bari, Laterza, 2008; Id., La solitudine del cittadino globale, Milano, Feltrinelli, 2000, dove l’autore scrive con grande chiarezza verità che: «Le politiche neoliberiste degli ultimi … anni hanno posto le condizioni per lo sgretolamento del tessuto sociale, esaltando la libertà dell’individuo a scapito della dimensione collettiva. Ma una simile libertà, basata sull’assenza di limiti, sul disinteresse al bene comune e sul conformismo, è in realtà illusoria per la sua sudditanza ai modelli e ai consumi imposti dal mercato, e ha come conseguenza l’aumento dell’impotenza collettiva e la paralisi della politica, diventata sempre più locale e insignificante», p. IV di copertina.

[4] Si inquadra molto bene quali sono le vere cause della povertà, essa è dovuta primariamente al sistema economico sociale che condiziona le vite delle persone, al di là delle capacità e dei saperi dei singoli, perchè «La povertà è un fenomeno multidimensionale, prodotto dall’interazione di una pluralità di elementi e non legato soltanto alla mancanza di lavoro. Ne sono corresponsabili, in Italia, la crescente precarietà del mercato del lavoro, i bassi tassi di occupazione femminile, la frammentazione e l’eterogeneità del sistema di protezione sociale, la scarsa e diseguale disponibilità di servizi di conciliazione famiglia-lavoro, le forti differenze territoriali. Un quadro reso ancora più difficile dalle due crisi che hanno caratterizzato i primi vent’anni del secolo, quella finanziaria del 2008 e quella pandemica. In assenza di politiche che agiscano sull’intero complesso di questi fattori, il solo aumento dell’occupazione non è sufficiente ai fini di una riduzione della povertà», gli autori proseguendo la loro analisi, specificano ancora di più che essa si delinea come «l’esito delle forme di regolazione dei processi sociali che definiscono i pacchetti di risorse a disposizione delle persone e delle relative condizioni di uso, esponendo individui e famiglie a differenti rischi di povertà. Più della sfortuna individuale, sono i modelli di famiglia e di solidarietà collettiva, i sistemi di protezione sociale, le nome e le rappresentazioni sociali che in parte sono il prodotto di quei modelli e sistemi e in parte ne costituiscono la base di legittimazione, le tendenze demografiche e del mercato del lavoro, e il modo in cui tali fattori interagiscono tra loro a definire i gruppi sociali che corrono i maggiori rischi di ritrovarsi in povertà», in C. Saraceno, E. Morlicchio, D. Benassi, La povertà in Italia. Soggetti, meccanismi, politiche, Bologna, Il Mulino, 2022, p. IV di copertina.

[5] N. Chomsky, Sulla nostra pelle. Mercato globale o movimento globale?, Milano, Il Saggiatore, p. 41.

[6] M. D’Eramo, Dominio. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi, Milano, Feltrinelli, 2020, p. 10. Pensiamo, con attenzione, alle due parole: “guerra” e “invisibile”. “Guerra”, perché, come scrive l’autore, «la metafora militare è appropriata, poiché di una vera e propria guerra si è trattato, ma di una guerra condotta in larga misura senza l’impiego delle armi». “Invisibile”, in quanto «non sono state, in primo luogo, le armi a farla uscire vincente bensì l’affermarsi di una precisa rappresentazione del mondo attraverso un capillare lavoro che, poco a poco, ha indotto la maggioranza degli umani ad accettare come vere alcune menzogne spacciate come fatti, come dati empiricamente confermati», p. 40. Così, ad esempio, ci hanno convinti, con una costante e forte campagna di marketing che il mercato costituisce un fenomeno naturale che possiede la capacità di sapersi autoregolare; convinzione di fatto, e più volte, smentita dalle ricorrenti crisi. Nel 2005 e nel 2007 le economie dei singoli paesi occidentali infatti non si sarebbero salvate dal tracollo senza gli interventi pubblici. Come è parimenti falsa l’idea che non esistano alternative all’attuale sistema economico e che, pertanto, il capitalismo finanziario globale costituisca l’unico futuro pensabile. Ma forse è più appropriato parlare di miti ideologici più che di idee, e cioè di rappresentazioni che, da transitorie, contingenti a una determinata situazione, diventano immutabili, eterne. Basti pensare al falso mito dei vantaggi che la società ricava dalla riduzione delle tasse. Uno sguardo anche frettoloso alle economie mondiali rivela senza ombra di dubbio che i Paesi più poveri sono quelli dove è più bassa la pressione fiscale, inesorabilmente in tutto il mondo. Ci hanno fatto credere, contro ogni logica e ogni evidenza, che del costante, crescente aumento di ricchezza dei ricchi avrebbero beneficiato anche i poveri, cosa che nella realtà si è rivelata cosa falsissima. Sul tema si veda L. Canfora, La lotta di classe esiste e l’hanno vinta i ricchi. Vero!, Roma-Bari, Laterza, 2014.

[7] Dello stesso parere lo studioso di storia antica Luciano Canfora, che in una recente intervista, citando il sociologo Luciano Gallino afferma che: «come spiegò Luciano Gallino non è che la lotta di classe sia scomparsa, semplicemente l’hanno vinta i padroni», in F. Rigatelli, L’intervista a Luciano Canfora. L’epoca del cinismo sovrano, In “La Stampa”, del 03/12/2022, p. 28, nella stessa intervista, visto l’arretramento della partecipazione delle masse popolari dalle decisioni politiche e democratiche, sostiene che la stessa democrazia stia attraversando un periodo di crisi: «Per me il meccanismo democratico è stato ridimensionato, come sosteneva Norberto Bobbio, al calcolo dei voti. La democrazia invece è il potere popolare. Ai tempi di Giuseppe Mazzini l’Oxford dictionary la definiva “social revolution”. In Atene per gli oligarchi i democratici erano addirittura delle canaglie. La democrazia in realtà è il punto di incontro tra le classi sociali ... Non dimentichiamo che in Italia quasi il 40 per cento degli elettori non vota, dunque», Ivi.

[8] Un vero e proprio fenomeno epocale, come le guerre, le rivoluzioni, i terremoti e gli tsunami, la pandemia che ha fatto irruzione nella nostra vita ci obbliga innegabilmente, come ammonisce papa Francesco in Fratelli tutti, Roma, Libreria Editrice Vaticana, 2020, p. 7, a rivedere le nostre false sicurezze.

[9] Naturalmente senza dimenticare le grandi tragedie delle guerre jugoslave. Nella ex-Jugoslavia ci sono state una serie di conflitti armati, inquadrabili tra una guerra civile e conflitti secessionisti, che hanno coinvolto diversi territori appartenenti alla Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, una decina di anni dopo la morte di Tito, tra il 1991 e il 2001, causandone la dissoluzione. Diverse le motivazioni che sono alla base di questi conflitti. La più importante è il nazionalismo imperante nelle diverse repubbliche a cavallo fra la fine degli anni ottanta e l'inizio degli anni novanta (in particolare in Bosnia ed Erzegovina, SerbiaCroazia e Kosovo, ma in misura minore anche in Slovenia e nelle altre regioni della Federazione), con una propaggine finale nel XXI secolo del conflitto nella Repubblica di Macedonia del 2001.

[10] L. Pennacchi, Democrazia economica. Dalla pandemia a un nuovo umanesimo, Roma, Castelvecchi, 2021, pp. 5 e ss., i corsivi sono miei. 

[11] N. Dilmore, M. Salvati, Liberalismo inclusivo. Un futuro possibile per il nostro angolo di mondo, Milano, Milano, Feltrinelli, 2021, in questo testo sembra evidente il costante riferimento alle teorie di Joseph Schumpeter, in particolare, sulla forza creativa dell’innovazione che inesorabilmente porta alla tendenza degli attori più dinamici del mercato a diventare monopolisti, distruggendo così proprio il mercato in cui sono nati e le teorie che lo vorrebbero mitizzare. L’obiettivo degli autori è tutto centrato nel dimostrare come un rapporto equilibrato e originale tra politica, imprenditori e società civile possa contrastare sia il declino del capitalismo sia il populismo demagogico, rilanciando così una nuova economia di mercato, più trasparente, molto ben regolata, finalmente sostenibile, di conseguenza rilanciare la stessa democrazia liberale. Inoltre gli autori nell’analizzare le evoluzioni tecnologiche, polemizzano con le teorie di chi vorrebbe tassare i robot per bloccare l’evoluzione digitale delle imprese e difendere i lavori tradizionali, rifiutano le idee di “decrescita felice” e propongono nuove relazioni tra l’innovazione d’impronta anglosassone e le migliori tradizioni europee del welfare.

[12] Ivi, p. 16.

[13] Karl Polanyi pubblicò nel 1944 un libro, La grande trasformazione, che all’epoca ebbe una certa eco tra gli economisti, per poi essere recentemente riscoperto in quanto premonitore dell’attuale crisi globale. La grande trasformazione a cui si allude nel titolo era lo sviluppo dell’economia capitalistica, che Polanyi analizzava non solo da una prospettiva economica, ma anche da un punto di vista antropologico. La tesi di fondo era che l’economia liberale classica, quella di Smith e Ricardo – e, sulla sua scia, il pensiero di Marx –, si fondava su un punto di vista unilaterale, quello dell’autoregolazione del mercato. Invece che una prospettiva scientificamente ineccepibile, per Polanyi questa idea era l’espressione di un punto di vista basato su presupposti antropologici errati: «l’uomo, il denaro e la terra hanno una dignità propria e un’autonomia indipendente dalle leggi del mercato, che non sono affatto universali e astoriche» come brillantemente scritto nel libro di P. Vineis, L. Savarino, La salute del mondo. Ambiente, società pandemie, Milano, Feltrinelli, 2021, p. 115; infatti Polanyi sostiene esattamente nel suo lavoro che «Il punto cruciale, è questo: lavoro, terra e moneta sono elementi essenziali dell’industria; anch’essi debbono essere organizzati in mercati poiché formano una parte assolutamente vitale del sistema economico; tuttavia essi non sono ovviamente delle merci, e il postulato per cui tutto ciò che è comprato e venduto deve essere stato prodotto per la vendita è per questi manifestamente falso. Il lavoro è soltanto un altro nome per un’attività umana che si accompagna alla vita stessa la quale a sua volta non è prodotta per essere venduta ma per ragioni del tutto diverse … La terra è soltanto un altro nome per la natura che non è prodotta dall’uomo. … Nessuno di questi elementi è prodotto per la vendita. La descrizione, quindi, del lavoro, della terra e della moneta come merci è interamente fittizia …  Nel disporre della forza-lavoro di un uomo, il sistema disporrebbe tra l’altro dell’entità fisica, psicologica e morale ‘uomo’ che si collega a quest’etichetta …  La natura verrebbe ridotta ai suoi elementi, l’ambiente e il paesaggio deturpati, i fiumi inquinati, la capacità di produrre cibo e materie prime distrutta … Indubbiamente i mercati del lavoro, della terra e della moneta sono essenziali per un’economia di mercato, ma nessuna società potrebbe sopportare gli effetti di un simile sistema di rozze finzioni neanche per il più breve periodo di tempo a meno che la sua sostanza umana e naturale, oltre che la sua organizzazione commerciale, fossero protette dalle distruzioni arrecate da questo diabolico meccanismo», in  K. Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Torino, Einaudi, 1974, pp. 93-95, bisogna riconoscere come siano solo apparentemente catastrofiche queste affermazioni perchè l’attuale crisi ambientale sembra dare pienamente ragione a Polanyi, e richiama un argomento che deve essere considerato sempre  basilare: soltanto dissociando il valore intrinseco dell’uomo e della natura dal loro valore economico possiamo sottrarci a una visione strumentale troppo limitata e assoggettata a considerazioni puramente tecniche e di breve periodo. Polanyi nella prospettiva economica dello sviluppo del capitalismo, e nella grande trasformazione che descriveva, vide chiaramente una serie di eventi storici di fortissimo impatto che avrebbero avuto delle ripercussioni decisive su tutte le sfere della vita. Il che è esattamente quello che oggi stiamo sperimentando, oltre che dal punto di vista economico anche dal punto di vista ambientale, con rischi serissimi per la sopravvivenza come hanno evidenziato i maggiori teorici scientifici dell’Antropocene.

[14]  N. Dilmore, M. Salvati, Liberalismo inclusivo, cit.

[15] Naturalmente i padri “nobili” del pensiero neoliberista, li conosciamo eccome: gli austriaci Friedrich von Hayek e Ludwig von Mises e il francese Jacques Rueff, negli anni, più recenti e molto ascoltati dai principali governi occidentali, abbiamo gli statunitensi Robert Nozick e Milton Friedman, che oltre ad insistere sugli ipotetici vantaggi della libera concorrenza assoluta, tentano, costantemente di mettere in evidenza gli inconvenienti pratici dell’intervento dello Stato, ritenuto facile a degenerare in costrizione, pesante nelle strutture, dispendioso, sempre tardivo e spesso inefficace. Una scuola di pensiero secondo cui, appunto, la sfera del mercato deve essere quella che orienta tutte le altre sfere della società e che, soprattutto, deve disciplinare la sfera politica.

[16]  Abbiamo avuto grandi crescite economiche che hanno avvantaggiato solo un numero veramente esiguo di presone, come ha ben spiegato J. P. Fitoussi, mettendo bene in evidenza cosa deve essere importante: «La crescita, come il cambiamento, non è qualcosa di oggettivo, di neutro. Una crescita che favorisca unicamente un piccolissimo numero non ci interessa affatto come obiettivo sociale, come obiettivo da perseguire nei nostri Paesi. Cerchiamo al contrario una crescita che garantisca l’uguaglianza dei cittadini di fronte al futuro. Crescita e benessere sociale o marciano assieme o l’una, la crescita per pochi, annienta il benessere sociale per i più», in https://www.ilriformista.it/jean-paul-fitoussi-ecco-quale-e-la-tragedia-sociale-del-nostro-tempo-221840/, visitato 1i 16/04/2022.

[17] M. Albert, Capitalismo contro capitalismo, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 7.

[18] In Italia negli anni «dal 1991 al 2001 … ci sono state le privatizzazioni. All’epoca Draghi era direttore generale del tesoro e presidente del comitato delle privatizzazioni. Fu la più grande opera di privatizzazione in Europa, più di Thatcher, perché da noi c’erano più partecipazioni statali. Eravamo l’unico paese ad avere più di 1700 aziende statali o parastatali e il più grande partito comunista d’Occidente. Eravamo molto più socialdemocratici degli scandinavi. Ciò era uno scandalo agli occhi dei neoliberisti che vincevano con Reagan e Thatcher che andava eliminato. Per farlo venne impiegato il più intelligente dei giovani economisti italiani. Rimase per quei dieci anni al tesoro, con diversi governi: quelli di Amato, Prodi e D’Alema fecero la maggior parte delle privatizzazioni. D’Alema diceva che non avevano bisogno della destra per privatizzare. Fu una grande manovra antisocialista fatta da socialisti. Adesso Draghi è riuscito a irretire Di Maio», in G. Santoro, Intervista a Domenico De Masi, in https://ilmanifesto.it/luigi-irretito-da-draghi-ma-la-scissione-aiuta-la-destra, visitato il 4 luglio 2022.

[19] J. J. Rosa, Il secondo XX secolo, Bari, Dedalo, 2002, p. 6.

[20]  E’ quanto è stato documentato da uno studio condotto da economisti dell’Università di Berkeley e dell’Ecole Normale Superièure di Parigi, Citato da A. Gianni, Goodbye liberismo, Milano, Ponte alle Grazie 2009, pp. 31-33. Le gravissime conseguenze sociali dell’offensiva neoliberista sono state tali da confermare ciò che, quasi un secolo fa, aveva sottolineato Max Weber: «Quando il mercato è abbandonato alla sua auto-normatività, esso conosce soltanto la dignità della cosa e non della persona, non doveri di fratellanza e di pietà, non relazioni umane originarie di cui le comunità personali siano portatrici. Queste costituiscono altrettanti ostacoli al libero sviluppo della nuda comunità di mercato; e gli specifici interessi di questa, a loro volta, costituiscono lo specifico banco di prova di tutte queste relazioni» in M. Weber, Economia e società, Milano, Edizioni di Comunità, 1968, vol. I, p. 620.

[21] M. Ferrera, C’è bisogno di Weber per salvare L’Occidente, In “la Lettura- Corriere della Sera”, del 03/07/20221, p. 13, dove nella recensione al libro di V. E. Parsi, Titanic. Naufragio o cambio di rotta per l’ordine liberale, Bologna, Il Mulino, 2022, ancora Maurizio Ferrera scrive che abbiamo la necessità «di costruire un ordine internazionale che non sia fondato soltanto sulla concorrenza e sul libero movimento delle merci e dei capitali. Ma per farlo occorrono nuove “immagini del mondo”».

[22] E. Saez, G. Zucman, Il trionfo dell’ingiustizia. Come i ricchi evadono le tasse e come fargliele pagare, Torino, Einaudi, 2020, p. 7.

[23] N. Dilmore, M. Salvati, Liberalismo inclusivo, cit., p. 100.

[24] Ivi, p. 104.

[25] Molto interessanti al proposito ci sembrano le seguenti considerazioni, con una buona sintesi degli avvenimenti considerati: «Il collasso del patto sociale in realtà, il declino dell’ordine internazionale liberale è una vicenda più complessa, intrinsecamente connessa a una peculiare trasformazione degli stati liberaldemocratici. La tesi che propongo è che la crisi dell’ordine internazionale liberale risulti dalla rottura dell’equilibrio tra democrazia ed economia di mercato. Questo equilibrio è stato la premessa in base alla quale furono costruiti sia le democrazie liberali sia l’ordine liberale internazionale. Il collasso del “patto sociale” e dell’equilibrio tra capitale e lavoro che il welfare state – tanto nella sua versione americana e liberale quanto in quella europea e socialdemocratica – fu in grado di materializzare, è ciò che sta svelando le contraddizioni interne del capitalismo. Di conseguenza, sostengo, un nuovo progetto politico illiberale sta emergendo e si sta insinuando all’interno delle istituzioni democratiche. La mia tesi è che a partire dagli anni Ottanta l’ordine internazionale liberale sia stato progressivamente sostituito dall’ordine globale neoliberale. (...) Il principale obiettivo di questo libro [il libro del riferimento dell’articolo e V. E. Parsi, Titanic. Naufragio o cambio di rotta per l’ordine liberale, Bologna, Il Mulino,2022] è quindi svelare ed esporre i nefasti meccanismi di tale sostituzione, e stabilire le premesse intellettuali per ripristinare e restaurare l’ordine internazionale liberale. Per raggiungere questo obiettivo, il libro si sviluppa lungo tre assi, ciascuno riferito a una tensione specifica: quella tra dimensione nazionale e dimensione internazionale, quella tra l’ambito economico e l’ambito politico e quella tra valori e interessi. Ma il problema è legato anche alle diverse forze che hanno compromesso l’ordine internazionale liberale fin dalle decadi finali della Guerra fredda: le forze tecnocratiche che premono per risposte internazionali omologate alle crisi economico-finanziarie, minando il ruolo sociale dello stato nella politica interna; le forze sovraniste e populiste che impugnano il principio di sovranità come un’arma contro la cooperazione internazionale; le potenze autoritarie, come la Cina, che cercano di creare un nuovo ordine internazionale spogliato dalle norme liberali», in V. E. Parsi, Neopopulismo sovranista e deficit di cooperazione. I mali che minacciano la democrazia liberale, in “Scenari”, del 10/06/2022, p. 16.

[26] U. Beck, Che cos’è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria, Roma, Carocci, 2009, p. 22.

[27] C. Rosselli, Socialismo liberale, Torino, Einaudi, 1979, p. 92; Sul tema si veda S. Visciola, G. Limone (a cura di), I Rosselli: eresia creativa, eredità originale, Napoli, Guida, 2005, in particolare L’introduzione di Giuseppe Limone, dove viene ben messo in evidenza il valore progressista e anticonvenzionale del pensiero di Roselli, pp. 15-38.

[28] G. Calogero, Lezioni di filosofia, II, Etica, giuridica e politica, Torino, Einaudi, 1948, pp. 347-355; Per una completa conoscenza delle idee progressiste di Guido Calogero si veda la nuova edizione di G. CalogeroLe regole della democrazia e le ragioni del socialismo, con una testimonianza di N. Bobbio, Reggio Emilia, Diabasis, 2001, Il volume ripropone una raccolta di saggi pubblicati insieme per la prima volta nel 1968: L’abc della democrazia, che risale al 1944; La giustizia e la libertà, composto nel 1943; I diritti dell’uomo e la natura della politica, apparso inizialmente nel 1964. La nuova edizione è curata da Thomas Casadei, il quale ha anche scritto la ricca introduzione - dal titolo Le radici della democrazia possibile - e raccolto la testimonianza di Norberto Bobbio, dedicata a Il più giovane dei miei maestri, che chiude l’opera.

[29] R. Treves, Sociologia del diritto, Torino, Einaudi, 1987, p. 334.

[30] N. Bobbio, Lezioni di filosofia del diritto, Torino, Einaudi, 1946, pp. 189-220.

[31] N. Bobbio, Quale socialismo?, Torino, Einaudi, 1976; Id., Il futuro della democrazia, Torino, Einaudi, 1984.

[32] Id., L’età dei diritti, Torino, Eunaudi, 1990.

[33] Id., Una formula di élite, in “Critica liberale”, novembre 1982, p. 94.

[34] Infatti secondo Piketty abbiamo «… un motivo semplice: lo sviluppo dipende innanzitutto dall’istruzione», in “Internazionale”, del 11/11/2022, n. 1486, p. 48.

[35] Tanto egemoni da far considerare giuste insensate affermazioni che arrivavano a giustificare, persino, le crescenti diseguaglianze sociali, considerate utili per consentire la crescita economica, per fortuna studi e ricerche sensati hanno dimostrato l’assoluta inadeguatezza di tali sconsiderate “teorie.” Abbiamo ottime ricerche, veramente scientifiche e non propagandistiche, che ci dimostrano che l’uguaglianza delle opportunità sia assolutamente auspicabile per il bene dell’intera umanità: «Tornando alle differenziazioni iniziali, l’evidenza contenuta in diversi studi apparsi negli ultimi anni sembra sfatare il mito secondo cui per promuovere l’iniziativa individuale, lo spirito imprenditoriale e la presa di rischio dobbiamo accettare sempre crescenti livelli di disuguaglianza. Gli studi più recenti ci rivelano una realtà amara, ci dicono cioè che i livelli elevati di disuguaglianze nei redditi registrati nei Paesi industrializzati e ancora di più in quelli emergenti fanno male alla crescita perché riducono le opportunità di investimento in istruzione, salute e lavoro non solo dei più poveri, ma di una fascia ampia della popolazione (il 40%). In altre parole, se c’è bisogno di politiche redistributive, che moderino le differenze di reddito e ricchezza tra chi sta in alto e chi sta in basso, per permettere a questi ultimi condizioni di vita decenti, è essenziale garantire a tutti opportunità uguali indipendentemente dalle condizioni iniziali. In realtà, però, vi è un legame stretto tra disuguaglianze di reddito e accesso alle opportunità come abbiamo ricordato, perché queste ultime dipendono dal background socioeconomico dei genitori. Infatti, una maggiore disuguaglianza dei redditi dei genitori tende a implicare una maggiore disuguaglianza delle possibilità di vita dei propri figli. Quindi, promuovere maggiore uguaglianza di opportunità senza affrontare la crescente disuguaglianza nei redditi e nella ricchezza è molto difficile. L’Ocse già da tempo era giunta alla conclusione, ad esempio, che il debito pubblico buono favorisse la crescita e diminuisse le disuguaglianze e quello cattivo viceversa deprimesse lo sviluppo e accentuasse le inegualità. La                                                                                                                                                                                          distinzione è la stessa che accompagna il dibattito europeo post-pandemia sotto l’impulso di Mario Draghi, che aveva già cominciato a raccomandare ai governanti di fare questa distinzione quando era ancora presidente della Bce (fino al 2019). Le conclusioni alle quali giungono l’Ocse e l’attuale capo del governo italiano sono le stesse. L’Ocse ha parlato, in occasione degli interventi post-pandemici, di «effetti attivi sulla spesa sociale» – dell’utilizzo, cioè, di strumenti di debito pubblico rivolti a sovvenzionare le imprese e i lavoratori potenzialmente in grado di riprendersi dopo la tempesta pandemica – e di «strumenti passivi», quando ci si limitava oltre i ragionevoli termini solidaristici e umani a sostenere strumenti di disoccupazione che poi non portavano a una vera riqualificazione dei beneficiari. Va ricordato che sia le politiche pubbliche americane di supporto all’economia sia il Next Generation EU sono per una cospicua parte espressamente attenti alla sostenibilità degli investimenti. Biden ha fatto di più: come scrive Federico Rampini nella sua newsletter da New York, «ha trasformato il suo pacchetto di inizio mandato, accusato perfino da economisti democratici come Larry Summers di essere eccessivo e addirittura foriero di inflazione, in uno strumento dichiaratamente anti-disuguaglianze mettendo così a tacere le critiche che si erano accumulate ai tempi di Trump». Quello della sostenibilità, intesa ovviamente anche come controllo delle disuguaglianze (altrimenti destinate ad ampliarsi irrimediabilmente), è stato un discorso chiave negli interventi americani prima ancora che in quelli europei quando si è trattato di affrontare le conseguenze economiche del Covid-19. Fin dalla prima legge di bilancio firmata da Joe Biden a fine gennaio 2021 si sono concentrate le risorse sull’assistenza e la redistribuzione a favore di chi ha meno: allora si erogarono, il più velocemente possibile, generosi sussidi (1400 dollari per ogni individuo sotto i 75 mila dollari di reddito, più indennità di disoccupazione, assegni familiari, crediti d’imposta) contribuendo così ad aumentare il potere d’acquisto per tre quarti della popolazione. E questo soprattutto per assestare un colpo deciso alle disuguaglianze e agli squilibri che già affliggevano il Paese guida dell’Occidente prima della pandemia, che sono diventati ancora più drammatici con la crisi Covid. “I problemi delle disuguaglianze si sono esacerbati da quando il virus è entrato nelle nostre vite”, notava in un editoriale il “Financial Times”. Una lettera è la chiave: K. Una ripresa a forma di K significa che una parte della popolazione scende e l’altra parte (che poi in realtà è una minoranza) sale sempre di più nella scala sociale e reddituale. Una divaricazione che promette di avere conseguenze negative sulla crescita dell’intero Occidente, oltre al dissesto sociale, anche se per la verità non tutti ne sono convinti. Una divaricazione che ha superato il limite di guardia in occasione dell’attuale pandemia. Biden ha varato i suoi massicci interventi post-Covid, ad epidemia dilagante, per risanare in primis le enormi disuguaglianze aggravate dal morbo, e contemporaneamente – ma in seconda battuta – per sostenere il tessuto produttivo. Se sul composito fronte protezione sociale-welfare l’insegnamento che possiamo trarre dalle vicende sanitarie degli ultimi due anni è che il modello europeo si sia dimostrato più etico, la pandemia ha probabilmente contribuito a un’importante svolta negli Stati Uniti verso approcci più inclusivi», in E. Occorsio, S. Scarpetta, Un mondo diviso. Come l'Occidente ha perso crescita e coesione sociale, Roma-Bari, Laterza, 2022, p. 67. Della stessa idea Luigi Ferrajoli: «Le spese sociali in materia di salute, istruzione e di occupazione sono anche le spese economicamente più produttive, dato che da esse dipendono la tutela e lo sviluppo della produttività, sia individuale che collettiva. Ne è prova non solo la maggior ricchezza dei paesi nei quali, come in Europa, si è sviluppato lo Stato sociale rispetto ai paesi poveri e al loro stesso passato, ma anche nei paesi ricchi, il confronto tra crescita economica negli anni della costruzione dello Stato sociale e la recessione odierna provocata dai tagli alla spesa pubblica e dalla riduzione dell’occupazione messi in atto dalle attuali politiche di austerità [e dalle crisi finanziarie sempre più ricorrenti nel sistema capitalistico odierno]», in La democrazia costituzionale, Bologna, Il Mulino, 2016, p. 94.  «Il riscaldamento globale è ormai una realtà con cui dobbiamo fare i conti. Ma quali saranno le conseguenze sociali ed economiche della crisi ecologica che stiamo vivendo? Ponendo al centro della riflessione la dimensione geopolitica del cambiamento climatico, e attingendo alla tradizione di filosofia politica e di critica all’economia capitalistica, Mann e Wainwright intravedono i segnali di uno scenario imminente e nefasto […] e gettano le basi per un’alternativa necessaria e radicale: una rivoluzione planetaria in nome della giustizia climatica», in G. Mann, J. Wainwright, Il nuovo Leviatano. Una filosofia politica del cambiamento climatico, Treccani, Roma 2019, p. II del frontespizio. In questo lavoro, in particolare, abbiamo molti richiami sulle possibili tassazioni per chi inquina: «Finché il mondo continuerà ad essere capitalista le disuguaglianze rimarranno […] e con queste le barriere che impediscono un approccio globale e cooperativo al cambiamento climatico», Ivi., p. 169.

[36] A. Gramsci, Quaderni dal carcere, a cura di F. Platone, Torino, 1948-1951. Negli scritti del carcere si assiste a una ulteriore dilatazione, quantitativa e qualitativa, del concetto in questione, che finisce per costituire «il filo conduttore dei Quaderni», come mostra una semplice rassegna degli usi di egemonia, egemonico, egemone e così via. Nei Quaderni, infatti, l’egemonia è politica, politico-intellettuale, sociale, politico-sociale, civile, intellettuale, morale e politica, politica e morale, intellettuale e morale, etico-politica, culturale, economica, commerciale e finanziaria. Secondo Gramsci: «La supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due modi, come dominio e come direzione intellettuale e morale. Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari che tende a liquidare o a sottomettere anche con la forza armata, ed è dirigente dei gruppi affini e alleati. Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere ed anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare ad essere anche dirigente», in Id., Quaderni del carcereIl Risorgimento, p. 70.

[37] Una critica radicale a questa riconosciuta tendenza culturale degli ultimi decenni, la possiamo trovare in A. Pascale (a cura di), Il totalitarismo “liberale”. Le tecniche imperialiste per l’egemonia culturale, Napoli, La città del sole, 1018, in particolare nelle pp. 93-113, dove si parla di come «I mass media [sono] al servizio dell’imperialismo guerrafondaio», e nelle pagine 189-230, con le argomentazioni che riguardano «L’alienazione consumistica».

[38] Z. Bauman, Voglia di comunità, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 58.

[39] Infatti: «Ogni società umana deve giustificare le sue disuguaglianze: è necessario trovarne le ragioni, perché in caso contrario è tutto l’edificio politico e sociale che rischia di crollare. Ogni epoca produce, quindi, un insieme di narrative e di ideologie contraddittorie finalizzate a legittimare la disuguaglianza, quale è o quale dovrebbe essere…Nelle società contemporanee, si tratta in particolare della narrativa proprietarista, imprenditoriale e meritocratica: la disuguaglianza moderna è giusta, perché è la conseguenza di un processo liberamente scelto nel quale ognuno ha le stesse opportunità di accesso al mercato e alla proprietà e nel quale ciascuno gode naturalmente del vantaggio derivante dal patrimonio dei più ricchi, che sono anche i più intraprendenti, i più meritevoli e i più utili», in A. Testa, La lotta delle ideologie secondo Thomas Piketty, in “Internazionale”, https://www.internazionale.it/opinione/annamaria-testa/2020/06/24/thomas-piketty-capitale-ideologia, visitato il 6 dicembre 2021.

[40] T. Piketty, Capitale e ideologia, La nave di Teseo, Milano 2020.

[41] Uomo politico italiano (Magreta 1920 - Modena 2004), rappresentante del cattolicesimo democratico e sociale, deputato e ministro del lavoro nel governo Fanfani (aprile-luglio 1987); fu tra i fondatori della Cisl di cui divenne dirigente sindacale; ricostituì (1993) con P. Carniti, il Movimento dei cristiano-sociali. 

[42] E. Gorrieri, Parti uguali fra disuguali, Il Mulino, Bologna, 2002, p. 30.

[43] Si veda : A. Deaton, La grande fuga. Salute, ricchezza e origini della disuguaglianza, Il Mulino, Bologna, 2015, pp. 30- 33.

[44] K. Pistor, Il codice del capitale. Come il diritto crea ricchezza e disuguaglianza, Roma, Luiss University Press, 2021, p. 20.

[45]In contrapposizione con questo stato di cose abbiamo una situazione d’impotenza da parte dei cittadini normali di fronte al capitale finanziario che caratterizza questa fase del capitalismo globalizzato: «del resto, nonostante le dichiarazioni di crisi del capitalismo c’è generale consenso sulle strategie di intervento (alternanza di deregolamentazione e liberalizzazione e di cicli di intervento pubblico in momenti di instabilità). Fino ad ora, tutti i governi democratici, di destra e di sinistra, hanno perseguito l’obiettivo di salvare il capitale finanziario e il “big business” implementando programmi di austerità con il risultato di generare più povertà e più precarietà. E le rivolte, a tratti anche violente, come quella dei gilets jaunes francesi o le reazioni populiste non cambiano questa situazione … questo sistema è basato sulla produzione di povertà, di ingiustizie e di dominio», in N. Urbinati, Il rapporto tra capitalismo e democrazia. Tassare le ricchezze è l’inizio dell’uscita dal nuovo feudalesimo, in “Domani”, del 16/05/2021, p. 11.

[46] In M. D’Eramo, Dominio. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi, Milano, Feltrinelli, 2020, p. 65; Sull’argomento si veda anche B. Milanovic, Mondi divisi. Analisi della disuguaglianza globale, Milano, Bruno Mondadori, 2007.

[47] Ben altri presupposti erano nelle intenzioni dei fondatori dell’Unione Europea: «L’intenzione dei padri fondatori fu la creazione di uno spazio di libertà in un mondo spaccato in due, quello della guerra fredda», in G. Zagrebelsky, Europa, svegliati e diventa più politica, in “La Repubblica” del 11/05/2022, p. 15, continua l’articolo mettendo in rilievo il ruolo che deve avere la politica democratica nelle decisioni, non come spesso avviene i “tecnici” o “esperti” imposti dal potere economico nelle decisioni politiche, «Quali siano i fini politici spetta, per l’appunto, alla politica determinare. Spetta cioè alla libertà e ai suoi usi, senza di che non c’è politica, ma solo soggezione: per esempio, ai centri finanziari, alle lobby militari e industriali, alle potenze soverchianti d’ogni genere. In questi casi, la politica retrocede di fronte alla esecuzione e i politici sono sostituiti dai “funzionari”, dai “tecnici”, dagli esecutori. In effetti, viviamo oggi in una “epoca esecutiva”. Non solo sui treni ad alta velocità la classe superiore è executive (e non, per esempio, legislative) ma anche in molta parte dell’apprezzamento sociale essere tecnico è molto meglio che essere politico. Questa “scala di valori” con l’esecutivo in cima non è la stessa dappertutto ed è tipica degli Stati che, difettando di libertà e quindi di politica, devono fare di necessità virtù. In un’epoca esecutiva come è quella che stiamo attraversando, si parla di etica, ma è una cosa diversa dall’etica politica. È efficienza e fedeltà nell’adempimento di compiti preassegnati. I discorsi su etica e politica sono dunque vaniloqui se quest’ultima difetta di autonomia. L’Europa, che s’invoca proprio nel frangente che attraversiamo, ha a che fare con questi discorsi, con la libertà della politica? Sì, se guardiamo alle ragioni fondative del progetto della sua unità. Esistevano ottime ragioni per promuovere l’integrazione economica e commerciale in un libero mercato comune tra Stati storicamente ostili da cui si ipotizzava (a torto) che sarebbe venuta naturalmente l’integrazione politica, come effetto indotto. Ma, l’intenzione più profonda degli spiriti lungimiranti fu, per l’appunto, la creazione di uno spazio di libertà politica in un mondo spaccato in due, in cui la “guerra fredda” tra le due superpotenze obbligava gli Stati europei a schierarsi schiacciandosi o di qua o di là. Si sarebbe potuto trattare della creazione di un terzo polo sufficientemente forte per sviluppare una politica propria. In politica, il numero due, nella specie Usa e Urss, è il numero della prossima probabile catastrofe, è il numero dei due lottatori avvinghiati tra loro fino alla fine di uno o di entrambi. In proposito, sarebbe istruttiva, anzi necessaria, la lettura dell’ammonimento di Bertrand Russell, nel 1957, cioè a ridosso della crisi dell’Ungheria, rivolto ai due “Potentissimi signori” di allora, Eisenhower e Krusciov. Il numero tre è, invece il numero dell’equilibrio dinamico in cui tutti possono essere “terzi” e il confronto politico può svolgersi non come lotta per distruggersi ma come confronto per accreditarsi gli uni rispetto gli altri. L’Europa come “terzo” era la generosa speranza, alternativa all’“equilibrio del terrore” e alla “strategia della tensione” sempre a rischio di sfuggire dal controllo e di degenerare in guerra aperta. Abbiamo per troppo tempo fatto come se “la Bomba” non esistesse e, oggi, il tabù che sembrava proteggerci si è rotto mostrandoci scenari terrificanti. L’Europa politica ha un senso solo se afferma il suo diritto di “differenziarsi”, cioè di porsi come “terzo”. Altrimenti, sono sufficienti gli ambasciatori che comunicano ai governi la volontà della potenza egemone; oppure le visite dei capi dei governi che, senza mandato, si recano a riceverne le istruzioni o a fare promesse», Ibidem.

[48] In molte parti del libro sembra riecheggiare il giudizio dato sul diritto “borghese” da Carlo Marx che ha sempre criticato la presunta neutralità, rivendicata dall’ideologia dominante della borghesia e del dettato costituzionale dei diritti civili anch’esso necessariamente espressione degli interessi del blocco sociale dominante sulle classi dominate. Il diritto viene usato per indebolire l’impeto rivoluzionario delle classi lavoratrici. Tanto meno può considerarsi il diritto neutrale nella sua interpretazione, esso è considerato necessariamente funzione del conflitto sociale e dei rapporti di forza presenti nella società civile. Anche se, in ogni caso, la reale applicazione delle leggi resta sotto la direzione del potere esecutivo, il cui controllo solo in casi davvero eccezionali non è appannaggio della classe dominante. La borghesia si compatta, soprattutto di fronte allo svilupparsi dei conflitti sociali, che gli offrono la possibilità di utilizzare, come insiste Marx, il potere del proprio Stato di diritto «senza riguardi e con ostentazione, come strumento pubblico di guerra del capitale contro il lavoro», in K. Marx, F. Engels, La guerra civile in Francia, in Id., Opere scelte, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 907.  Infatti Marx riteneva che la positività della norma giuridica comportasse la separazione fra sfera del diritto e sfera della morale e dell’etica: «rende esteriori all’uomo tutti i rapporti nazionali, naturali, etici, teoretici», in Bruno Bauer, Karl Marx, La questione ebraica, Roma, Manifestolibri, 2004, p. 205. La perdita di valore di tutto ciò che è pertinente alla essenza sociale dell’uomo, fa notare Marx, «cresce in rapporto diretto con la valorizzazione del mondo delle cose», in Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Torino, Einaudi, 1968, p. 71. Troviamo, nelle descrizioni fatte dalla Pistor, il totale avverarsi della società civile borghese che arriva ad emanciparsi da ogni connotazione politica, come aveva pronosticato Marx, di modo che «il rapporto tra proprietario e lavoratore si riduca al rapporto economico tra sfruttatore e sfruttato», Ivi, p. 64. Infatti l’uomo isolato della società civile, portatore degli imprescrittibili diritti delle dichiarazioni borghesi dei diritti umani, non è una mera costruzione ideologica, ma ha la sua esistenza nella sfera socio-economica della circolazione globale, quale momento del modo di produzione capitalistico. L’individuo finalmente liberato, per quanto in duplice e contraddittorio senso, dai vincoli socio-politici della società feudale, che si rapporta al suo simile come a un eguale, mediante il prodotto del proprio lavoro – garantito dal diritto formale di proprietà – e che realizza nello scambio di merci, regolato dal contratto, il proprio utile, è l’uomo della circolazione economica. Come osserva, acutamente, a tal proposito Marx: «se dunque la forma economica, lo scambio, pone da tutti i lati l’uguaglianza dei soggetti, il contenuto, la materia, sia individuale sia oggettiva, che spinge allo scambio, pone la loro libertà», in Id., Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, Firenze, Nuova Italia, 1968, p. 214. Sul tema si veda il recente e interessante lavoro: M. Ricciardi, Il Potere temporaneo. Karl Marx e la politica come critica della società, Milano, Meltemi, 2019, in particolare le pp. 15-49.

[49] Questo vero e proprio mito della meritocrazia considerato da alcuni come principio ordinatore di una società giusta, è, in realtà, se smascherato di tutta la sua enfasi retorica e delle sue evidentissime contraddizioni interne, nient'altro che la legittimazione morale della diseguaglianza. Perché esso si basa su due assunzioni, verosimili, ma false entrambe: la prima, che i meriti individuali siano evidenti, facili da identificare, classificare – tu più, tu meno - e da ricompensare. La seconda, evidentemente falsa anch'essa, che il mercato, e, più in generale, la logica della competizione, sia il meccanismo più efficace nel riconoscere e premiare tali meriti. Per chi accetta queste assunzioni non c'è nessun problema a scrivere, a pochi anni dalla devastante crisi economica del 2008, articoli come “Defending the One Percent” in “Journal of Economic Perspectives”, 2013, 27, pp. 21–34, dove l'economista Greg Mankiw, difende le crescenti disuguaglianze nei redditi come conseguenza della meritoria azione del mercato che premia talento e innovazione. Egli sostiene che «Dagli anni '70 i redditi medi sono aumentati ma questa crescita non è stata uniforme nella distribuzione dei redditi. I redditi più alti, soprattutto i top 1%, sono cresciuti molti più velocemente della media. Questo perché i percettori di questi redditi hanno apportato contributi significativi e quindi hanno ottenuto grandi guadagni». Naturalmente questo discorso nasconde molte importanti conseguenze, come le grandi e chiaramente ingiustificate differenze di reddito. Il principio meritocratico nella realtà produce il suo opposto basti considerare lo scandalo delle ammissioni truccate a favore dei figli di ricchi donatori e di benefattori vari, che ciclicamente si ripete. Perché anche se fossero i migliori ad avere accesso alle università più prestigiose, e sappiamo che non è cosi, si avrebbero comunque effetti negativi: in una parola, la riproposizione di un sistema sociale basato sull'aristocrazia. Un sistema, cioè, fondato sulla trasmissione familiare di privilegi acquisiti. E qui il paradosso. Il principio meritocratico che produce il suo opposto: una società di privilegi basati sulle rendite familiari, sulle relazioni e sul potere: L’esatto contrario di un sistema meritocratico E invece, l'aristocrazia di nascita di un tempo, si è trasformata, oggi, in un'aristocrazia del presunto talento. Ma nascita e talento, chi se li può meritare? Nel caso dell'aristocrazia, coloro che godevano di enormi privilegi economici, sociali e politici non avevano la possibilità di dire “me lo sono meritato”. E oggigiorno abbiamo un'ideologia ed un sistema di norme, regole e istituzioni, grazie alle quali i genitori delle classi agiate sono in grado di conferire grandi vantaggi di partenza ai loro figli, rispetto a coloro che provengono da famiglie meno agiate, il tutto sotto una presunta rispettabilissima copertura morale, che non è altro che una grande falsificazione della realtà.

[50] Ivi, p. 813.

[51] Ibidem; Alcune posizioni simili sono contenute nel fondamentale, per molti versi rivoluzionario, studio: A. K. Sen, La diseguaglianza. Un riesame critico, Bologna, Il Mulino, 20102, in particolare nelle seconda edizione con le risposte al dibattito innescato fin dall’uscita del libro; sullo stesso tema di Sen abbiamo da segnalare: Id., La povertà genera violenza?, Roma, Luiss University Press, 2007; Id., Lo sviluppo e la libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia, Milano, Mondadori, 2000; sul tema della democrazia come patrimonio dell’intera umanità il fondamentale: Id., La democrazia degli altri. Perché la libertà non è un’invenzione dell’occidente, Milano, Mondadori, 2004.

[52] «È giusto che ciascuno abbia quello che merita; ingiusto che ottenga un bene, o soffra un male, che non merita. Questa è l’idea di giustizia di Aristotele e del senso comune. Michael Sandel obietta che la meritocrazia pretende di premiare il merito ma produce arroganza e umiliazione. L’accusa è infondata. A scuola, all’università, sul lavoro, nello sport non possiamo fare a meno di riconoscere e premiare il merito. La meritocrazia ha un volto umano. Si dice che in una società meritocratica i redditi seguano i meriti. Ma in alcune società contemporanee che si presentano come meritocratiche le differenze di reddito sono enormi. Com’è possibile che alcuni abbiano meriti superiori ad altri di centinaia di volte? Da qui prende oggi le mosse il rifiuto del programma meritocratico che nella seconda metà del secolo scorso era la sostanza del ‘sogno americano’ ed era sottoscritto dal laburismo britannico e dal socialismo riformista europeo. Marco Santambrogio difende la meritocrazia con due ordini di argomenti. Dimostra da un lato che quelle società si presentano come meritocratiche ma non rispettano il principio irrinunciabile delle uguali opportunità. Dall’altro sostiene su solide basi filosofiche che il merito non si trasferisce dalle posizioni e dai posti di lavoro alle retribuzioni che li accompagnano. Non si butti dunque il bambino con l’acqua sporca. Si continui – o, in qualche caso, si cominci – a distribuire posti e posizioni rispettando le competenze, senza favoritismi e dando a tutti uguali opportunità. La meritocrazia consiste in questo. Quanto alle enormi differenze di reddito, si dimostri che sono meritate. Se non ci si riesce, una tassazione equa (richiesta dagli stessi principi meritocratici) si preoccuperà di ridurre le sperequazioni immeritate», in M. Santambrogio, Il complotto contro il merito, Roma-Bari, Laterza, 2021, p. IV di copertina, naturalmente nell’introduzione del libro lo stesso Santambrogio riconosce che i due terzi degli studenti di Harvard, la migliore università del mondo secondo molti parametri, appartengono, inesorabilmente agli stati più ricchi, anzi ricchissimi della società. In fondo la società meritocratica è una società «divisa da barriere invalicabili tra classi basate sul privilegio della nascita, esattamente come le società antidemocratiche prima della rivoluzione francese».

[53] M. D’Eramo, Dominio. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi, Milano, Feltrinelli, 2020, p. 46.

[54] Secondo alcuni seri studiosi del fenomeno della povertà, essa diventa sempre più diffusa, anche dove non lo era più da tempo: «La disuguaglianza ha oggi raggiunto livelli estremi, sia a livello mondiale che all’interno dei paesi più avanzati. Negli ultimi trent’anni nelle nostre società i ricchi sono diventati molto più ricchi, la classe media si è ridotta, i poveri sono ancor più scivolati nella povertà: le disparità di reddito sono addirittura tornate ai livelli di un secolo fa. La ricchezza è distribuita in modo ancora più disuguale, secondo gli annuali rapporti di Oxfam la ricchezza posseduta dall’1% più ricco della popolazione mondiale è addirittura uguale a quella del resto dell’umanità (Oxfam, 2015)», in M. Franzini, M. Pianta, “la Rivista delle Politiche Sociali / Italian Journal of Social Policy”, n. 4/2015, p. 11.

[55] P. Bordieu (a cura di A. Tosolini), Controfuochi. Argomenti per resistere all’invasione neoliberista,Roma, Reset, 1999, pp. 108-109; Sulla questione tutte le attezioni, il lavoro e l’impegno che ha caratterizzato l’ultima parte della vita di Bordieu: «Una delle ultime battaglie condotte da Pierre Bourdieu, ad un tempo teoriche e politiche, si è condensata nella lotta contro l’egemonia neoliberista che negli ultimi due decenni del Novecento si è affermata e consolidata anche in Europa segnandone il processo di unificazione e di costruzione identitaria. Tornare su quella congiuntura, collocata tra la seconda metà degli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio, che vide Bourdieu impegnato direttamente nel campo politico nazionale ed europeo in quanto scienziato sociale a difesa di conquiste sociali che avvertiva come segno di una civiltà minacciata, nel tentativo di pensare la politica non politicamente, è forse utile anche a noi, oggi, sempre più smarriti e sprovvisti di un’identità europea riconoscibile. Un’identità che per essere tale dovrebbe nutrirsi di ancoraggi concreti e simbolici non aleatori, di un habitus, innanzitutto, per utilizzare una terminologia bourdieusiana. E ciò è tanto più vero in un frangente in cui i lasciti di una crisi non solo economica lasciano spazio ad involuzioni nei singoli paesi e nel processo di unificazione sovranazionale», in A Girometti, Per un nuovo movimento sociale europeo: una utopia (ir)razionale? Note sull’ultimo Bourdieu, “The Lab’s Quartely”, 2019, a. XXI, n. 3 (luglio-settembre), p. 42; Sull’argomento si vedano: Il campo politico Id., Proposta politica. Andare a sinistra, oggi, Roma: Castelvecchi, 2005, in particolare pp. 45-74; Id., Controfuochi 2. Per un movimento sociale europeo, Roma: Manifestolibri, 2001, pp. 15-28.

[56] Ivi, pp. 50 e ss.

[57] M. Gallegati, Il mercato rende liberi, e altre bugie del neoliberismo, Roma, Luiss University Press, 2021, pp. 20-21. Sullo stesso argomento con le identiche conclusioni si veda P. Dardot, C. Lavalle, La nuova ragione del monso. Critica della razionalità neoliberista, Roma, DeriveApprodi, 2019.

[58] Ivi, pp. 41-42, la frase citata a p. 42: «il tipo di teoria economica che è noto al partecipante nell’economia ha un effetto sull’economia» è stata presa da Oskar Morgenstern (Görlitz24 gennaio 1902 – Princeton26 luglio 1977) è stato un economista austriaco, cofondatore insieme a John von Neumann della teoria dei giochi, ovvero la teoria della collaborazione tra gli individui si veda il suo O. Morgenstern, La teoria dei giochi, Torino, Bollati Boringhieri, 2013.

[59] L'equilibrio economico generale (EEG) è una condizione di equilibrio economico che si verifica quando tutti i mercati sono in equilibrio.

[60]  E. Luttwak, La dittatura del capitalismo, Milano, Mondadori, 1999, p. 82.

[61]  «Negli anni Ottanta, un direttore generale medio americano guadagnava quaranta volte più di un operaio medio. Per i direttori generali americani di alto livello, oggi, il rapporto è di 475:I, e sarebbe molto maggiore se fossero computate le proprietà e non il reddito. In Gran Bretagna il rapporto è di 23:I, in Francia 15:I e in Svezia 13:I » in T. Judt, L’età dell’oblio, Roma-Bari, Laterza, 2009, p. 381.

[62] H. Lepage, Domani il capitalismo, Roma, L’Opinione, 1978, p. 287; Sul tema registriamo, addirittura, una più radicale la tesi di Pascal Salin, il quale non ha avuto esitazione alcuna a fare questa sbalorditiva affermazione: «“nell’economia di mercato non esistono asimmetrie di potere». in Le libéralisme, Parigi, Odil Jacob, 2000, p. 140.

[63]  L. Thurow, Il futuro del capitalismo, Milano, Mondadori, 1997, p. 340.

[64] F. Fukuyama, La Grande Distruzione, Milano, Baldini e Castoldi, 2001, p. 91.

[65] I. Stelzer, Un terzo applauso per il capitalismo, in C. Demuth e W. Kristol (a cura di), La visione politica di Irving Kristol, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2009, p. 49.

[66]  P. R. Krugman, La coscienza di un liberal, Roma-Bari, Laterza, 2008, p. 218

[67] A. Sen, La disuguaglianza, Bologna, Il Mulino, 1994, p. 161.

[68] Si veda l’intervista fatta da E. Occorsio a Jeffrey Sachs, classe 1954, docente alla Columbia di New York e presidente del gruppo di lavoro sullo sviluppo sostenibile dell'Onu, è l'economista che più si è impegnato sia nei progetti di assistenza ai Paesi poveri che nella transizione verso l'economia di mercato, in E. Occorsio, L’economista della Columbia Sachs “Un altro miliardo di persone malnutrite. Sono i più deboli a pagare, in “La Repubblica”, del 17/04/2022, dove la situazione attuale viene cosi descritta: «Circa 3 miliardi di persone erano povere al punto di non avere un'alimentazione sana già prima degli aumenti dei prezzi alimentari dell'ultimo anno e mezzo. Con il precipitare degli eventi fino alla tragedia della guerra, il numero crescerà probabilmente di una cifra fra i 500 milioni e il miliardo. Metà della popolazione terrestre è in difficoltà anche gravissime. Togliere dal mercato un terzo delle forniture di grano, tale è il contributo di Russia e Ucraina, è una condizione che non può durare», p. 3.

[69] G. Soros, La minaccia capitalistica, Milano, Reset, 1997, p. 23.

[70] L. von Mises, Politica economica, Macerata, LiberiLibri, 1999, p. 27.

[71] W. Wolman e A. Colamosca, Il tradimento dell’economia, Milano, Ponte alle Grazie, 1997, p. 273.

[72] J. Rifkin, Il sogno europeo, Milano, Mondadori, 2007, p. 5

[73] Ivi. P.58.

[74] J. Rawls, Una teoria della giustizia, Milano Feltrinelli, 1983, p. 437.

[75] Ivi, p. 429.

[76]  F. von Hayek, Legge, legislazione e libertà, Milano, Il Saggiatore, 1986, p. 318.

[77] F. von Hayek, La società libera, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007, pp. 542-543.

[78] A. Boitani, L’illusione liberista. Critica dell’ideologia di mercato, Roma-Bari, Laterza, 2021, p. 9.

[79] Ivi, p.10.

[80] Ivi, p.74.

[81] N. Chomsky, Sulla nostra pelle. Mercato globale o movimento globale?, Milano, Il Saggiatore, p. 41.

[82] P. Pombeni, Lo stato e la politica. Quando contano nel mondo globale di oggi, Bologna, Il Mulino, 20202, p. 165.

[83] N. Dilmore, M. Salvati, Liberalismo inclusivo, cit.

[84] A. B. Atkinson, Disuguaglianza. Che cosa si può fare?, Milano, Raffaello Cortina, 2015.

[85] D. Held, Modelli di democrazia, Bologna, Il Mulino, 19972, p. IV di copertina.

[86] La Freedom House studia le riforme messe in atto in tutto il mondo e ogni anno tira le somme di quanti Paesi hanno migliorato i diritti dei propri abitanti. Nel 2005 erano 83 le nazioni con diritti “in crescita”, nel 2021 sono state appena 25. Complessivamente sono 60 le nazioni che hanno peggiorato il proprio status democratico tra gennaio e dicembre 2021, secondo questa istituzione statunitensi. Per le democrazie è tempo del colpo di reni o il modello autoritario è destinato a prevalere nei prossimi anni.

[87] Le dittature della storia contemporanea vengono classificate in base a due variabili: l'intensità e l'ideologia. L'intensità prende in considerazione la raffinatezza e l'efficacia del potere, il rapporto tra forza e consenso, il grado di pluralismo, il ricorso alla mobilitazione di massa. L'ideologia prende in considerazione l'atteggiamento sociale e i valori di fondo della dittatura, l'atteggiamento verso l'ordine politico-sociale esistente, il tipo di rappresentanza di classe. In base all'intensità generalmente si distingue tra autoritarismocesarismo e totalitarismo. L'autoritarismo, ovvero la dittatura della repressione: il mantenimento e consolidamento del potere si basa in via prevalente o esclusiva sulla repressione, il regime non vive la necessità di coinvolgere le masse tramite ricorso frequente e costante alla propaganda. Lascia quindi una certa libertà e autonomia, non avvertendo l'esigenza di controllare tutti gli aspetti della società. Talvolta rappresenta il tentativo di alcune élite conservatrici di bloccare il processo di modernizzazione, talaltra il tentativo del ceto dominante di favorire la modernizzazione traghettando la società verso un nuovo ordine. Abbiamo una distinzione ideologica tra vari tipi effettivi di regime, come il Franchismo legato alla dittatura spagnola di Franco (Autoritarismo reazionario); il Fascismo  Benito Mussolini in Italia, Dittature sud americane, (Autoritarismo apolitico), in genere una dittatura militare, priva di una vera e propria base ideologica; ad esempio la dittatura del generale Augusto Pinochet in Cile, del generale Jorge Videla in Argentina, il cui scopo fu principalmente l'anticomunismo. Un esempio attuale può essere la Birmania del generale Than Shwe; Terzomondismo (Autoritarismo rivoluzionario), pone spesso l'accento sull'opposizione ai paesi stranieri e imperialisti, pur senza una vera ideologia codificata, se non l'orgoglio della propria cultura; è il caso di alcuni regimi islamisti, come quello dei talebani in Afghanistan (vedi teocrazia). Il cesarismo, ovvero la dittatura del "capo" ("uomo della Provvidenza", "padre del popolo"): è la categoria in cui Max Weber e Antonio Gramsci facevano ricadere le dittature del loro tempo. Questi regimi non si basano solo su strumenti di repressione, ma anche sul consenso. Sono incentrati sulla figura di un capo carismatico e su un forte apparato statale. All'ideologia si sostituisce il carisma del capo. Caratteristica di questa dittatura è la mediazione tra interessi contrastanti. Le dittature cesaristiche hanno avuto alcuni esempi nel Peronismo, in esso il capo vuole rappresentare l'intero popolo, identificandosi in esso e nei suoi valori "migliori" e non un'ideologia che spesso divide; ad esempio il peronismo classico in Argentina o il regime di Saddam Hussein in Iraq; nel Bonapartismo, il capo è il garante della rivoluzione, colui che protegge il nuovo ordine, soprattutto per conto della classe sociale che l'ha portato al potere, sovvertendo il vecchio ordine, in genere un altro regime autoritario o sultanistico, come una monarchia assoluta, ma dominato da altri interessi; esempi furono gli Imperi di Napoleone I e Napoleone III in Francia. Invece Il totalitarismo, ovvero la dittatura del controllo totale, è il tipo più moderno di regime dittatoriale. Oltre alla repressione, all'ideologia e al capo si aggiunge la presenza del regime in ogni ambito. Il concetto è sviluppato nelle Origini del Totalitarismo di Hannah Arendt. L’autrice ritiene che il totalitarismo necessiti di tre fattori per potersi sviluppare: una società industriale di massa, la persistenza di un'arena mondiale divisa e lo sviluppo della tecnologia moderna. Infatti per la Arendt gli elementi distintivi del totalitarismo sono l'ideologia e terrorismo di Stato: la massima espressione del medesimo erano il lager nella Germania nazista e il gulag nell'Unione Sovietica, dove avveniva la cancellazione dell'individualità tramite un dominio assoluto sulle persone. Gli esempi più rilevanti furono il nazionalsocialismo di Adolf Hitler in Germania e lo stalinismo di Stalin in Unione Sovietica. Esempi attuali di dittature totalitarie sono considerate la Corea del Nord del nepotismo di Kim Il-SungKim Jong-ilKim Jong-un e la Cina. Sul totalitarismo si veda: D. Fisichella, Analisi del totalitarismo, Messina-Firenze, D’Anna, 19782. Sempre utile ed interessante, soprattutto per l’esperienza diretta dell’avvento del nazismo, la definizione data da Franz Neumann, delle varie forme di dittature in Note sulla teoria della dittatura, in Id., Stato democratico e Stato autoritario, Bologna, Il Mulino, 19842, dove ritiene nelle sue conclusioni che «la dittatura moderna tende a divenire totalitaria» a p. 350.

[88] Eduardo Galeano coniò la parola democratura per descrivere la convivenza di elementi democratici e autoritari all’interno di un modello che potremmo definire come “democrazia ristretta” o in altri termini “dittatura costituzionale” si veda: M. Burato, in “Visioni LatinoAmericane”, n. 3, luglio 2010, p. 123. I politologi potrebbero ricorrere forse al termine democratura, crasi di democrazia e dittatura, con cui l’ingegnoso saggista Predrag Matvejevic descriveva i regimi formalmente costituzionali ma di fatto oligarchici. Eppure il caso russo fa storia a sé, si veda L. Caracciolo, Limesonline, 11 marzo 2015. Insomma il rischio diventa serio perchè è in crisi la «democrazia e comincia la democratura? Ovverosia quella mescolanza di democrazia e dittatura che vuole un uomo solo al comando? Al centro del dibattito Matteo Renzi, presidente del consiglio», in G. Barlozzetti, Corriere di Siena.it, 1° aprile 2015, News.

[89] In C. Morgardini, Capitalismo e politica nell’era della globalizzazione, Milano Franco Angeli, 2007, p. 213; Sull’argomento si veda il classico J. L. Talmon, Le origini della democrazia totalitaria, Bologna, Il Mulino, 1967, dove si definisce la democrazia totalitaria: «Tale orientamento estende l’ambito della politica fino ad abbracciare l’intera sfera dell’esistenza umana; considera tutti i pensieri e le azioni umane dotate di significato sociale e quindi inclusi nell’orbita delle azioni politiche», p. 8.

[90] Nel 1989 Francis Fukuyama profetizzò l'imminente “fine della storia” riferendosi al fatto che, dopo il crollo del comunismo sovietico e la fine della Guerra Fredda, la democrazia liberale e il capitalismo sarebbero stati destinati a pervadere, gradualmente, tutte le nazioni del pianeta. Il modello per tutte le nazioni del mondo sarebbe diventato lo stato liberale e democratico, fondato sui principi fondamentali dei diritti dell'uomo. La sua tesi profetica poi smentita dai fatti venne pubblicata in F. Fukuyama, La fine della storia e l'ultimo uomo, Milano, Rizzoli, 1992. Lo stesso autore nei libri successivi riconobbe che le cose stavano evolvendo in altre direzioni: Id., Esportare la democrazia. State-building e ordine mondiale nel XXI secolo, Torino, Lindau, 2005; Id., America al bivio. La democrazia, il potere e l'eredità dei neoconservatori, Torino, Lindau, 2006; Identità. La ricerca della dignità e i nuovi populismi, Milano, UTET, 2019.

[91] Il tema è stato affrontato con grande precisione e in modo approfondito in U. Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, Roma, Carocci, 2000; Id., Conditio humana. Il rischio nell’età globale, Roma-Bari, Laterza, 2008, «Il rischio divora e trasforma tutto. Non è la catastrofe ma l’anticipazione della catastrofe. Esistente e non esistente, presente e assente, incero e sospetto. È il nuovo mastice dell’occidente e del mondo» P. IV di copertina, Sui nuovi poteri e rapporti forza nel mondo globalizzato: «È soprattutto l’economia ad avere sviluppato un meta-potere … uscendo dalla gabbia del gioco di potere territoriale e organizzato sul piano dello Stato nazionale ed elaborando nuove strategie nello spazio digitale di fronte allo Stato radicato nella [sola] dimensione territoriale. Meta-gioco di potere significa che ci si scontra e si lotta per il potere e nello stesso tempo si cambiano le regole nazional-statali della politica mondiale», in U. Beck, Potere e contropotere nell’età globale, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 67.  .

[92] Come è stato descritto molto bene in questo studio, A. Baldassarre, Globalizzazione contro democrazia, Roma-Bari, Laterza, 2002.

[93] T. Piketty, Il Capitale nel XXI secolo, Milano, Bompiani, 20162, p. 919.

[94] L’esperienza del neoliberismo, attraverso la totale deregolamentazione e la precarizzazione dei ruoli e delle relazioni, ha definitivamente messo fuori moda la comunità, intesa come sede di condivisione di comuni conquiste realizzate congiuntamente tra i suoi componenti. Il posto di lavoro, attraverso il quale tradizionalmente si definiva lo status sociale delle persone, e tramite il quale, oggi come nel passato, ci si guadagna da vivere e, soprattutto, si mantiene o si perde la dignità e il rispetto degli altri, o non è più disponibile o è precario e sempre più flessibile, tanto che «È improbabile che un posto di lavoro flessibile diventi un punto dove voler costruire un nido», in R. Sennet, L'uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo nella vita personale, Milano, Feltrinelli,2001, p. 91. Richard Sennett sostiene che il posto di lavoro, che, nella società industriale, costituiva il contesto principale in cui si formava quella solidarietà di gruppo che alimentava la democrazia sociale, una volta precarizzato, non dispone più del tempo e delle condizioni per costruire socialità. Lo sfaldamento dei contesti di lavoro e di vita rende infatti impossibile la costruzione di comportamenti solidali rispetto ai problemi ed alle ansie comuni. Le prospettive professionali sono limitate al lavorare a progetto e, fra persone che transitano da un progetto all'altro, è indubbiamente assai difficile che si realizzi una condivisione di intenti e la solidarietà che caratterizzava il lavoro di fabbrica tra operai o in miniera tra minatori. La quotidianità è completamente assorbita dalla sola preoccupazione di riuscire a cavarsela individualmente. Non esiste spazio per condividere aspirazioni e impegno per una vita migliore per tutti. È venuto meno il terreno comune dove collegarsi per rivendicare diritti comuni e strategie solidali per realizzarli. Ciascuno è solo, sempre più solo, ed è costretto a cercare risposte individuali a contraddizioni che sono invece sistemiche, che riguardano tutti, a problemi che si vivono personalmente ma che sono produzioni sociali. Ulrick Beck, nel suo studio sull’epoca della fine del lavoro, già anni fa prevedeva il dimezzamento a livello europeo dei dipendenti con un regolare contratto di lavoro e che gli altri avrebbero dovuto accontentarsi, sempre che potesse loro accadere di riuscirci, di lavori occasionali, privi di garanzie e di diritti, in U. Beck, Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro. Tramonto delle sicurezze e nuovo impegno civile, Torino, Einaudi, 2000, pp. 21-28. Per Karl Marx un soggetto che non è libero di scegliere ed è schiacciato dalle necessità immediate vive una dimensione disumanizzante: «S’intende che l’occhio umano gode in modo diverso dall’occhio rozzo, inumano, l’orecchio umano in modo diverso dall’orecchio rozzo […]. Inoltre il senso, prigioniero dei bisogni pratici primordiali, ha soltanto un senso limitato. Per l’uomo affamato non esiste la forma umana dei cibi ma soltanto la loro esistenza astratta come cibi; potrebbero altrettanto bene essere presenti nella loro forma più rozza, e non si può dire in che cosa differisca questo modo di nutrirsi da quello delle bestie», in K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Torino, Einaudi, 1968, p. 119.

[95] Contro tali politiche abbiamo la totale critica e rifiuto da parte del sociologo Bordieu: «risutava necesseraio costruire una politica comune di coesione sociale ed economica, a partire dalle ragioni del lavoro rispetto al capitale e contro il processo di flexploiation e di liberalizzazione dei mercati finanziari, con un forte e progressivo radicamento democratico-istituzionale transnazionale», in P. Bordieu, Per un movimento sociale europeo. In Id., Controfuochi 2. Per un movimento sociale europeo, Roma, Manifestolibri, 2001, pp. 15-28.

* Già pubblicato in “Persona periodico internazionale di studi e di dibattito”, n. 1, 2021, pp. 75-104.

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