USA (NATO), Russia e Ucraina: genesi e obiettivi del "conflitto multiplo"

USA (NATO), Russia e Ucraina: genesi e obiettivi del "conflitto multiplo"

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di Alberto Bradanini*

 

Jacques Baud, ex membro dell'intelligence svizzera ed ex specialista Nato per l'Est Europa e il nucleare (2014-2017), nel libro Ukraine entre guerre et paix, (Max Milo Ed., 2023) sfida la criminalizzazione del dissenso e analizza le ragioni di strategia, legalità e legittimità internazionali della vicenda ucraina.

Secondo la Nato-Usa, afferma Baud, la guerra è stata pianificata da V. Putin per riportare la Russia sul quadrante un tempo occupato dall’Unione Sovietica. In realtà, da quando quest’ultima è implosa (1991) non si registra alcun atto o dichiarazione a sostegno di questa tesi, anzi la Russia aveva persino manifestato la volontà di entrare nell’orbita euro-occidentale, essendo divenuto persino membro del G8 e osservatore Nato. Per molti studiosi occidentali la radice della guerra ha invece natura strategica e si colloca nell’intento premeditato di Nato-Usa di accerchiare la Russia, indebolirla, sostituirne il presidente con un clone di B. Yeltsin, affinché occupazione ed estrazione di ricchezze - conclusesi con l’avvento di V. Putin – potesse riprendere il suo corso. Seguirebbe poi la frantumazione della Russia in diversi tronconi, per riservare poi analogo trattamento alla Cina, la nazione più insidiosa per l’egemonia americana nel mondo.

D’altra parte, come l’Unione Sovietica anche la Russia, seppure un po’ meno, resta troppo grande, ricca e ingombrante per l’egemonismo americano sul pianeta. Russia ed Europa poi sono naturalmente complementari: energia contro macchinari, capitali e prodotti europei di qualità, medesima religione, cultura e colore di pelle. La saldatura tra i due relegherebbe la potenza marittima Usa aldilà dell’Atlantico, lontana dall’Heartland, il cuore del mondo. Il potere passerebbe così dal mare (l’Anglosfera a guida Usa) alla terra, l’Eurasia, abitata da nazioni popolose ed effervescenti, Cina, India, paesi centroasiatici, Pakistan e via dicendo.

Il finto impegno americano, assunto all’indomani del crollo sovietico e subito infranto, di non spingere la Nato a ridosso della frontiera russa ne è la prova. Da allora, i membri dell’Alleanza Atlantica sono passati da 16 a 32, con l’ingresso si tutte le nazioni esteuropee, a eccezione di Ucraina, Georgia e Serbia.

Dopo l’espulsione dal G8 con la crisi della Crimea nel 2014, e a dispetto dell’evidente accerchiamento da parte delle basi militari Nato-Usa (basta uno sguardo sulla mappa), Putin non avrebbe comunque inviato l’esercito in Ucraina, a meno che non vi fossero state dispiegate armi nucleari o di difficile intercettazione, che costituissero una minaccia esistenziale alla sicurezza russa, perché - secondo il diritto internazionale, ritiene Baud – ciò non sarebbe bastato a rendere legale o legittimo tale eventuale intervento. In verità, sottolinea J. Baud, sono gli occidentali a dare questa spiegazione. Per Mosca, invece, le ragioni formali che rendono legittima l’operazione militare speciale sono altre, tutte riconducibili alla necessità di proteggere le popolazioni russe del Donbass.

La Nato – è così evidente - è un’organizzazione nella quale strategie, armamenti e posizionamenti sono decisi da Washington (che copre oltre il 50% delle spese), mentre il suo carattere difensivo, se mai vi è stato, è dileguato nel tempo. Nella percezione russa la narrazione occidentale che l’espansione della Nato non sarebbe una minaccia alla sicurezza della Russia e che ogni paese ha il diritto di scegliere le alleanze che crede, finge di ignorare la pratica del doppio standard. E qui bastano pochi esempi: la sfiorata tragedia di Cuba (1962), le alleanze che hanno portato alla Prima guerra mondiale (e poi alla seconda) e la Dottrina Monroe (1823), secondo cui nessun esercito non-americano sarebbe stato tollerato nell’emisfero occidentale, per le ipertrofiche ragioni di sicurezza dell’impero americano.

Per J. Baud il conflitto è stato pianificato a tavolino per provocare l’inevitabile intervento russo. Dopo aver reso l’Ucraina un paese Nato de facto (armi, consiglieri e addestramento Nato) ed esteso formale invito a Ucraina/Georgia a farne parte (G. W. Bush al vertice di Bucarest, 2008) occorreva far scoccare la scintilla. Una volta caduta in trappola, Mosca sarebbe capitolata sotto la pressione insostenibile di un’economia di guerra e delle dure sanzioni applicate dall’Occidente e da quasi tutti i paesi del mondo. V. Putin non avrebbe potuto sottarsi all’intervento, sia per il dovere etico di difendere la propria gente, sia perché convinto (erroneamente secondo Nato-Usa) che ne sarebbe uscito vincitore.

Le cose però sono andate diversamente. Il mondo non si è associato all’Occidente e la Russia non è capitolata, anzi vi ha trovato l’occasione per un chiarimento strategico con Nato-Usa. Dopo un anno e mezzo è ormai chiaro che si tratta di un conflitto multiplo Usa-diretto, tra Ucraina e Russia, tra Nato-Usa e Russia e tra Usa ed Europa, puntando sullo sfondo all’indebolimento strategico della Cina.

Con il colpo di stato del 2014 supervisionato dai servizi Usa[1] il presidente legittimo (non pregiudizialmente filorusso, come i media occidentali amano presentarlo) lascia il posto a uno illegittimo e pregiudizialmente filoccidentale. Quale primo provvedimento il nuovo governo decreta la cancellazione della cultura e della lingua russe, accendendo la miccia delle proteste nelle province russofone (secessione della Crimea e richiesta di adesione alla Russia). Per ristabilire l'ordine, Kiev, non potendo dispiegare l'esercito composto anche da russofoni, istituisce unità ultranazionaliste (battaglioni Azov e Pravyy Sector), che secondo Baud meritano l’epiteto di neonaziste sia per l’ideologia (il culto di Stepan Bandera, responsabile del massacro di centinaia di migliaia di ebrei e polacchi nel secondo conflitto mondiale), sia per la pratica di violenza (il massacro di russofoni nella sede sindacale di Odessa, nel maggio 2014, ne è il paradigma).

Si arriva così agli accordi di Minsk (2015), firmati sotto l’ombrello Osce[2] e la garanzia di Francia e Germania per la parte ucraina, e della Russia per il Donbass, accordi approvati dal Consiglio di Sicurezza delle N.U. con apposita Risoluzione[3], divenendo così massima norma internazionale pattizia.

Se fossero stati applicati, tali accordi avrebbero risolto il contenzioso, perché essi prevedevano l’autonomia linguistica sotto la sovranità ucraina. Germania e Francia, tuttavia (insieme al governo di Kiev), non hanno onorato la parola data. A. Merkel, N. Sarkozy e W. Poroscenko (all’epoca a capo dei rispettivi governi) hanno infatti candidamente confessato che quegli accordi furono firmati con l’intento di guadagnar tempo, armare l’Ucraina e far la guerra alla Russia, con un cinismo che merita la più dura delle censure. Il mondo si sarebbe aspettato ben altra condotta dalla Francia, membro permanente del CdS delle N.U.! La Germania, poi, che ama presentarsi quale paese sempre rispettoso della Legge, interna e internazionale, nasconde invece un volto fariseo, corrotto e arrogante. Poroscenko infine (ma questo non meraviglia), conferma che si può giocare persino con il destino del proprio paese e la vita della propria gente.

Il dialogo (2014) tra G. Pyatt[4] (allora ambasciatore Usa a Kiev) e Victoria Nuland - allora e tuttora sottosegretario di stato Usa, passata alla storia per il suo eloquio forbito (“fuck Europe”) - costituisce plateale evidenza della strategia e delle interferenze americane, volte a impedire ogni compromesso e pacificazione.

 Passano così altri sei/sette anni e gli scontri nel Donbass fanno oltre 14.000 morti, fino al 24 marzo 2021, quando il presidente ucraino V. Zelensky firma un decreto di mobilitazione con l’obiettivo di riconquistare la Crimea e il sud del paese, concentrando ingenti forze davanti al Donbass con l’assistenza discreta della Nato. È allora che il presidente russo si convince dell’inevitabilità dell’intervento, invocando il criterio/principio di responsibility to protect (responsabilità a proteggere), codificato dalle Nazioni Unite nel 2004-2005, cui fanno riferimento oltre 80 Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, tra cui quelle riguardanti Repubblica Centrafricana, Costa d'Avorio, Repubblica Democratica del Congo, Liberia, Libia, Mali, Somalia, Sud Sudan, Siria, Yemen e altri: che poi in alcuni di questi paesi si sia fatto strumentale ricorso a tale principio allestendo deplorevoli messinscene, come le tombe comuni sulle spiagge libiche e lo sterminio del popolo kosovaro, beh questa è ancora un’altra storia. Nel Donbass le vittime ci sono state e anche tante.

Il principio di responsibility to protect è centrato su tre pilastri: a) ogni stato ha l’obbligo di proteggere la propria popolazione. Se il governo di Kiev l’avesse fatto, i 14.000 suoi concittadini del Donbass non sarebbero morti; b) il secondo pilastro è il ruolo dei paesi vicini o alleati che avrebbero potuto assistere l'Ucraina. Qui, la contraddizione è ancor più manifesta, dal momento che gli accordi di Minsk, come detto sopra, erano stati firmati da parte ucraina e franco-tedesca nel presupposto che non sarebbero stati rispettati; c) il terzo pilastro, infine, contempla il possibile intervento di altri paesi a difesa delle popolazioni in pericolo, e questo chiama in causa la Russia.

Sebbene la responsibility to protect – secondo J. Baud - non sia un principio internazionale di piena legalità, essa appartiene tuttavia alla categoria della legittimità (secondo le statuizioni delle Nazioni Unite), implicando il diritto morale/politico a intervenire in difesa di popolazioni aggredite, mentre il termine legalità implica il diritto formale-legale di farlo. In definitiva, ad avviso di Baud, nel Donbass sussistevano in quel momento sufficienti condizioni per legittimare l'intervento russo, tanto più che si trattava di popolazioni etnicamente e linguisticamente russe.

Non solo, per rafforzare la legalità, il giorno prima dell’avvio dell’operazione militare speciale (21 febbraio 2022), la Russia procede al riconoscimento formale delle due repubbliche autoproclamatesi indipendenti di Donetsk e Lugansk (riconoscimento che sino ad allora Mosca aveva rifiutato di concedere nel rispetto degli accordi di Minsk, i quali come detto implicavano il mantenimento della sovranità ucraina sul Donbass) e alla stipula di un trattato di assistenza reciproca. A seguire, con il via libera della Duma – pur tirando un po’ il contesto per i capelli, ma nel rispetto del diritto internazionale - Mosca invoca l'articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite[5], che in caso di aggressione consente la legittima difesa senza previa autorizzazione del Consiglio di Sicurezza e ordina all’esercito di passare la frontiera.

A guerra avviata, quale fisiologica evoluzione di ogni conflitto – sottolinea J. Baud - gli obiettivi russi si arricchiscono di altre dimensioni: no all’ingresso formale di Kiev nella Nato, o anche solo de facto come stava avvenendo, demilitarizzazione e denazificazione, vale a dire eradicazione della destra estrema dai gangli statuali dell’Ucraina.

Un aspetto che concerne i diritti umani, rileva J. Baud, su cui l’informazione occidentale stende un pietoso velo, riguarda la legislazione ucraina sulle minoranze etniche. Il 1° luglio 2021 Kiev promulga una norma che prevede diritti diversi per cittadini ucraini su basi etniche. In tempi moderni, solo il nazismo aveva approvato una simile legislazione: nel 1935 con le leggi di Norimberga ai cittadini tedeschi non ebrei vengono riconosciuti diritti negati ai cittadini tedeschi di etnia ebraica. Oggi come allora allo Stato (ucraino) non importa quel che fa un cittadino, ma solo quel che è. Un vulnus valoriale assoluto, slegato dalla responsabilità personale, che incide sulla costituzione naturale dell’essere umano. Tale legge conferma il carattere neonazista di una parte della dirigenza di Kiev, come provano altre evidenze, tra cui immagini di carri armati con la bandiera neonazista di Prevyy Sector, che sostiene la purezza della razza ucraina. È in quell’occasione che l’allora presidente ucraino Poroshenko afferma: “I nostri figli andranno negli asili e nelle scuole, i loro (i russi, n.d.r.) vivranno nelle cantine[6]”.

Va detto che anche altre minoranze soffrono in Ucraina abusi e discriminazioni, tra cui quella ungherese e quella rumena, che abitano in Transcarpazia, estremo ovest dell'Ucraina.

Quanto alle accuse di crimini di guerra rivolte alla Russia, J. Baud concorda con il ministro degli Esteri svizzero, Ignazio Cassis, secondo il quale un crimine è tale solo quando un'indagine imparziale e indipendente lo abbia dimostrato, nel rispetto delle procedure previste dal diritto internazionale. A Bucha, un'indagine con tali caratteristiche non ha mai avuto luogo, e se ve ne fosse una anche la Russia dovrebbe farne parte, diversamente da quanto avvenuto nel caso dell'aereo MH 17 abbattuto sui cieli dell'Ucraina nel 2014.

In proposito, J. Baud rileva che alcuni giornalisti americani hanno indagato su Bucha[7] senza che emergesse alcuna prova che i russi abbiano commesso crimini di guerra. Del resto, non è un caso, di Bucha nessuno parla più. Nel caso dei bambini presuntamente deportati dall’esercito russo, poi – un’accusa che ha portato all’incriminazione di V. Putin da parte della Corte Penale Internazionale, continua J. Baud – gli stessi giornalisti hanno accertato che i bambini erano stati allontanati per essere messi in salvo e con il consenso dei genitori, poiché Donetsk veniva bombardata dagli ucraini. È anche emerso che i presunti campi di concentramento nei quali i bambini sarebbero stati rinchiusi erano alberghi dotati di ogni confort. La maggior parte di essi è poi tornata dai genitori, alcuni dei quali hanno negato di aver inviato i loro figli in Russia per paura della rappresaglia ucraina, mentre per gli orfani sono state adottate altre misure.

Occorrerebbe inoltre avere a mente le riflessioni del politologo della Chicago University, J. Mearsheimer, secondo il quale se la Russia avvertisse l’avvicinarsi di una sconfitta, i rischi di escalation nucleare si aggraverebbero. Per il bene di tutti, dunque, occorrerebbe darsi da fare affinché ciò non avvenga. Coloro che hanno il potere di porre fine alle ostilità – decretare un cessate il fuoco, congelare le truppe sul terreno e aprire un tavolo di negoziato – portano l’enorme responsabilità di difendere la vita sul pianeta, un obiettivo che supera ragioni o torti delle parti in conflitto. Le guerre, del resto, finiscono sempre con la vittoria di una delle parti o con un compromesso, che a sua volta comporta sacrifici: tertum non datur.

Vale infine la pena richiamare alla memoria il capolavoro di G. Orwell “1984”, nel quale l’autore afferma che la guerra, una volta divenuta endemica, viene assorbita quale fenomeno naturale e sine die, che finisce per non distinguersi più dalla pace. Il suo obiettivo non è la sconfitta del nemico, ma il mantenimento dello status quo tra le classi all’interno di un sistema politico-istituzionale. Essa ha dunque lo scopo di tutelare potere e ricchezze di coloro che siedono in cima alla piramide, servendosi delle classi funzionali: politici, giornalismo/media, accademia e burocrazia, servizi di sicurezza, soldati, forze dell’ordine. In tale scenario, il controllo della narrativa è essenziale, per dividere amici e nemici, mescolare verità e menzogna, diffondere paure e instabilità, disarticolare il fronte della resistenza contro il nemico principale, l’imperialismo, i produttori di armi, i generatori di conflitti, nemici di chiunque difenda la sovranità, l’indipendenza e la giustizia, sia tra le nazioni che al loro interno.


NOTE

[1] Le evidenze sono numerose, tra cui l’eloquente colloquio Nuland-Pyatt del gennaio 2014, ormai scolpito nella storia

[2] Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa

[3] https://press.un.org/en/2015/sc11785.doc.htm

[4] https://www.france24.com/en/20140207-ukraine-usa-eu-nuland-leaked-audio

[5] Article 51: “Nothing in the present Charter shall impair the inherent right of individual or collective self-defence if an armed attack occurs against a Member of the United Nations, until the Security Council has taken measures necessary to maintain international peace and security. Measures taken by Members in the exercise of this right of self-defence shall be immediately reported to the Security Council and shall not in any way affect the authority and responsibility of the Security Council under the present Charter to take at any time such action as it deems necessary in order to maintain or restore international peace and security.

[6] https://sakeritalia.it/video/i-nostri-figli-andranno-negli-asili-e-nelle-scuole-i-loro-vivranno-nelle-cantine-p-poroshenko/

[7] https://lecourrierdesstrateges.fr/2022/04/04/ukraine-recits-contradictoires-sur-le-massacre-de-bucha/; https://dernieres-nouvelles.com/bucha-doit-faire-lobjet-dune-enquete-appropriee-et-non-etre-utilise-a-des-fins-de-propagande-rt-russie-et-ex-union-sovietique/; https://brunobertez.com/2022/04/09/a-propos-de-bucha-il-y-aurait-des-temoignages-de-journalistes-francais-qui-contredisent-les-massacres/; e altri


* Alberto Bradanini è un ex-diplomatico. Tra gli incarichi ricoperti, è stato anche Ambasciatore d’Italia a Teheran (2008-2012) e a Pechino (2013-2015). È attualmente Presidente del Centro Studi sulla Cina Contemporanea. È autore di saggi e libri, tra cui “Oltre la Grande Muraglia” (2018), “Cina, l’irresistibile ascesa” (2022) e “Dall’ umanesimo di Nenni alle sfide del mondo multipolare” (2023)

Il testo è una versione approfondita e rivista del saggio pubblicato su la Fionda il 14 agosto scorso

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