Amazon apre 2 nuovi centri in Italia e i giornali degli Elkann esultano

Amazon apre 2 nuovi centri in Italia e i giornali degli Elkann esultano

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Amazon apre due nuovi centri in Italia e i giornali degli Elkann esultano, come peraltro tutti gli altri. Previsti 1100 posti di lavoro, annunciano, senza fare la tara alle promesse (non vengono mantenute mai e ciò nonostante i giornalisti le spacciano sempre come fatti) e soprattutto senza domandarsi quanti posti di lavoro andranno persi nel piccolo commercio. Per cui pongo la domanda politica chiave di questo momento storico: chi sta oggi dalla parte della classe media? dei lavoratori ma anche dei piccoli e medi imprenditori e professionisti? Non chi sta “anche” dalla loro parte, generalmente a chiacchiere, come Salvini e il suo modello, Trump, o come il Pd e il suo modello, il partito democratico americano. No, troppo facile. La mia domanda è: chi in Italia fa totalmente ed esclusivamente gli interessi (di classe) della classe media e di conseguenza include nel suo programma un esplicito attacco al potere e alla ricchezza dei miliardari e delle loro multinazionali?
La domanda è un invito al M5S di diventare questa forza; non perché possa imporsi nelle attuali condizioni di individualismo e liberismo diffusi: ancora per anni, nel migliore dei casi, serviranno compromessi. Ma è indispensabile che ci sia almeno un partito che cominci ad aggregare i tanti che lo sviluppo fine a sé stesso e a obsolescenza programmata sta marginalizzando.
 
Perché non cominciare da Amazon? Cosa offre, la più ricca, invasiva e prepotente corporation del pianeta? Un servizio. Ma il suo scopo non è il bene comune o nazionale bensì l’osceno arricchimento di Jeff Bezos (fortuna personale intorno ai 180 miliardi di dollari, che è poco meno dell’ammontare dell’intero Piano nazionale (e quinquennale si badi) di ripresa e resilienza dell'Italia), di altri supermanager e di avidi speculatori. Al prezzo, altissimo, di uno sfruttamento sistematico dei lavoratori e della distruzione altrettanto sistematica delle piccole e medie imprese commerciali – niente di meno dunque che l’impoverimento, materiale e politico, della classe media, meglio se approfittando di un periodo di sofferenza e crisi (infatti dall’inizio dell’epidemia il patrimonio di Bezos è cresciuto di più di un terzo).
Per di più non c’è alcuna grande idea dietro Amazon: solo l’uso spregiudicato delle nuove tecnologie e delle difficoltà inizialmente incontrate dagli Stati nazionali a regolarle; un ritardo fatale in quanto ha consentito a queste multinazionali di diventare ricchissime (in particolare approfittando di lacune giuridiche per non pagare le tasse dovute) e una volta tali di comprarsi l’appoggio di politici e giornalisti grazie alle loro lobby (parola, non a caso proveniente dagli Stati Uniti, che sancisce il diritto di corrompere legalmente) in modo da avere facilitazioni, favori, esenzioni, ulteriore deregulation e di mettere a tacere le resistenze antimonopolistiche.
Non credo che sia possibile nel breve o medio termine fermare la folle corsa verso un commercio privo di socialità come quello online, in cui il consumismo serve solo a soddisfare desideri egoistici e istantanei, incontrollati, senza neppure quel momento di verifica, riflessione, condivisione che la pur breve interazione con un negoziante o un commesso comportava, in un ambiente esterno e reale come un negozio: a trionfare è l’esperienza solipsistica dell’acquisto sullo schermo del proprio smartphone o computer, così simile alla riduzione della sessualità a una masturbazione davanti alla libera pornografia di internet (il grande obiettivo e il grande successo dei radicali italiani).
 
Ma qualcosa si potrebbe fare: nazionalizzare Amazon, come un tempo si nazionalizzarono, in parecchi paesi e anche in Italia, le imprese elettriche, le compagnie telefoniche e televisive, le banche. Durante il miracolo economico di metà novecento ma anche prima, durante il fascismo, quando la destra, almeno, era anche conservatrice e patriottica e non semplicemente il braccio politico del peggior liberismo globalista. Stessa cosa con Uber, Google, Facebook e tutte quelle multinazionali che non fanno altro che imporre esosi dazi per il passaggio e diffusione delle informazioni, come un tempo i brutali signorotti medievali li ponevano per consentire l’attraversamento di un ponte abusivamente occupato dai loro sgherri.
 
Tutti questi servizi devono essere controllati dallo Stato, che li deve offrire non per far soldi ma per migliorare la qualità della vita dei cittadini. E a chi obiettasse che senza l’incentivo del profitto personale diventerebbero meno efficienti, rispondete che eguaglianza, giustizia, democrazia e sostenibilità sono valori molto più importanti dell’efficienza, usata peraltro solo per accumulare mostruosi surplus da regalare a pochi squali, nonché dimenticata (l’efficienza) non appena abbiano raggiunto un’intoccabile posizione di monopolio. Come le industrie della sanità, dell’educazione e dell’informazione negli Stati Uniti, rigorosamente private e a scopi di lucro e che quotidianamente Renzi, Salvini e Meloni vi propongono come modelli: bè, sono fallimentari, oltre che esosissime, ormai capaci di offrire ottimi servizi a una piccola parte della popolazione, quella ricca, e che tuttavia sopravvivono e si espandono grazie alla corruzione, a una immensa campagna di disinformazione e alla diffusione di ideali individualistici, consumistici e asociali che trasformano i poveri in perdenti che o si rassegnano o si illudono di potersi emancipare attraverso l'egoismo o l'edonismo.
 
L’Italia non è ancora così ma lo sta diventando; lo diventerà se tutte le persone di buona volontà non la smettono, immediatamente, di indignarsi solo per i capricci mediatici di Renzi invece che della ulteriore crescita del potere dei suoi burattinai.

Francesco Erspamer

Francesco Erspamer

 

Professore di studi italiani e romanzi a Harvard; in precedenza ha insegnato alla II Università di Roma e alla New York University, e come visiting professor alla Arizona State University, alla University of Toronto, a UCLA, a Johns Hopkins e a McGill

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