Bilancio globale, investimenti e disoccupazione. Il Rapporto McKinsey che fotografa 2 interi decenni

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Bilancio globale, investimenti e disoccupazione. Il Rapporto McKinsey che fotografa 2 interi decenni



di Leo Essen per l'AntiDiplomatico


Alla fine del 2021 McKinsey pubblica un rapporto sullo Stato Patrimoniale globale: The rise and rise of the global balance sheet (La crescita inarrestabile del bilancio globale) – mckinsey.com.

Dal 2000 al 2021, si legge nel rapporto, il patrimonio netto globale è triplicato. L'aumento riflette prevalentemente incrementi di valore degli asset, in particolare immobili, piuttosto che investimenti in attività produttive.

Il sottotitolo del rapporto chiarisce l'intento della ricerca: In che misura usiamo produttivamente la ricchezza prodotta? (How productively are we using our wealth?).

In dieci paesi – si legge nel rapporto – paesi che rappresentano circa il 60% del PIL globale - Australia, Canada, Cina, Francia, Germania, Giappone, Messico, Svezia, Regno Unito e Stati Uniti [l'Italia è uscita dal giro]  - il legame storico tra la crescita del patrimonio netto e la crescita del PIL non regge più. Il patrimonio è cresciuto senza una crescita corrispondente del reddito: conti economici piatti e stati patrimoniali schizzati in alto.

Come è possibile?

E' possibile che il nostro conto in banca cresca anche quando lo stipendio è a zero?

Cresce per effetto della rendita, direte voi.

No. Perché in un bilancio consolidato globale le rendite si pareggiano con gli esborsi, ciò che per un attore economico è attivo per un altro e passivo.

Un eccesso di risparmio, si legge nel rapporto, ha faticato a trovare investimenti che offrissero un ritorno economico – un plusvalore. Gli imprenditori - aggiungo io – avevano (giustamente) paura di investire, temevano di non veder ritornare nemmeno il capitale iniziale. E il ritorno economico (ROI) è ciò che fa aumentare il patrimonio netto.

Negli ultimi 2 decenni, gli investenti netti, rispetto al PIL, sono stati bassi e in costante calo, in particolare nelle economie avanzate, contribuendo solo per il 28% alla crescita del patrimonio netto. Il restante 77% (-5% di passività finanziarie nette con il resto del mondo) riflette un aumento dei prezzi, giustificato solo per il 50% dall'aumento dell'inflazione.

Vista la situazione, chiede il rapporto, è salutare per l'economia che il motore della crescita della ricchezza sia principalmente costituito dagli aumenti dei prezzi della ricchezza esistente e non dagli investimenti in attività produttive di nuova ricchezza?

Il modo più intelligente di procedere, dicono, sarebbe reindirizzare il capitale verso nuovi investimenti produttivi e innovazioni che accelerino la crescita economica.

Innovazione e investimenti, certo! Ma tutto ciò va contro ogni ragionevole buon senso economico. Nessun imprenditore sano di mente investirebbe un soldo sapendo di perderlo. E lo perderebbe perché si è raggiunto un limite, e il rapporto lo dice a chiare lettere, un limite (per riprendere le arcinote parole di Marx dei Lineamenti), per cui il furto di tempo di lavoro altrui (il ROI), sul quale si basa la ricchezza, si presenta come una base miserabile – ridotta all'osso - in rapporto al prodotto finito o alla massa di immobilizzazioni.

Pertanto, nessun investimento aggiuntivo e nessuna invenzione mirabolante, nemmeno l'intelligenza artificiale, possono imporre, oltre un certo limite, la riduzione del tempo di lavoro necessario per creare lavoro eccedente (disoccupazione).

Leo Essen

Leo Essen

Ha studiato all’università di Bologna con Gianfranco Bonola e Manlio Iofrida. È autore di Come si ruba una tesi di laurea (K Inc, 1997) e Quattro racconti al dottor Cacciatutto (Emir, 2000). È tra i fondatori delle riviste Il Gigio e Da Panico. Scrive su Contropiano e L’Antidiplomatico.

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