Dall'uno vale uno all'uno vale zero?

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di Giulio Di Donato

"Non posso aderire ad un semplice programma politico e neanche ad un manifesto morale, che non 'comandi un'azione visibile' che non assomigli ad 'un grido dell'anima', scritto da uomini per altri uomini... urgente, drammatico, popolare... dove per popolare si intenda gli altri, andare verso gli altri, 'come vero e proprio atto d'amore'... intendendo per popolo non un mito, ma tutti gli uomini che hanno bisogno di migliorare e di migliorarsi." (Cesare Zavattini, lettera a M. Alicata)


Come è stata possibile la parabola di Luigi Di Maio e dei tanti come lui? 

Per rispondere a questa domanda bisogna tornare alle vicende iniziali del M5S e riflettere criticamente sui processi di formazione e selezione della classe dirigente grillina. 

Vista dall’esterno e col senno di poi, ci troviamo alle prese con una sorta di selezione naturale in cui hanno prevalso le persone dotate di maggiore carisma e abilità comunicativa, dove l’elemento della fiducia personale, pure importante, contava di più e a prescindere dall’elemento politico. Mentre c’era chi, come ad esempio Alessandro Di Battista, era animato da uno slancio politico-ideale forte e sincero e ha fatto un suo personale percorso (nei non luoghi della politica attuale non c’è spazio per esperienze in comune di acquisizione di saperi e conoscenze) in vista di una sempre maggiore consapevolezza politica, c’era chi, come Di Maio, partiva solo da un generico e impolitico rancore anti-casta e da un desiderio feroce di riscatto individuale, quindi era potenzialmente pronto a servire i più diversi interessi se questi combaciavano con le proprie ansie di collocamento e ricollocamento nei palazzi del potere.

Luigi Di Maio ha incarnato, si può allora dire, la versione trash del realismo politico e del rampantismo tardo-democristiano: alla base del suo attivismo nessun senso di giustizia sociale e di legalità democratica, ma un mix di invidia sociale, bramosia di potere fine a se stessa e familismo/amichettismo amorale. In molti della galassia grillina oltre la battaglia sacrosanta per un ricambio a livello di classi dirigenti c’era poco altro: non una particolare visione del mondo, ma nemmeno una grande idea, che non fosse la rottamazione del vecchio, per cui valeva la pena di battersi. 

Insomma, fare seriamente i conti le miserie umane e politiche di Di Maio et similia significa rivedere criticamente alcuni assunti iniziali, che poi si sono rovesciati nel loro esatto contrario: la retorica dell’orizzontalità si è tradotta in dinamiche di cooptazione spesso assai opache, il culto della solitudine dei puri si è tramutato nell’ossessione per le mediazioni e i compromessi, l’opposizione barricadera in governismo subalterno, il dubitare di tutto in ingoiare tutto, l’ostilità al mainstream nell’adesione alle parole d’ordine del progressismo delle élite, eccetera eccetera. Dall’uno vale uno si è così passati all’uno vale zero (vedi Di Maio) e all’uno al di sopra dei molti lasciati in uno stato di passività e impotenza (vedi Grillo e Conte). 

A questo tipo di esiti, all’insegna della peggiore autoreferenzialità e dei peggiori opportunismi, bisogna rispondere investendo su una idea di dialettica positiva tra orizzontalità e verticalità, tra istanze partecipative dal basso e ruolo imprescindibile di guida, di indirizzo e di formazione/selezione dall‘alto. Perché la volontà politica è sempre il frutto di un processo di maturazione e di connessione, anche sentimentale, tra alto e basso.

Chi ricopre ruoli di leadership è chiamato quindi a formare e valorizzare le migliori sensibilità, giudicando il singolo attivista più dal punto di vista della passione e dell‘intelligenza politica, che dal punto di vista della sue qualità individuali. Perché delude e tradisce più facilmente chi non crede a nulla che non sia il proprio particulare, ovvero chi non sente dentro di sé, per tornare alla citazione iniziale di Zavattini, quel “grido dell’anima” urgente, drammatico, nazionale-popolare “scritto dagli uomini per altri uomini”, nel nome del senso dell’autonomia della politica e del senso della giustizia sociale.

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