I Drone Papers e "la burocrazia della morte" sotto Obama: il caso Daniel Hale
di Giacomo Gabellini per l'AntiDiplomatico
Il 27 luglio 2021, la Corte Distrettuale della Virginia presieduta da Liam O’Grady ha condannato Daniel Hale, giovane specialista dell’intelligente con trascorsi presso la Us Air Force (Usaf) e la National Security Agency (Nsa), a 45 mesi di reclusione ai sensi dell’Espionage Act. La legge, approvata unitamente al Trading with the Enemy Act subito dopo l’ingresso degli Stati Uniti nella Prima Guerra Mondiale e poi emendata con il Sedition Act (e più volte in futuro attraverso numerosi provvedimenti), configurava come tipologia di reato l’espressione di “opinioni sleali” nei confronti del governo e dell’esercito statunitense, ed inaspriva le pene prevista dal Defense Secrets Act del 1911 per la divulgazione di informazioni sensibili in materia di sicurezza nazionale.
I fatti accertati dalla Corte Distrettuale della Virginia risalgono all’aprile del 2013, quando Hale allacciò un canale di comunicazione – diretto, oltre che via telefono, sms, e-mail e piattaforme di messagistica crittografata – con Jeremy Scahill, giornalista della testata telematica «The Intercept», trasmettendogli informazioni confidenziali raccolte durante la sua esperienza presso l’Usaf e la Nsa. Nel febbraio 2014, mentre lavorava come appaltatore del Dipartimento della Difesa presso la National Geospatial-Intelligence Agency (Nga), fotocopiò numerosi documenti classificati del Pentagono, alcuni dei quali furono poi pubblicati da «The Intercept». Più specificamente, spiega il Dipartimento di Giustizia statunitense, nel lasso di tempo preso in esame «Hale ha stampato 36 documenti Top Secret, 23 dei quali non correlati al suo lavoro presso Nga. Di questi, Hale ne ha forniti almeno 17 alla testata online, che li ha pubblicati del tutto o in parte. Ben 11 dei documenti pubblicati recavano il contrassegno “Top Secret” o “Secret” […]. Nell’agosto 2014, nella rubrica del telefono cellulare di Hale figurava il contatto del giornalista a cui aveva fornito i documenti. La sua pen-drive conteneva una pagina recante il contrassegno “Secret” estratta da un documento classificato che Hale aveva stampato nel febbraio 2014. Inoltre, Hale possedeva sul suo computer di casa un altro documento sottratto dagli archivi della Nga».
I documenti incriminati attenevano alle “deludenti” performance realizzate nell’epoca di Obama – sotto la cui amministrazione si registrò un utilizzo di velivoli senza pilota di gran lunga più intenso rispetto a quello che aveva caratterizzato il predecessore – nei teatri di battaglia di Somalia, Yemen e Afghanistan dai droni guidati da remoto da specialisti dell’aeronautica militare statunitense. I cosiddetti Drone Papers evidenziano che la campagna di “eliminazioni mirate” condotta dal Joint Special Operation Command (Jsoc) statunitense scontava “carenze critiche” in materia di disponibilità di mezzi e di individuazione dei bersagli da colpire. Lacune che erano state rilevate da una task force del Dipartimento della Difesa specializzata in Intelligence, sorveglianza e ricognizione (Isr), secondo cui la limitata presenza di personale militare statunitense sul campo e la complessa geografia delle aree interessate rendeva la localizzazione degli obiettivi eccessivamente dipendente dalla captazione di segnali elettromagnetici (Sigint) emanati da apparecchiature (computer e telefoni cellulari) in loro possesso, nonostante il ricorso a Sigint venga bollato all’interno dei documenti classificati consegnati da Hale a «The Intercept» come una forma inferiore di intelligence, in virtù della sua scarsa affidabilità. Sigint richiede infatti difficili e complesse verifiche a più livelli in grado di fornire riscontro e corretta interpretazione dei segnali intercettati, in assenza delle quali si corre il rischio di mancare il bersaglio, di causare decine e decine di “vittime collaterali” nel tentativo di colpirlo o di provocare stragi di innocenti per fraintendimento dei segnali elettromagnetici captati. «Una volta che la bomba esplode – ha confidato a Glenn Greenwald e Jeremy Scahill un ex pilota di droni – sai soltanto che il telefono [associato all’obiettivo da colpire] si trovava lì, ma non sai chi c’è dietro, chi lo sta tenendo. Naturalmente si presume che il telefono appartenga a un “nemico combattente”. Potrebbe trattarsi effettivamente di terroristi, oppure di loro famigliari che non hanno nulla a che fare con le attività del bersaglio». Un po’ come sparare alla cieca.
Nella loro analisi critica, gli analisti del Pentagono parlano inoltre di “tirannia della distanza”, in riferimento ai problemi, in termini di autonomia dei velivoli a disposizione e di concentrazione dei piloti chiamati a manovrarli, posti dallo sterminato spazio geografico che i ricognitori erano costretti a percorrere per raggiungere le aree interessate decollando dalla base Usa di Gibuti, all’imboccatura del Mar Rosso. A differenza dell’Iraq, dove l’80% circa delle operazioni afferiva a territori siti a non più di 150 km dalla base aerea statunitense più vicina, in Somalia e Yemen occorreva “rincorrere” obiettivi distanti tra i 500 e i 1.000 km. Gli autori della disamina denunciano inoltre l’inadeguatezza del “parco droni” a disposizione, da un punto di vista sia quantitativo che qualitativo; all’epoca in cui fu redatto il rapporto (2013), soltanto una minima parte dei Reaper in dotazione montava telecamere ad alta definizione in grado di assicurare un accurato monitoraggio del terreno.
L’elevata carica distruttiva che caratterizza le “eliminazioni mirate” perpetrate attraverso i droni, proseguono gli analisti del Pentagono, altera per di più in maniera irreparabile la “scena del crimine”, epurandola di qualsiasi elemento utile (telefoni, computer, agende, biglietti manoscritti, testimoni da interrogare, ecc.) all’identificazione di futuri obiettivi. La scarsità di materiale analizzabile a fini di intelligence dovuta all’abuso di questo genere di operazioni ha spinto Pentagono e Cia ad approvvigionarsi di informazioni sensibili dai servizi di sicurezza locali, finendo non di rado per farsi manipolare – più o meno inconsapevolmente – da questi ultimi, come denunciato all’interno di un dettagliatissimo rapporto redatto dal generale John Abizaid e dalla funzionaria del Dipartimento della Difesa Rosa Brooks. Esattamente quanto denunciato da alcuni alti funzionari dell’intelligence Usa, che nel 2011 rivelarono al «Wall Street Journal» di aver assassinato un governatore regionale yemenita su indicazione dei loro omologhi locali, i quali avrebbero tuttavia deliberatamente omesso di segnalare la sua presenza a una riunione di rappresentanti di al-Qaeda.
In definitiva, dai documenti passati da Hale a «The Intercept» emerge che sotto l’amministrazione Obama si era instaurata una sorta di “burocrazia della morte” facente capo alla Casa Bianca e preposta all’approvazione di ogni singolo obiettivo da inserire nella “kill list”, previa identificazione dello stesso sulla base di controverse e inaffidabili analisi dei metadati e delle comunicazioni elettroniche, anziché di informazioni raccolte e debitamente riscontrate dalla rete di confidenti e agenti sul campo. Con esiti a dir poco sconcertanti. Si parla di appena 35 obiettivi eliminati sulle 219 persone uccise complessivamente in Afghanistan tra il gennaio 2012 e il febbraio 2013 nell’ambito dell’Operazione Haymaker, e di almeno 2.400 vittime (tra cui almeno 273 civili) mietute sempre dai droni statunitensi in Pakistan, Yemen e Somalia sotto l’amministrazione Obama. Stando a uno studio condotto da una squadra di consulenti militari statunitensi nel 2013, nel corso di un solo anno in Afghanistan- dove ha avuto luogo la maggior parte degli attacchi dei droni – i veicoli senza pilota avevano probabilità di causare vittime civili dieci volte superiori rispetto agli aerei convenzionali, a dispetto delle rassicurazioni fornite da Obama circa l’accuratezza degli attacchi condotti con i droni nel discorso pronunciato dinnanzi alla National Defense University nel maggio dello stesso anno. Allora, l’ex senatore dell’Illinois dichiarò che «prima di ogni attacco, occorre raggiungere la quasi-certezza che nessun civile sarà ucciso o ferito. Va rispettato il più elevato alto standard di sicurezza che siamo in grado di stabilire. Limitando l’impatto della nostra azione a coloro che vogliono ucciderci senza colpire persone tra cui i nostri nemici si nascondono, stiamo definendo la linea di azione che ha le minori probabilità di provocare vittime innocenti».
Dinnanzi alla corte incaricata di giudicarlo, Daniel Hale ha assunto la responsabilità delle proprie azioni premurandosi tuttavia di specificarne apertis verbis il movente: l’esigenza di espiare la propria partecipazione a una campagna di “omicidi mirati” culminata con l’assassinio di migliaia di civili innocenti. Una colpa che Hale condivide su scala incomparabilmente minore con ciascun componente della “burocrazia della morte” allestita dall’amministrazione Obama, ma che avverte in misura di gran lunga maggiore. Lo si evince dall’incipit della lettera manoscritta che il giovane analista trascinato sul banco degli imputati ha indirizzato al giudice O’Grady, costituito dall’amara valutazione formulata in merito all’impiego dei droni dall’ammiraglio della Us Navy Gene LaRocque: «Ora – dichiarò LaRocque nel 1995 – uccidiamo le persone senza mai vederle. Ora è sufficiente premere un pulsante a migliaia di chilometri di distanza. Dal momento che l’intera operazione avviene da remoto, non c’è rimorso… E alla fine torniamo a casa in trionfo».
La severità del verdetto di condanna emesso dalla Corte Distrettuale della Virginia – che ne ha comunque riconosciuto il coraggio – nei confronti di Hale e il trattamento a dir poco scandaloso che gli è stato riservato presso il carcere di Northern Neck risultano perfettamente coerenti con la linea d’azione mantenuta dall’establishment statunitense nei confronti di Daniel Ellsberg, di Edward Snowden, di Chelsea Manning, di Julian Assange e di qualsiasi altro divulgatore di informazioni classificate, puntualmente bollato come “nemico pubblico” a prescindere dal contenuto dei documenti segreti pubblicati. Come ha rilevato il «New York Times», gli Stati Uniti hanno iniziato a fare un uso strutturale «della legge sullo spionaggio come strumento per perseguire i funzionari che hanno fornito informazioni al pubblico attraverso i giornalisti, al contrario delle spie vere e proprie» proprio sotto quell’amministrazione Obama di cui Hale, Snowden e Assange hanno svelato crimini, ipocrisie, abusi e misfatti.