Intervista con Abboud Hamayel. Grammatica della resistenza: ripensare la Palestina oltre la pietà e la paura

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Intervista con Abboud Hamayel. Grammatica della resistenza: ripensare la Palestina oltre la pietà e la paura

 

di Pasquale Liguori*

È sempre più difficile parlare della Palestina senza scivolare in uno dei due registri dominanti del discorso occidentale: da un lato l’umanitarismo, che commuove ma non destabilizza; dall’altro il realismo strategico, che calcola ma non immagina. In entrambi i casi, la resistenza palestinese viene svuotata: ridotta a patologia emotiva, oppure esclusa dai parametri della razionalità politica. Quando non è commiserata, è criminalizzata. E sempre più spesso, questa criminalizzazione assume i tratti familiari dell’islamofobia: la resistenza è rappresentata come terrorismo, la sopravvivenza come minaccia, il pensiero come potenziale radicalizzazione.

Eppure, mentre in Europa si moltiplicano le manifestazioni “per Gaza”, spesso segnate da un risveglio delle coscienze tardivo, condizionato, quando non addirittura autoassolutorio, resta una lezione che nessuna indignazione intermittente può offuscare: la resistenza palestinese esiste da prima, resiste oggi e continuerà — non come reazione disperata, ma come proposta di mondo. È una resistenza che pensa, crea, disegna futuri. Non chiede legittimazioni dall’alto, ma interpella ogni coscienza politica che non si rassegni all’ordine imperiale.

Abboud Hamayel, intellettuale e teorico palestinese noto anche come Omar Abdaljawad, parla da dentro questa resistenza. La sua voce non si presta a pacificazioni morali né a estetizzazioni del lutto. Con la sua elaborazione teorica, la Palestina torna a essere ciò che da decenni si tenta di neutralizzare: un nodo centrale dell’immaginazione politica globale.

L’intervista che segue nasce da una consapevolezza amara ma necessaria: troppe delle narrazioni contemporanee oscillano tra la pietà e la paura, tra l'empatia selettiva e l’autocensura. Ma la Palestina non è un’eccezione tragica da gestire con sobrietà istituzionale: è un terreno di conflitto, sì, ma anche di pensiero radicale. È il luogo in cui la parola “liberazione” conserva ancora un significato non metaforico.

Hamayel smaschera l’inconscio coloniale che struttura il linguaggio internazionale e rivendica la necessità di una resistenza epistemologica che rompa con le grammatiche dominanti. Non parla della Palestina, ma dalla Palestina. E così facendo, ci ricorda che resistere non significa solo combattere, ma anche pensare. Pensare altrimenti. Pensare contro. Pensare oltre.

Quella che segue non è un’intervista ossequiosa. È un confronto vivo, tagliente, sulla possibilità di riscrivere il tempo, la soggettività e il futuro, partendo da un punto che l’Occidente continua a voler sotterrare: la lucidità strategica di un popolo che ha imparato a trasformare la catastrofe in orizzonte.

Nella rappresentazione mediatica egemone della Palestina in Occidente, i palestinesi sono spesso ridotti alla figura dell'eterna vittima ideale. Anche nei media apparentemente sensibili alle istanze palestinesi, questa rappresentazione serve a suscitare una compassione superficiale e sentimentale che offre poco sostegno reale a chi vive sotto assedio, in prigione o in esilio. Quando i palestinesi resistono, vengono perlopiù bollati come terroristi. Gli stessi media riducono il diritto - e il dovere - di combattere l'oppressione, l'apartheid e il furto di terra a una vaga astrazione. Ciò è stato evidente nella condanna generalizzata del 7 ottobre, che non ha tenuto conto del contesto storico e geopolitico. Un simile impianto narrativo pretende il diritto di concedere o negare soggettività a un popolo che resiste da quasi un secolo. Quali sono le origini di questa narrazione della Palestina e in che modo può contribuire - direttamente o indirettamente - al genocidio in corso del popolo palestinese? Il discorso occidentale mainstream continua a intrappolare la Palestina tra i poli dei “diritti umani” e del “terrorismo”. È possibile interrompere questa dicotomia che sterilizza la realtà coloniale del conflitto?

Una volta rispondevo a questa domanda nel modo più diretto possibile: che agli oppressi - ai palestinesi, in questo caso - è concesso di gridare, di dare un nome alle loro ferite, di diventare riconoscibili all’interno dei copioni prefabbricati dei “diritti umani”, l’ultima piega caritatevole della modernità liberale. Ma ciò che viene loro sistematicamente negato - tanto dai nemici quanto, e forse ancor più, dai presunti simpatizzanti - è il diritto di comprendere la propria resistenza. Non solo di provarla, non solo di sopravviverle, ma di pensarla.

Agisce qui una struttura profonda, che insiste affinché il palestinese resti sempre il sofferente, il testimone, l’esibito. Anche chi afferma di solidarizzare con noi, spesso lo fa a patto che restiamo sospesi in quel ruolo: portatori di dolore, non produttori di pensiero. La resistenza, quando viene riconosciuta, viene posta in quarantena, rappresentata come reazione cieca, come impulso irrazionale, come qualcosa di indegno di una dignità concettuale.

Ma qualcosa è cambiato. Gli ultimi due anni di massacro ininterrotto, di morte non più accolta dal silenzio ma da una nuova e furiosa evidenza, hanno cominciato a incrinare questo impianto concettuale. Non credo più che il rifiuto di riconoscere ai palestinesi la capacità di teorizzare la propria resistenza riguardi solo la Palestina. Riguarda, più pericolosamente, il mondo intero. Ciò che si teme non è la nostra liberazione, di per sé, ma che la resistenza possa tornare a essere pensabile. Che possa circolare. Che possa mettere radici in altri luoghi dell’abbandono. Che il palestinese, non più muto emblema della sofferenza, possa diventare la figura attraverso la quale la questione dell'emancipazione rientri nell'immaginario politico.

Non stiamo assistendo a una semplice relazione coloniale tra Israele e Palestina, ma all'applicazione di una struttura le cui operazioni superano i confini geografici o giuridici del cosiddetto spazio del conflitto, luoghi come Gaza o la Cisgiordania. Esiste una simpatia condizionata che circola ampiamente, spesso mascherata dal linguaggio della preoccupazione umanitaria. Ma questa simpatia serve proprio a salvare il sionismo dalle sue stesse contraddizioni. Offre un alibi morale salvaguardando la permanenza di Israele non solo come Stato, ma come forma: un cardine nell'architettura dell'ordine globale.

Questo ordine esige che il Mediterraneo orientale - storicamente culla dei sogni antimperialisti - resti fratturato, amministrato, violentemente incompiuto. In questa configurazione, il sionismo non è un’anomalia storica, ma uno strumento necessario. La sua continuità è essenziale per una triade geopolitica che governa la regione sin dalla spartizione coloniale: la circolazione del petrolio, la logica dell’accumulazione capitalistica e lo smembramento strategico di ogni possibilità politica araba. In questo senso, Israele non è solo protetto, è strutturalmente indispensabile. Resistere a Israele, dunque, non è solo opporsi al colonialismo d’insediamento. È trafiggere una grammatica imperiale più ampia - una grammatica che dipende dallo smembramento del futuro arabo, dalla perpetua decomposizione della sovranità politica e dalla traduzione di ogni atto di resistenza in terrore, di ogni rivolta in patologia.

È per questo che la resistenza palestinese, quando osa parlare a proprio nome e non attraverso il ventriloquio della legalità o della pietà, diventa intollerabile. Non è la violenza a terrorizzare - è la lucidità. Il rifiuto di farsi disciplinare nel ruolo della vittima. L’insistenza sul significato, sulla strategia, sull’immaginazione politica come qualcosa di diverso dal lutto.

Ma soprattutto - ciò che la rende pericolosa, ciò che anima i febbrili tentativi di soffocarla - è il carisma dell'idea stessa. Muqawama non come reazione, ma come proposizione. Come forza contagiosa. Come una grammatica capace di attraversare confini e lingue, di essere adottata in terre lontane dalla Palestina, ovunque la gente si confronti con l'architettura della vita gestita e della morte lenta.

È questo potenziale - la portabilità della resistenza - che deve essere sepolto sotto le macerie, che deve essere ridotto a criminalità o follia, che deve essere gestito attraverso rituali della condanna e dell’eccezione. Perché una volta che la resistenza diventa pensabile, enunciabile, nominabile nei suoi propri termini, cessa di essere circoscritta. Cessa di essere contenibile. Diventa mantello. Diventa questione.

La resistenza palestinese non dovrebbe essere compresa solo attraverso la lente dell'efficacia militare o dei risultati immediati, ma come una forma di rottura con l'ordine coloniale - simbolicamente e temporalmente. Secondo lei, in che modo la resistenza interrompe il tempo lineare e progressivo imposto dal colonialismo? Possiamo interpretare la lotta palestinese come una forma di insurrezione che produce nuove temporalità politiche?

In effetti, quando svincoliamo la resistenza palestinese dalle metriche riduzioniste del successo militare o del calcolo strategico, iniziamo a vederla per quello che è: una rottura metafisica, una forza di disordine nella grammatica coloniale del tempo stesso. Il colonialismo non si limita a occupare la terra, occupa la temporalità. Impone una nozione lineare e progressiva del tempo in cui i colonizzati sono sempre in ritardo, sempre in corsa per recuperare, sempre non ancora pronti per la libertà. In questo regime, la resistenza viene inquadrata come prematura (irrazionale, emotiva) oppure obsoleta (futile, arcaica). Entrambe le letture operano per soffocare l’immaginazione politica.

Ma la resistenza palestinese, soprattutto nelle sue forme più crude e irriducibili, rifiuta questa logica. Non cerca il permesso da quel futuro promesso dagli accordi di Oslo, né attende riconoscimento dall’orizzonte ormai svanito della legittimità internazionale. Al contrario, interrompe. Insiste sull'adesso, non come un punto sulla linea del tempo, ma come luogo di confronto, di creazione di significato, di espressione sovrana. Essa frantuma il tempo coloniale non solo affermando la presenza dei colonizzati, ma rifiutando i ruoli loro assegnati nel copione della storia.

Qui, la resistenza non è semplicemente reattiva, ma ontologica. Mette in scena una sorta di insurrezione contro il tempo stesso, producendo quelle che potremmo chiamare contro-temporalità: momenti in cui i colonizzati diventano contemporanei di sé stessi, in cui la storia si piega e in cui i morti camminano con i vivi. Si pensi al martire non come figura tragica, ma come colui che fa crollare la distinzione tra il passato sacrificato e il futuro riscattato. Si pensi al rifugiato che ritorna senza ritorno. Non sono atti metaforici, sono rivolte temporali.

In questo senso, la lotta palestinese non riguarda soltanto la terra – per quanto essa rimanga profondamente radicata nel suolo - ma riguarda anche il tempo. È un rifiuto di abitare il mondo secondo la cronologia coloniale: dalla nakba alla negoziazione, dall’intifada alla normalizzazione. È l'irruzione di un altro tipo di tempo: denso, ricorsivo, infestato e vivo con la presenza di ciò che il mondo insiste a voler seppellire.

E allora sì, dobbiamo imparare a vedere la resistenza non come un fallimento quando non “vince”, ma come evento che scardina l'ordine coloniale, che rende visibili le crepe nella sua presunta ineluttabilità e che indirizza verso un orizzonte radicalmente altro.

Detto ciò, non è meno importante considerare anche la resistenza nella sua dimensione razionale: nel suo rapporto tra fini e mezzi, nei suoi obiettivi dichiarati e nella lucidità strategica con cui si muove.

In questo momento storico - Gaza in rovina e la Cisgiordania sotto un assedio soffocante - dove, come e quando emergono e si allargano le crepe nel discorso egemonico di Israele? Non c'è dubbio che il 7 ottobre abbia esacerbato le tensioni interne a Israele, mettendo a nudo sue fragilità strutturali e socioculturali. Sembra che la violenza continua sia l'unico meccanismo che il regime utilizza per giustificare la propria esistenza. È un fascismo divenuto collante di una società profondamente fragile?

Sì, non stiamo più parlando di una “colla” che tiene insieme i frammenti della società israeliana, ma di una punta di lancia. La distinzione è importante. Mentre la colla nasconde una coesione disperata, una cucitura reattiva che tenta di rattoppare un ordine in disfacimento, la punta di lancia segnala la direzionalità, l'aggressività, la trasformazione della crisi in forza propulsiva. Non si tratta di riparare, ma di sfondare. La società israeliana, fratturata lungo linee etniche, ideologiche e di classe, non trova più nella violenza una via di fuga temporanea, ma una forma di divenire politico.

È per questo che dobbiamo usare cautela nel modo in cui denominiamo il fascismo. Ridurlo ai suoi sintomi più appariscenti - il messianismo dei coloni, gli appelli espliciti alla pulizia etnica, la mobilitazione teocratica - significa perdere di vista la sua presa più sottile, atmosferica. Il fascismo in Israele oggi non abita soltanto nella kippah di Ben Gvir o nell'uniforme dei giovani delle colline; pulsa, più pericolosamente, attraverso il cosiddetto centro, in quel laicismo liberale che inquadra l’esistenza palestinese come problema da gestire, controllare, estirpare.

Nel liberalismo israeliano risiede una complicità profonda: quella che piange la “perdita della democrazia” mentre applaude guerre che non potranno mai essere vinte, quella che denuncia “l'estremismo” mentre crede intimamente che la sovranità ebraica implichi la scomparsa dei palestinesi. Questo è fascismo senza messianismo, fascismo senza lo spettacolo del fervore. È il fascismo del consenso, della burocrazia, della ragione manageriale.

E dobbiamo essere ancora più vigili: quando limitiamo il termine fascismo ai suoi esponenti più rumorosi, permettiamo alle sue forme più silenziose di passare inosservate. Il sionista liberale che invoca una “fine ragionevole” della guerra, ma le cui linee rosse non includono mai il ripristino della vita dei palestinesi; l'intellettuale che chiede la coesistenza, ma solo all'interno della gerarchia etno-nazionale: costoro non sono fuori dal fascismo, sono il suo volto razionale.

Ciò che rende questo momento così pericoloso non è semplicemente la violenza del fascismo israeliano nella forma, ma la sua diffusione nella sostanza attraverso l’intero spettro politico. Questa è una società che non si limita a tollerare il fascismo, ma lo reclama, anche se con dialetti e codici di abbigliamento diversi. È, per usare le parole di Benjamin, l'estetizzazione della politica vestita da pragmatismo. E Gaza è la sua tela. Capire questo non significa solo dare un nome al regime per quello che è, ma prepararsi al mondo che cerca di costruire.

Il lungo e brutale genocidio di Gaza sta attirando, seppur tardivamente, una solidarietà internazionale senza precedenti. Eppure, la repressione mediatica rimane diffusa. Anche quei media che sono passati da un sostegno palese al cosiddetto “diritto all'autodifesa” di Israele a una condanna più ipocrita del solo Netanyahu, non affrontano il sistema coloniale nel suo complesso. E la repressione istituzionale rimane forte in Europa e negli Stati Uniti. In questo contesto, cosa significa oggi “resistenza epistemologica”?

Parlare oggi di resistenza epistemologica non significa invocare l'astrazione. È nominare un fronte di lotta non meno decisivo di quello materiale. Infatti, ciò a cui stiamo assistendo sulla scia del genocidio in corso a Gaza non è solo l'annientamento di corpi e case, ma anche il tentativo di preclusione del significato. La repressione a cui assistiamo nei media e nelle istituzioni occidentali, per quanto sofisticata nella sua coreografia, non riguarda semplicemente il silenzio, ma la messa in scena preventiva di ciò che è visibile e dicibile.

Anche dove emergono delle crepe - dove Netanyahu viene demonizzato, dove si recita una vaga preoccupazione per i “civili” palestinesi - l'ordine coloniale rimane intatto nel pensiero. La guerra di Israele viene ancora trattata come una deviazione dalle norme liberali, piuttosto che come conseguenza logica di un progetto coloniale d’insediamento sostenuto dal consenso imperiale. La violenza viene deplorata, ma l'architettura che la rende necessaria non viene mai menzionata. Questo è il lavoro dell'ideologia: spostare le cause sui sintomi, isolare le figure dai sistemi, moralizzare invece di storicizzare.

La resistenza epistemologica, quindi, inizia con la disobbedienza a questo ordine di conoscenza. È l'insistenza nel parlare dall'interno dell'esperienza storica palestinese, non come un supplemento al discorso dominante, ma come rottura di esso. Significa rifiutare la grammatica che ci rende visibili solo come vittime, rifiutare le cornici morali che distinguono tra il “buon arabo” e il “militante” e rifiutare il rinvio temporale che chiede ai palestinesi di aspettare, di calmarsi, di negoziare, mentre la terra sotto di loro viene consumata.

Significa anche affrontare la complicità delle istituzioni che si dichiarano neutrali. Università occidentali, think tank, ONG, media che reprimono ogni parola sulla Palestina non stanno tradendo i propri ideali: li stanno compiendo. Sono apparati statali epistemici che lavorano per filtrare, gestire e addomesticare il dissenso. Resistere sul piano epistemologico non significa solo affermare contenuti differenti, ma fratturare le stesse forme attraverso cui la conoscenza circola.

Ed è in questo momento, quando l'orrore di Gaza ha rotto il patto affettivo tra l'impero e i suoi spettatori, che inizia a pulsare una conoscenza diversa. L'immagine della Palestina non è più solo quella di una catastrofe umanitaria: sta diventando il luogo di un riorientamento globale, in cui l'Occidente è costretto a confrontarsi con la menzogna al centro del suo universalismo. Questo confronto - doloroso, destabilizzante e irrisolvibile all'interno dei parametri liberali - è esso stesso una forma di insorgenza epistemologica.

Ciò che si teme di più non è solo il discorso palestinese, ma il pensiero che porta con sé. Un pensiero che decolonizza non solo la terra, ma anche il senso. Un pensiero che osa dire: il mondo deve essere altrimenti.

Distruzione, spargimento di sangue e terrore in Palestina continuano incontrollati, guidati da un Israele che non paga alcuna conseguenza o sanzione. Dal 7 ottobre, l'impotenza del sistema legale e istituzionale internazionale è diventata ancora più evidente. Nonostante i procedimenti avviati dalla Corte internazionale di giustizia e dalla Corte penale internazionale, Israele - con il sostegno degli Stati Uniti - continua ad agire impunemente, anche all'interno delle Nazioni Unite. Il fatto stesso che Netanyahu abbia impartito l’ordine per l’eliminazione di Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, direttamente dal Palazzo di Vetro a margine del suo intervento all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, ben simboleggia il disprezzo per un contesto giuridico palesemente snobbato. Si ha evidenza di avere a che fare con un quadro del diritto internazionale assimilabile a una sovrastruttura regolatoria applicata con doppiezza. Vuole esprimere un pensiero critico su questo tema?

Il pensiero critico deve abbandonare la premessa secondo cui il diritto internazionale sarebbe un terreno neutro. Studiosi appartenenti alla corrente Third World Approaches to International Law (TWAIL), come Makau Mutua e Antony Anghie, sostengono da tempo che le strutture del diritto internazionale sono emerse di pari passo con la conquista coloniale, progettate non per limitare il potere ma per strutturarne la legittimità. Le stesse categorie di “sovranità”, “sicurezza” e “autodifesa” non sono universali: sono codificate, razzializzate e profondamente gerarchiche. L’invocazione israeliana del diritto all’“autodifesa” dopo il 7 ottobre - mentre ai palestinesi è negato perfino il linguaggio della resistenza - esemplifica questa asimmetria coloniale inscritta nel diritto stesso.

Inoltre, come hanno dimostrato pensatori come Walter Mignolo e Achille Mbembe, la cosiddetta “comunità internazionale” non è affatto una comunità, ma un cartello di potere strutturato lungo linee civilizzatrici. L’universale è sempre rivendicato dall’Occidente, mentre la particolarità - e dunque la sacrificabilità - viene imposta al resto del mondo. I palestinesi non soffrono semplicemente per l’assenza di riconoscimento giuridico, ma per l’esistenza di un ordine giuridico che non è mai stato pensato per loro.

Eppure, qualcosa sta cambiando. La crescente disillusione nei confronti delle istituzioni internazionali non è solo una crisi, è un'apertura. Ci consente di parlare di diritto non come salvezza, ma come terreno di lotta. L'erosione della legittimità liberale dà origine a un nuovo linguaggio politico, fondato non sulla supplica, ma sull'assertività. Non si tratta di mendicare un riconoscimento, ma di costruire solidarietà che guardino oltre la maschera della neutralità.

Dopo l'assassinio di molti leader della resistenza, la distruzione delle infrastrutture di Hamas e l'estensione dell'occupazione israeliana a Gaza, possiamo ancora parlare di un movimento di resistenza organizzato? O stiamo entrando in una fase di lotta più diffusa, spontanea e molecolare?

Parlare oggi di resistenza - dopo l'assassinio dei quadri, la decimazione delle infrastrutture e l’ampliamento dell’occupazione su Gaza - non significa parlare di scomparsa, ma di trasformazione. Dobbiamo stare attenti a non confondere l'architettura visibile della resistenza con la sua capacità esistenziale. È vero, ci sono state perdite senza precedenti: disarticolazione organizzativa, smantellamento delle strutture di comando, distruzione mirata del tessuto sociale e logistico che rendeva possibile una lotta armata coordinata. Ma la resistenza, come la Palestina ci ha insegnato più volte, non è riducibile alle sue istituzioni. D'altra parte, l'idea che la resistenza palestinese sarebbe diventata più molecolare è, in parte, vera come tendenza. Ma non è del tutto esatta. La resistenza palestinese a Gaza conserva ancora buona parte dei suoi quadri, della sua infrastruttura e della sua capacità di reagire. L’obiettivo, in questa fase, è sostenere la resistenza nel lungo periodo, rendere l’occupazione israeliana il più possibile onerosa, e protrarre una lotta di volontà che non si esaurisca in un colpo secco.

Nel suo lavoro, lei ha spesso evidenziato la distanza tra le élite palestinesi e il popolo. Dopo mesi di guerra totale a Gaza e di erosione istituzionale, vede segni di ricomposizione politica o questa frattura strutturale è destinata a persistere?

La distanza tra l'élite politica palestinese e il popolo non è una novità. È una condizione strutturale, nata con Oslo, resa più profonda dalla dipendenza securitaria dell'Autorità palestinese (ANP) dall'occupazione e consolidata dalla duplice logica dei finanziamenti internazionali e del consolidamento autoritario. Ciò che abbiamo visto negli ultimi mesi - tra le rovine di Gaza, la paralisi della Cisgiordania e il collasso morale dell'ANP - non è il superamento di questa frattura, ma la sua esposizione. La maschera è caduta, ma il regime rimane. Non c'è una ricomposizione politica in senso formale, non ancora. Le istituzioni esistenti sono svuotate, in bancarotta sia dal punto di vista finanziario che etico. Continuano a esistere non per legittimità, ma per inerzia, paura e assenza di alternative immediate. Oggi, l'ANP non è un progetto nazionale. È un'istituzione fantasma, mantenuta in vita per contenere il malcontento sociale e assorbire la pressione internazionale. La sua sopravvivenza non è indice di vitalità politica, ma di necessità coloniale. Eppure, sotto questa decadenza, qualcosa si muove. Non nei ministeri di Ramallah o nei quartieri generali delle fazioni, ma nelle strade, dove la questione del da farsi rimane intatta.

Nel pensiero critico palestinese esiste una crescente tensione tra la liberazione nazionale e un orizzonte post-statale. Quale futuro immagina per il soggetto politico palestinese: uno Stato, una confederazione o cos'altro?

Questa tensione - tra liberazione nazionale e un orizzonte post-statuale - non è soltanto teorica. È l’eco di una contraddizione vissuta. Da un lato, il desiderio di sovranità, di una bandiera, di un riconoscimento internazionale, della dignità della statualità, resta potente, soprattutto in un mondo in cui l’assenza di Stato ha significato cancellazione, frammentazione, e soggezione senza fine. Dall’altro, lo Stato - così come si presenta nel mondo postcoloniale, come forma ereditata dalle cartografie coloniali e sostenuta dalle istituzioni imperiali - è divenuto un apparato di gestione, non di liberazione.

Chiedersi quale futuro attenda il soggetto politico palestinese significa interrogarsi se tale soggetto possa mai essere libero all’interno della forma-Stato - o se la libertà non si trovi ormai al di là di essa.

L’Autorità Palestinese, gli Accordi di Oslo e l’intero modello della partizione a due Stati hanno mostrato i limiti strutturali della statualità così come è attualmente concepita. Non hanno prodotto sovranità, ma un’occupazione subappaltata. La mappa che ci è stata promessa è stata incisa con la logica del contenimento. Lo Stato è stato offerto non come una conquista di liberazione, ma come una ricompensa per l'obbedienza. E in questa offerta, il soggetto politico è stato addomesticato, burocratizzato, frammentato.

Tuttavia, non possiamo liquidare lo Stato in modo assoluto. Per molti, il desiderio di uno Stato non riguarda la diplomazia o i confini: riguarda la riparazione storica, l'annullamento della violenza dell'espropriazione, l'essere visibili. L'orizzonte post-statale non deve deridere questo desiderio. Deve metabolizzarlo.

Ciò verso cui potremmo muoverci, allora, non è una scelta binaria tra statualità e assenza di Stato, ma un'articolazione più complessa di sovranità non sovrana, una forma di vita politica collettiva che non sia vincolata allo Stato-nazione westfaliano né ridotta alle finzioni gestionali delle ONG. Chiamatelo immaginario federato, politica confederata della fuga o persino giurisdizione decoloniale senza Stato, ma deve essere costruito dal basso, attraverso pratiche di solidarietà, gestione della terra, ritorno e rifiuto. Deve attingere alle lotte indigene, alle tradizioni radicali nere e al pensiero antistatale arabo, senza idealizzarne gli esiti.

Una tale forma politica non cercherebbe il riconoscimento delle Nazioni Unite, ma della storia. Non controllerebbe i confini, ma smantellerebbe la metafisica stessa della divisione. Centrerebbe il ritorno, non solo come rimpatrio fisico, ma come riaffermazione di una presenza politica laddove si voleva la nostra scomparsa.

Il futuro del soggetto politico palestinese non può essere dettato dal pragmatismo diplomatico o dalla logica dei donatori. Deve emergere dalle ceneri di Oslo e dalle rovine di Gaza come qualcosa di impensabile per il presente coloniale - qualcosa per cui non abbiamo ancora un linguaggio, ma che forse stiamo già praticando. E forse è questo che spaventa di più i nostri nemici: che i palestinesi non chiedono più di entrare nella storia, ma di riscriverla.

Va detto, intanto, che si è determinata un'innegabile correlazione tra la devastazione materiale della regione e l'indebolimento della resistenza militare sul terreno. Hamas è stato duramente colpito, Hezbollah deve affrontare limitazioni in Libano, la Siria si è spostata geopoliticamente e l'Iran sembra paralizzato. Il cosiddetto Asse della Resistenza sembra sfidato nel suo coordinamento, nonostante abbia impedito a Israele di raggiungere alcuni obiettivi. Quali risultati sono stati raggiunti e quali scenari futuri prevede per la lotta contro l'occupazione sionista?

Quello a cui stiamo assistendo non è il crollo dell'Asse della Resistenza, ma il suo momento di resa dei conti. Sì, la devastazione materiale su vasta scala a Gaza ha colpito duramente Hamas come forza militare organizzata; Hezbollah è limitato dal collasso interno del Libano e da una logica regionale di guerra fredda che impone moderazione e dai pesanti colpi subiti nel conflitto; la Siria è intrappolata nella sua riconfigurazione post-bellica; e l'Iran, sebbene retoricamente sfidante, agisce con crescente prudenza, consapevole delle sue vulnerabilità geopolitiche e delle sue tensioni interne.

Ma sia chiaro: l'Asse della Resistenza non è mai stato una struttura di comando unificata e coesa, bensì una costellazione tattica fluida di forze unite da un antagonismo comune verso l’egemonia statunitense-israeliana. La sua efficacia è sempre stata discontinua. Ciò che è cambiato non è la sua natura, ma il terreno stesso dello scontro. Sebbene Israele possa rivendicare alcuni successi, anche questi – come nel caso siriano – non sono il frutto esclusivo della sua azione, ma il prodotto di una costellazione di fattori e convergenze, tra cui la persistenza di Idlib, della Turchia e di altri attori regionali e internazionali. Questa narrazione del successo israeliano andrebbe quindi messa in discussione su questi termini: è, per usare un eufemismo, fortemente esagerata.

Inoltre, l'incapacità di Israele di ottenere una vittoria totale a Gaza, nonostante l’impiego di una forza schiacciante, non è un segno della coesione dell'Asse, ma di limiti strutturali del colonialismo d’insediamento. Se c'è un risultato in questo momento, è l'evidenza di un tetto strategico del sionismo. Israele ha dimostrato di poter distruggere, ma non governare. Può sfollare, ma non eliminare. Può bombardare, ma non risolvere. In questo fallimento si trova un nuovo orizzonte di lotta, non incentrato solo sul coordinamento regionale, ma su forme di confronto disperse, decentrate e transnazionali. Il futuro potrebbe appartenere meno agli attori statali e più a moti insorgenti multipolari, guidati da nuove solidarietà provenienti dal basso.

Il cosiddetto "piano per Gaza" di Trump, sebbene possa sembrare assurdo, porta con sé un pericolo virulento: cerca di normalizzare l'idea di una società etnicamente “pura”, in cui i gruppi non conformi sono sistematicamente esclusi. Questa visione fa rivivere le politiche razziste e propone un progetto autoritario radicato nelle ideologie fasciste e nella supremazia bianca. Cosa ne pensa?

Il cosiddetto “piano per Gaza” di Trump non è una deviazione, ma l’estensione logica di un impulso autoritario globale che fonde purezza razziale e dominio territoriale. La sua assurdità non deve distrarci dalla sua violenza. Ciò che prevede non è la pace, ma la bonifica: la trasformazione finale di Gaza in una zona priva di densità politica, di memoria, di persone.

Non si tratta solo di sionismo smascherato, ma di supremazia bianca globalizzata. Quello che Trump propone è una fantasia fascista di purificazione spaziale: una Gaza senza gazawi, una Palestina senza palestinesi. Riesuma i più antichi miti coloniali - la terra nullius, il progresso civilizzatore, il barbaro da redimere - e li riveste di un discorso di sicurezza post 11 settembre.

Più pericolosamente, è un invito al mondo: normalizzare la pulizia etnica come politica, legittimare il pensiero genocida come pianificazione dello sviluppo. E in questo Trump non è solo. È solo più rumoroso. I silenziosi tecnocrati che parlano di “reinsediamento”, “zone cuscinetto” e “stabilizzazione post-conflitto” partecipano allo stesso progetto ideologico. Ciò a cui stiamo assistendo non è un’eccezione, è il nocciolo fascista del presente globale.

Come interpreta la risposta del mondo arabo alla catastrofe umanitaria in Palestina? Sta emergendo un nuovo panarabismo di base o le logiche statali e gli interessi nazionali sono ancora dominanti?

La risposta ufficiale araba alla catastrofe di Gaza è stata segnata, senza sorpresa, da codardia, complicità e freddo calcolo. Gli Stati restano legati all'interesse nazionale, alla sicurezza del regime e alla paura della rivolta popolare. Si preoccupano a parole, pur mantenendo la normalizzazione; inviano aiuti, moderando il pubblico discorso.

Ma sotto questa stagnazione si muove qualcos'altro. In tutto il mondo arabo - da Amman a Rabat, dal Cairo a Tunisi - stiamo assistendo ai fermenti di un nuovo panarabismo di base: non il vecchio progetto nasserista di unità interstatale, ma una ricostituzione affettiva popolare dell'identità araba forgiata attraverso la condivisione di indignazione, lutto e rifiuto.

Questo non è ancora un programma. Non è organizzato. Ma è sentito. Si ascolta nei canti dei manifestanti, nelle solidarietà sovversive online, nei gesti intimi della gente comune che rifiuta il silenzio dei suoi governanti. Questo nuovo arabismo è meno legato alle bandiere e più all'affiliazione: un'identificazione con la Palestina come ferita che non può essere nazionalizzata, come specchio della propria oppressione, come simbolo di ciò che deve ancora essere superato nei propri Stati.

Se questo affetto si consolida in organizzazione - se rifiuta di dissolversi una volta cessati i bombardamenti – potrebbe diventare l’eredità più potente di questo momento: un risveglio della coscienza politica araba non dall’alto, ma dal campo. Ma sono molti i “se” in gioco, e inoltre questa lettura tende a offuscare il potere della disidentificazione e delle re-identificazioni che agiscono anch’esse come forze nel mondo arabo: forme di identità più ristrette, meno rivoluzionarie, legate alla quotidianità e prive di un orizzonte di futuro. Per ora, questo affetto si percepisce, ma non si manifesta ancora pienamente nella realtà.

*Pasquale Liguori è farmacologo e lavora nel settore sanitario. Scrittore indipendente e fotografo urbano, è impegnato in pratiche decoloniali e nella denuncia delle forme contemporanee di oppressione politica, sociale e culturale.

Abboud Hamayel, noto anche con lo pseudonimo Abdaljawad Omar, è un intellettuale palestinese, docente e analista politico. Attualmente è Assistant Professor presso il Dipartimento di Filosofia e Studi Culturali dell’Università di Birzeit, nei pressi di Ramallah. Dopo aver conseguito un dottorato in Scienze Sociali Interdisciplinari nella stessa università, ha dedicato la sua ricerca alle forme della resistenza palestinese, con particolare attenzione al periodo compreso tra la Prima Intifada e il 2015. Scrive regolarmente in arabo e in inglese, con interventi pubblicati su riviste accademiche, oltre che su piattaforme internazionali. Le sue analisi combinano rigore teorico e impegno politico, affrontando temi come il colonialismo, la costruzione dell’identità, la militarizzazione e il ruolo delle élite. È una voce attiva nel dibattito internazionale, partecipando a conferenze, seminari e podcast in cui approfondisce le connessioni tra teoria critica e prassi decoloniale.

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