La Libia entra in una fase pre-rivoluzionaria: la Nato corre ai ripari
Quando probabilmente a breve il rullo dei tamburi di guerra farà direzione verso la Libia, quando cioè i paesi Nato decideranno di intervenire militarmente per prendere possesso dei pozzi libici chiusi dallo scorso febbraio e riaprirli, vi diranno che lo stanno facendo per i libici, per liberarli dalla dittatura, per consentire ai libici di tornare a godere degli utili di quel petrolio.
Sappiate che non è così. Anzi, è tutto il contrario.
Il sito Libyastats ci fa sapere che 2 libici su 3 sono d’accordo con la chiusura dei pozzi di petrolio, ben consapevoli che i proventi di questo petrolio finirebbero al governo usurpatore di Dabaiba, insediato a Tripoli e protetto dalle milizie.
Finché Dabaiba non lascerà Tripoli per far spazio a Bashagha, il premier votato dal parlamento sin dallo scorso febbraio, i pozzi rimarranno chiusi in segno di protesta contro i soprusi della Nato che appoggia il governo illegittimo di Tripoli.
Ora, la necessità della propaganda Nato è solo quella di confezionare una storia romantica che racconti il contrario di come stanno le cose, ma che giustifichi l’imminente intervento militare.
Ed ecco che Richard Norland, ambasciatore americano a Tripoli, lancia l’idea (per altro non originalissima) “food for oil”, cibo in cambio di petrolio. In altre parole gli Stati Uniti si farebbero carico di fornire aiuti alimentari alla Libia in cambio di petrolio.
Ma il petrolio non c’è, perché non viene estratto da febbraio. Ed ecco che (probabilmente) la narrazione sarà questa: intervenire militarmente per liberare i pozzi e consentire ai poveri libici di sfamarsi.
Quando sentirete questa storia, ricordate la foto di questo sondaggio: il 66% dei libici, 2 su 3, è favorevole al blocco dell’estrazione del petrolio.
Tuttavia, proprio per la mancanza di rifornimento energetico interno, la rete elettrica libica da diversi giorni non regge più, anche perché la richiesta in queste settimane è altissima per alimentare i condizionatori viste le elevatissime temperature in Libia.
Oltre le 14 ore di black-out ogni giorno. La gente scende in piazza nelle principali città ma protesta contro Dabaiba, il premier filo-Nato, sfiduciato dal parlamento, che non vuole lasciare il potere, piuttosto che con le unioni sindacali e i lavoratori che tengono chiusi i pozzi.
Pare quasi una fase pre-rivoluzionaria. Ed è per questo che un intervento militare urgente è ormai messo all’ordine del giorno nelle sfere della Nato.
I libici fanno sul serio, la Nato probabilmente non sarà da meno.
Questo un commento di un libico con cui siamo in contatto:
“Il capo della National Oil Corporation annuncia che la Banca Centrale ha bloccato i trasferimenti di valuta estera dalla National Oil Corporation, e che la questione è in crisi a causa del salvataggio estero dovuto alla chiusura del petrolio, e che siamo sull'orlo del collasso del sistema vitale in Libia a causa della chiusura del petrolio”.
Questa settimana, infine, anche i terminali di gas di proprietà dell’Eni a Mellitah, per altro finora funzionanti grazie alla loro posizione strategica vicino a Tripoli, sono stati sabotati e il gas dato alle fiamme.
Dopo tanta retorica contro l’invasione di Putin in Ucraina, non sarà semplice ora spiegare cosa andremo a fare presto in Libia.