La sinistra nel pantano dell’elettoralismo

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La sinistra nel pantano dell’elettoralismo

 

di Marco Morra[1]

 

La crisi di Unione Popolare

Sono passati diciotto mesi da quando Unione Popolare (UP) fu lanciata dai partiti Democrazia e Autonomia (DeMa), Rifondazione comunista (PRC), Potere al popolo (PAP) e da Manifesta, la componente alla Camera delle ex deputate del M5S, Silvia BenedettiYana Chiara EhmDoriana SarliSimona Suriano. La coalizione, nata in occasione delle elezioni politiche del 2022, pretendeva di essere qualcosa di più dell’ennesimo cartello della sinistra radicale destinato a non sopravvivere all’ennesima sconfitta elettorale. Un progetto strategico capace di indicare, a partire da obiettivi politici e rivendicativi unificanti, una prospettiva di ricomposizione delle forze alla sinistra del PD.

È bastato poco, tuttavia, perché questa prospettiva mostrasse le prime crepe profonde. La proposta di una lista elettorale più attrattiva avanzata da Michele Santoro e Raniero Della Valle lo scorso settembre e diventata realtà il 14 febbraio. Una lista, o meglio, un movimento “per portare al centro della campagna elettorale per le europee la parola pace”, secondo le dichiarazioni di Santoro. «Pace, terra, dignità», poche, semplici parole d’ordine per unificare il campo pacifista e riavvicinare gli elettori delusi dalla politica, intorno a un tema, la guerra, considerato la radice di tutti i mali, dalle migrazioni alla crisi climatica alla mancanza di politiche sociali.

Il progetto ha sin da subito rapito l’attenzione di alcuni dei principali leader di Unione Popolare. Il suo portavoce, Luigi De Magistris, si è espresso a favore di una lista unitaria che potesse “superare la soglia di sbarramento”, impegnandosi nella ricerca di una mediazione soddisfacente per tutte le componenti di UP. Maurizio Acerbo, invece, segretario del PRC, ha operato una netta forzatura rispetto alle valutazioni ancora in corso nella coalizione, schierandosi a favore della più ampia convergenza tra le forze che hanno assunto “posizioni coerentemente contro la guerra”. Acerbo ha invitato, sulle pagine del Manifesto, a non ripetere “l’errore che nel 2009 fecero SEL e Rifondazione respingendo un appello unitario promosso da tante personalità della sinistra e dei movimenti […]. Il risultato fu la dispersione di circa il 7% dei voti pur avendo entrambe le liste superato il 3%”. L’invito del segretario si rivolgeva, innanzitutto, al gruppo dirigente di Alleanza Verdi/Sinistra italiana, che si era detto indisponibile al dialogo, ma anche alla componente di Potete al popolo, accusata di autoreferenzialità per aver boicottato la lista di Santoro dopo il rifiuto opposto da quest’ultimo ad accettare alcuni punti qualificanti come l’uscita dalla NATO, la definizione di genocidio in atto in Palestina e l’assoluta indipendenza dal PD (Unione Popolare, che fare? - Potere al Popolo).

Lo stallo organizzativo e le divergenze politiche interne al coordinamento hanno determinato la crisi di Unione Popolare, provocando le dimissioni di De Magistris, che, come lui stesso ha spiegato, sono dovute a “ragioni personali e professionali su cui sono sopraggiunte riflessioni anche politiche”. Una parte delle forze che compongono Unione Popolare, a partire dal PRC, ha deciso di confluire nella lista Pace Terra e Dignità; Potere al Popolo e Manifesta continuano il percorso di costruzione di una lista autonoma, che tuttavia dovrà scontrarsi con le difficoltà di una raccolta firme dall’esito niente affatto scontato.

Nelle fila di Potere al popolo c’è chi, adesso, attribuisce le responsabilità della crisi di UP all’“opportunismo” di Rifondazione. Eppure c’è ben poco da sorprendersi di come siano andate le cose. Già in occasione delle europee del maggio 2019, la dirigenza di Rifondazione comunista operò una analoga scelta, revocando la propria adesione al movimento lanciato dall’ExOpg di Napoli – allora molto promettente con i suoi 9 mila iscritti, una proiezione di crescita positiva nei sondaggi e una carica di entusiasmo militante che aveva tenuto botta alla delusione delle politiche –, per raggiungere Sinistra Italiana e altre formazioni minori nella lista La Sinistra. L’obiettivo era evidente: rieleggere qui e ora al Parlamento europeo. Ma la scelta si rivelò infelice terminando con un insignificante 1,75% per cento, appena 30 mila voti in più di quelli ottenuti da PAP alle precedenti elezioni politiche. Un risultato che, adesso, Acerbo si guarda bene dal ricordare nel menzionare gli errori del passato.

L’elemento più interessante, semmai, è che ad attestarsi su simili posizioni, adesso come allora, non è soltanto la segreteria del partito, ma la sua maggioranza. Le votazioni dell’ultimo Comitato Politico Nazionale del PRC hanno sancito con 85 voti a favore e 22 contrari l’adesione del partito alla lista «pace, terra, dignità» con proprie candidature (Avanti con la lista per la pace, documento approvato al Cpn del 3 marzo | Rifondazione Comunista). Sbaglieremmo a pensare che l’opportunismo nasca da uno smarrimento delle coscienze o da un tradimento degli apparati dirigenti. Si tratta, al contrario, di un fenomeno sociale, effetto della complessa realtà moderna che soffoca i veri protagonisti – i soggetti sociali – del cambiamento rivoluzionario. È un fenomeno che nasce dalla crisi di prospettive e progettualità politica della sinistra di classe e dall’accettazione – come un dato di fatto – dell’immobilismo derivante dall’assenza di lotte di massa. A ben vedere la crisi di Unione Popolare ci dice molto di più sui limiti della via elettorale di quanto lascino intendere le divergenze tra le sue componenti, tutte ugualmente alle prese con le impasse della democrazia rappresentativa.

 

L’impasse dell’elettoralismo

La scarsità di risorse economiche, la disparità di accesso ai mezzi d’informazione, l’esistenza di norme restrittive per la partecipazione elettorale, la crescita dell’astensionismo, sono soltanto alcuni degli ostacoli che si oppongono alle forze della sinistra radicale. Da cui il mantra stantio, ma sempre redivivo, dell’unità della sinistra. L’impossibilità di presentarsi da soli costringe ad alleanze e manovre elettorali poco convincenti. E che, di fatti, non convincono. Non convincono coloro che si astengono, mentre le basse percentuali di volta in volta ottenute impediscono che il voto a sinistra sia percepito come “utile” dall’elettorato ancora attivo. Il susseguirsi di tentativi di ogni sorta, da oltre dieci anni, non ha portato a risultati significativi. La sinistra radicale non cresce, né nelle urne, né nel paese. Aspetta tempi migliori.

Eppure il malcontento sociale esiste forte e chiaro. Si esprime in sfiducia, disillusione, astensione. In emigrazione alla ricerca di una vita migliore. Talvolta in rivolta spontanea, plebea, istintiva. È maggioranza silenziosa, ma non priva di rancore. Perché allora non riusciamo a rappresentarla?

Non può lasciare indifferenti la crescita dell’astensione che ha raggiunto cifre record negli ultimi anni: il 36,1% alle politiche del 2022, ovvero 16 milioni e 500mila elettori, con punte del quasi 50% tra coloro con condizione economica bassa e medio-bassa e nelle regioni più povere. La crisi della rappresentanza ha radici storiche e cause strutturali. Ma sorge il dubbio che, ai fattori oggettivi, si aggiungano i limiti di una sinistra che sembra non poter fare a meno di pensarsi come residuale e le cui ambizioni non vanno molto oltre il superamento del quorum elettorale per entrare nell’area della legittimità istituzionale.

L’alternativa a questo stato di cose può nascere solo da un rifiuto fattuale dell’ordine costituito. Dal rilancio della lotta di classe a tutti i livelli. Senza la quale il mezzo elettorale non può essere uno strumento utile. A questo scopo, la sfida che la sinistra ha davanti è quella di una ridefinizione della politica in senso globale.

La politica è fatta di contenuti: idee, programmi, opinioni. E dei mezzi per esprimerli: comizi, giornali, manifestazioni. Ma anche di rapporti di forza. Un equivoco di fondo spinge a sopperire alla propria debolezza con la ricerca di percorsi unitari tra forze affini. Eppure, a ben vedere, il problema della rappresentanza delle classi subalterne si è rivelato in questi anni ben più complesso dell’individuazione di obiettivi unificanti, alleanze elettorali e strategie comunicative efficaci.

Dopo le elezioni regionali del febbraio 2023, l’Istituto Demopolis indagò le cause del non voto nelle due maggiori regioni italiane: il Lazio e la Lombardia (Il voto alle Regionali in Lazio e Lombardia nell’analisi post elettorale di Demopolis - Demopolis). Dal 2018 al 2023, l’affluenza diminuiva, nel Lazio, di 30 punti percentuali, passando dal 67% al 37%. Un calo di pari dimensioni si registrava anche in Lombardia, dove si passava dal 73% al 42%. Secondo l’indagine di Demopolis, la maggioranza assoluta di chi si era astenuto attribuiva la propria scelta a delusione e sfiducia verso partiti e candidati (51%); per 4 su 10 l’esito del voto appariva scontato, con la vittoria annunciata del centro-destra (40%); il 33%, invece, sosteneva che la politica regionale non incidesse sulla vita reale delle famiglie. A incidere sulle scelte di voto, invece, pare essere stato, per il 75% il partito o la coalizione di appartenenza; meno di 1 su 5 ha scelto in base al candidato alla Presidenza, appena il 6% tenendo conto del programma.

Il sondaggio offre alcuni spunti di riflessione. Se la sfiducia è diventata un dato strutturale e la mancanza di una politica credibile scoraggia una parte dell’elettorato, coloro che votano – prevalentemente ceti medi e medio-alti – sembrano farlo più per affinità – ideologica, politica, culturale – col partito o la coalizione e meno in base a candidati e programmi proposti. In questo contesto, è difficile produrre spostamenti davvero significativi dell’elettorato (che di fatti non avvengono se non tra partiti di una stessa coalizione), mentre sembrano servire a poco i metodi tradizionali della politica – comizi, petizioni, raccolte firme, campagne di opinione, leggi d’iniziativa popolare, ecc. – per attivare, o anche solo recuperare al voto, le larghe masse astensioniste.

Da questo punto di vista, la lista per la pace di Santoro e Della Valle, che non si preclude nessuna interlocuzione con le forze progressiste, da Sinistra Italiana a Unione Popolare, rischia di parlare più al solito elettorato di sinistra che non al vasto bacino del non voto. Si scelgono un tema forte, obiettivi condivisibili, candidati onesti, ma i modi in cui si cerca di occupare lo spazio pubblico sono gli stessi di sempre. Sono le forme liberali della politica, che volenti o nolenti riproducono la separazione tra rappresentanti e rappresentati. Lo stesso potrebbe dirsi per le altre forze della sinistra radicale.

 

Il problema delle forme di lotta e di organizzazione

Dirigenti e militanti radicali hanno introiettato una condizione di marginalità che li ha abituati a considerare la sinistra di classe più come una minoranza da salvaguardare che una forza in grado di lanciare sfide all’intera società e incidere nei rapporti di forza tra classi. Dobbiamo ribaltare questo paradigma. Una sinistra ancorata alla classe e alle sue lotte – di cui il momento elettorale può costituire un passaggio, non la prova del fuoco – ha bisogno di ripensare l’organizzazione reale dei soggetti vivi, fuori dall’illusione di una pratica egemonica esercitata dall’alto.

A ben vedere, da molti anni siamo di fronte a una vera e propria crisi di prospettive della sinistra di classe, le cui radici si innestano nell’assenza di lotte di massa, nell’immobilismo dei soggetti sociali deputati alla trasformazione dello stato di cose presente. Dal punto di vista teorico, il problema trova un riferimento utile nella nozione operaista di “ricomposizione di classe”. “Come si forma la coscienza sociale? Quali sono i procedimenti attraverso i quali una massa di persone individualizzate, separate, frammentate nel processo produttivo e nella loro condizione economica e sociale riesce a trasformarsi in un movimento attivo, a produrre un punto di vista politico comune, a elaborare stili di comportamento e orizzonti di consapevolezza che sono sostanzialmente comuni, anche se rispettosi delle differenze di sensibilità e di formazione?”[2].

Finché la grande fabbrica è stata il centro di gravità delle lotte di classe, questo problema trovava una soluzione chiara, benché non semplice: la crescita e l’organizzazione dell’autonomia operaia a partire dai grandi centri produttivi e dai quartieri-dormitorio dove le condizioni di vita e di lavoro erano omogenee e la lotta contro la miseria e lo sfruttamento coinvolgeva immediatamente decine di migliaia di lavoratori e le loro famiglie. Ma nella società postfordista, la precarizzazione del mercato del lavoro, il decentramento produttivo, la divisione tra lavoro garantito e non garantito, l’aumento dell’esercito industriale di riserva, producono un drastico indebolimento della capacità di organizzazione e del potere negoziale dei lavoratori e delle loro organizzazioni. Che si riflette, tra le altre cose, nel basso o nullo tasso di sindacalizzazione nelle piccole e medie imprese e nel settore del lavoro informale o nel depotenziamento dello sciopero come pratica conflittuale.

Le stesse condizioni di esistenza del moderno proletariato impediscono che la ricomposizione di classe avvenga in maniera spontanea. Ma allo stesso tempo privano di solide basi materiali le forme classiche della politica e del sindacalismo. La forma dominante di ricomposizione non sono più i partiti e i sindacati, ma i movimenti politici e sociali. Ciò fu evidente già negli anni del ‘68. A differenza dei movimenti precedenti, che nascevano da eventi eccezionali – guerre, crisi economiche, rivolgimenti strutturali profondi –, quelli che si affacciano sulla scena della storia nella seconda metà del Novecento  sono stati piuttosto l’espressione di un conflitto strutturale. Un conflitto che nasce da “una opposizione che riguarda il controllo e la destinazione di certe risorse”, ovvero da “domande collettive che investono la legittimità del potere e l’uso delle risorse sociali”[3].

Dagli anni ’80, inoltre, le mobilitazioni di massa basano la loro azione su obiettivi specifici, senza porsi il problema della trasformazione complessiva della struttura sociale, ma esprimono un potenziale di contestazione globale nel momento in cui i governi e le istituzioni – nazionali e transnazionali – non possono – o non vogliono – rispondere alle loro domande collettive. Nelle società postfordiste, i conflitti di classe non scompaiono, si configurano come una rete di opposizioni tra gruppi particolari e apparati pubblici che detengono il controllo delle risorse e dello sviluppo e una molteplicità di gruppi sociali stratificati che sono investiti dalle conseguenze delle loro decisioni.

La questione che si pone, dunque, è come una forza minoritaria, con scarsità di mezzi e risorse, possa agire in un contesto di atomizzazione sociale per mobilitare i gruppi sociali subalterni, ovvero produrre comportamenti antagonisti, nuove forme di solidarietà e un orizzonte di senso comune, a partire dalle “domande collettive che investono la legittimità del potere e l’uso delle risorse sociali”.

I movimenti della seconda metà del Novecento forniscono indicazioni utili in tal senso con il ricorso a forme di attivazione diretta – attraverso l’azione – e di comunicazione orizzontale e l’uso della disobbedienza civile nonviolenta. La disobbedienza civile consiste nell’esercitare un’azione collettiva – d’avanguardia o di massa – per interrompere il normale funzionamento della società. È una forma di resistenza tesa a canalizzare il dissenso prodotto da domande collettive insoddisfatte verso l’esercizio di una forza nonviolenta, ma conflittuale, con un obiettivo comune. Forme di disobbedienza civile possono essere le azioni di disturbo come blocchi stradali, l’imbrattamento di luoghi simbolici del potere, le occupazioni di edifici pubblici, le irruzioni in enti e uffici a fini di pubblica denuncia, il rifiuto di pagare multe, tasse, ecc. Tali azioni permettono di dare visibilità alle proprie rivendicazioni, imporre determinati temi all’opinione pubblica, denunciare politici e imprenditori, indicare pratiche e comportamenti conflittuali alle classi subalterne.

Negli ultimi anni, il modo in cui gli attivisti ambientalisti hanno praticato la disobbedienza civile in diversi paesi europei si è dimostrato efficace nel momento in cui hanno saputo articolare le azioni dirette di piccoli gruppi all’interno di campagne di medio periodo, con parole d’ordine chiare, e prevedendo momenti di agitazione più tradizionali, presentazioni pubbliche e manifestazioni. La stessa battaglia legale contro la repressione che questi gruppi conducono è un modo per sensibilizzare l’opinione pubblica e creare convergenze democratiche più ampie a sostegno della lotta. Questa modalità di azione ha spinto mass media e istituzioni a parlare di temi ambientali; ha procurato agli attivisti uno spazio in televisioni, radio e giornali altrimenti impensabile; ha polarizzato l’opinione pubblica in maniera netta, creando molta ostilità, ma anche complicità e attivazione che si sono tradotte in solidarietà, supporto economico e aggregazione di nuovi attivisti.

Per quanto riguarda la sinistra radicale, le azioni dirette e la disobbedienza civile nonviolenta dovrebbero integrarsi con il lavoro politico-istituzionale e sostanziare strategie di mobilitazione nel quadro di campagne rivendicative capaci di mobilitare i soggetti sociali su obiettivi unificanti che riguardano la sicurezza sul lavoro, la necessità di alloggi, la riduzione di prezzi e affitti, il reddito di cittadinanza, l’accessibilità alla sanità pubblica, la riduzione delle spese militari, ecc. Il ruolo dell’organizzazione è quello di generare conflitti a partire da simili domande collettive e svilupparli in direzione di una contestazione globale delle cause strutturali che sono all’origine delle disuguaglianze e dell’emarginazione sociale.

Va da sé che simili campagne non dovrebbero essere calate dall’alto, ma articolarsi a partire dai fattori critici che emergono nella congiuntura. Penso, ad esempio, ai risultati che questa strategia avrebbe potuto ottenere a ridosso delle prime ondate di Covid-19, quando i limiti strutturali del Servizio Sanitario Nazionale si palesarono agli occhi di tutta la popolazione, mentre il governo prevedeva ulteriori tagli e permaneva il blocco delle assunzioni di medici e infermieri. Penso, ancora, all’impatto che avrebbe potuto sortire quando il paese si commosse per la morte di Luana d’Orazio, s’indignò per il crollo della gru a Torino e del cantiere di Esselunga a Firenze, e il tema della sicurezza sul lavoro fu posto all’ordine del giorno nello spazio pubblico. Una prospettiva simile, infine, è stata indicata in questi mesi dal movimento di solidarietà con la Palestina. La capacità di mobilitare persone e opinioni che ha espresso il movimento è stata anche merito di studenti e attivisti che sono riusciti ad animare le proteste con azioni di resistenza civile di diverso tipo, dentro e fuori le università.

[1] Attivista, docente, ricercatore indipendente. Sta terminando un dottorato di ricerca in Studi Internazionali. Si occupa di nuova sinistra, violenza politica, anni ’60 e ’70. Ha curato i volumi Università e Movimenti. Teorie e pratiche politiche tra il ’68 e l’oggi (La Città del Sole, 2021) e Traiettorie operaiste nel lungo Sessantotto italiano (La Città del Sole, 2020).

[2] N. Balestrini, P. Moroni, L’orda d’oro. 1968-1977, Milano, Feltrinelli, 1998, p. 428.

[3] A. Melucci, Dieci ipotesi per l’analisi dei nuovi movimenti, “Quaderni piacentini”, n. 65-66, febbraio 1978.

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