Le radici dell’attuale successo del “socialismo con caratteristiche cinesi”

Le radici dell’attuale successo  del “socialismo con caratteristiche cinesi”

Postfazione al libro “La Cina della Nuova Era. Viaggio nel 19° Congresso del PC Cinese”

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di Fosco Giannini


Questo libro nasce anche con l’importante contributo progettuale del grande filosofo comunista Domenico Losurdo, che da poco ci ha lasciati. Chi scrive ha iniziato con lui a coltivare l’idea di quest’opera, che ha poi trovato nei suggerimenti dei compagni del Partito Comuni- sta Cinese con i quali ci siamo rapportati, nelle idee degli intellettuali che partecipano a questo libro e nell’idea-forza di Francesco Maringiò («enucleiamo i segmenti più importanti della relazione del Segretario Xi Jinping al 19° Congresso del PCC e mettiamoli a fuoco») i cardini della propria struttura. Losurdo, nel progetto iniziale di quest’opera, doveva scrivere un’ampia introduzione. La morte, giunta impietosa e rapida, non glielo ha concesso. Il fatto, tuttavia, che sua doveva essere l’apertura, ci ha fornito una sorta di autorizzazione morale ad utilizzare un suo scritto precedente a mo’ di introduzione.




Proprio a proposito di questo libro ricordo una delle ultimissi- me discussioni con Losurdo sulla Cina, sul suo sviluppo, sulla sua influenza sulle dinamiche mondiali. Domenico sosteneva una tesi, che riporto a memoria, ma fedelmente: «Non mi stupisce per nulla il fatto che la sinistra italiana e persino una parte, seppur minoritaria, di comunisti, non riescano ancora a cogliere appieno l’importanza storica che si addensa nello sviluppo titanico delle forze produttive cinesi; non riescano a comprendere quanto questo sviluppo già inci- da e ancor più potrà incidere domani sul cambiamento dei rapporti di forza internazionali tra campo imperialista e forze antimperialiste e anticolonialiste, a favore di queste seconde. Non mi stupisce nem- meno che vi sia una sottovalutazione, in qualche modo drammatica sul piano ideologico e politico, della questione stessa dello sviluppo delle forze produttive. Il punto è che un vasto filone marxista italia- no – prima di Turati, con lui e dopo di lui – è stato segnato da una forte inclinazione idealistica e il marxismo scientifico e materialista è stato fondamentalmente minoritario, non segnando di sé la cultura profonda del movimento socialista e comunista italiano. Gramsci e Togliatti – come dire – non sono riusciti a vincere appieno. Così che l’approdo finale di questa “mutilazione ideologica” spinge a rimuove- re uno dei capisaldi del “Manifesto” di Marx ed Engels e dell’intero sistema di pensiero marxista: la centralità – appunto – dello sviluppo pieno delle forze produttive, senza il quale non vi è liberazione, in senso generale». In senso generale, affermava Losurdo, ed è infatti opinione anche di chi scrive che anche il progetto rivoluzionario relativo al superamento dell’alienazione (non solo nell’ambito del lavoro umano, ma in ambiti più vasti dell’umano) non può che ave- re, come base materiale, lo sviluppo delle forze produttive e cioè un sistema produttivo generale che più sarà avanzato più concorrerà alla liberazione umana. Losurdo, per la verità, in suo libro recente (“Sul marxismo Occidentale”) allarga questa critica dal marxismo italiano all’intero marxismo d’Occidente, ponendo la questione – di gran- dissima portata teorica, filosofica – che per ragioni materiali e pre- gnanti è piuttosto in Oriente che il pensiero e la prassi del marxismo abbiano trovato il cardine nella cultura materialista, anti idealista e anti esistenzialista.

In questo libro, peraltro, si rimette in circolo una delle afferma- zioni più significative e consuete di Losurdo e citando l’Ambasciatore della Repubblica Popolare Cinese in Italia, Li Ruiyu, si ricorda che «La guerra di posizione condotta dalla classe dirigente del PCC ha visto negli ultimi 40 anni di Riforme e Apertura 800 milioni di cinesi affrancarsi dalla povertà, un fenomeno che è stato definito dalla Banca Mondiale come uno dei più grandi racconti della storia dell’umani- tà. Di questi 800 milioni, 60 sono usciti dalla condizione di povertà soltanto negli ultimi 5 anni. Si tratta evidentemente di una lotta di classe che procede in direzione opposta rispetto a quella condotta in Occidente, dove assistiamo ad un processo inverso nel quale si deter- mina un allargamento sempre maggiore della forbice sociale tra ricchi e poveri».
 
 
«Ma questo straordinario risultato – si continua – non induce la classe dirigente cinese a tirare i remi in barca e ad abbandonare la lotta fin qui condotta, né tantomeno a nascondere le contraddizioni irrisolte». E si rammenta un’affermazione di Xi Jinping: « Dobbiamo essere molto chiari: vi sono ancora molte inadeguatezze nel nostro lavoro, numerose difficoltà da affrontare. Esistono problemi acuti causati da uno sviluppo sbilanciato e inadeguato che ancora attendono soluzioni».
Ecco: in questi stessi ultimi passaggi che abbiamo evocato (l’im- menso sviluppo delle forze produttive cinesi dopo la Rivoluzione Cul- turale; gli 800 milioni di cinesi che negli ultimi 40 anni di Riforme e Apertura sono stati tratti fuori dalla povertà; il nuovo e centrale ruolo della Cina nel quadro internazionale; la consapevolezza, da parte del PCC, che le questioni non sono certo ancora tutte risolte e che dunque è la stessa fase oggettivamente contraddittoria e in divenire ad asse- gnare al Partito il ruolo guida rivoluzionario) è possibile rintracciare il senso ultimo di questo libro, le sue intenzioni, lo sforzo per mettere a fuoco la grandezza del progetto strategico del PCC, sia sul piano internazionale che nazionale, i suoi obiettivi.
Gran parte degli interventi di quest’opera sono naturalmente diretti ad analizzare la fase attuale cinese, in modo conseguente al progetto redazionale, che è quello di mettere a valore, studiare, le varie parti della relazione di Xi Jinping al 19° Congresso. Chi scrive proverà, invece, a girare lo sguardo un po’ indietro, tentando, in modo certo non esaustivo, di portare alla luce alcune radici dell’attuale successo cinese, del PCC. Un successo già così planetario – come accadde all’Unione Sovietica vincente, che sconfisse il nazifascismo e impose un modello sociale che in Occidente si tradusse nel welfare e nel ruolo degli Stati nelle economie capitaliste occidentali – che sembrano, come scrive Lo- surdo, già remoti gli anni nei quali il Washington consensus (il liberismo totale occidentale) si offriva come unico modello, un modello oggi fortemente insidiato dal Beijing consensus, la proposta cinese segnata dal forte ruolo dello Stato nello sviluppo economico e nella costruzione sociale razionale. Un moto mondiale che, da solo, batte in breccia i ten- tativi volgari volti a far passare «il socialismo con caratteri cinesi» come il ritorno della Cina al capitalismo. Si ricorda, in questo libro, come lo stesso Wall Street Journal abbia dovuto, con disappunto, riconoscere il ruolo «onnipresente» del Partito Comunista Cinese, il ruolo dell’econo- mia statale in tutti settori strategici, dall’energia alle infrastrutture, dalle telecomunicazioni al sistema bancario e come, nei comunicati ufficiali cinesi, non si parli esplicitamente di «settore privato», ma solamente di «economia non pubblica», quasi a sottolinearne la subordinazione. Considerazioni, si ricorda ancora, ribadite dallo stesso Xi Jinping: « Dobbiamo continuare a valorizzare la superiorità del nostro sistema socialista e a far valere il ruolo decisivo del Partito e del governo». Ma, come già detto, sarebbe il caso di cercare alcune radici dell’at- tuale successo cinese. Esordendo così: il 25 dicembre del 1991, alle ore 18.00, Gorbaciov si dimette da Presidente dell’Unione Sovietica, tra- sferendo i poteri (attraverso una scelta che si sarebbe ben presto rivela- ta tanto nefasta quanto drammatica per tanta parte dell’umanità, non solo per il popolo sovietico) a Boris El’cin. Alle ore 18.35 dello stesso giorno la gloriosa bandiera sovietica viene lentamente e per sempre ammainata dal Cremlino, sostituita dal tricolore russo. Il giorno dopo, 26 dicembre, il Soviet Supremo scioglie formalmente, dissolvendola, l’Unione Sovietica. Questi due giorni – 25 e 26 dicembre 1991 – sono giorni che sconvolgono il mondo e rappresentano uno spartiacque storico nettissimo: c’è una Storia precedente a questi due giorni e c’è
una Storia ad essi successiva.

Con la scomparsa dell’URSS si liberano immediatamente gli spi- riti animali dell’imperialismo e del capitalismo mondiale. Il nuovo e intero mondo viene da essi percepito come un totale e smisurato mer- cato da conquistare, con le buone o con le cattive, con la penetrazione economica o con la guerra. La stessa concezione liberale, idealistica e anti dialettica de «la fine della storia», già messa a fuoco da studiosi del campo conservatore, come Fukuyama, viene eletta a categoria assoluta e chiave di lettura della fase presente e del divenire.

Con la sconfitta dell’URSS si afferma, da parte dell’euforico fronte imperialista e capitalista mondiale, che «la storia è conclusa» e «il socia- lismo si mostra ai popoli per quello che è: un’illusione irrealizzabile»; la scomparsa dell’Unione Sovietica «ratifica» formalmente, anche sul piano filosofico (per il fronte imperialista e per il pensiero borghese) che «il capitalismo è natura, eterno e immodificabile».
 
 
In questa stessa fase temporale nella Repubblica Popolare Cinese è in atto un duro scontro tra la corrente «riformista» del Partito Comu- nista Cinese, guidata da Hu Yaobang e la maggioranza del Partito, gui- dato da Deng Xiaoping. Hu Yaobang ha messo in moto un movimento («doppio cento») che si richiama (inopinatamente) a quello dei «cento fiori», del 1956; che tende a mobilitare di nuovo quel movimento, che chiede una maggiore separazione tra Partito e Stato ma che, nella stessa dinamica politica, sociale e ideologica messa in campo nella battaglia contro il Partito, sfocia nella sfera politico-culturale liberista, nella negazione dei prodromi del progetto «denghista» dell’«economia so- cialista di mercato», finendo per inclinare in senso antisocialista e filo americano. Una doppia inclinazione che porta il movimento «doppio cento» a cercare apertamente, nel 1989, il sostegno di Gorbaciov, già perdutosi, in questa fase, nel caos distruttivo dell’Unione Sovietica e dell’intero campo socialista e dunque osannato dai «doppiocentisti» durante la sua visita in Cina; sorretto, il movimento «doppiocentista», soprattutto da una parte del movimento studentesco di Pechino, sfo- ciato e culminato – tra il 16 e il 17 maggio 1989, in piazza Tienanmen – nella richiesta di una democrazia borghese di stampo nordamerica- no, che se conquistata avrebbe decretato la morte del «socialismo dai caratteri cinesi» ancora in evoluzione. Come avrebbe fatto mancare (in relazione a ciò che lo sviluppo pieno del progetto «denghista» avrebbe, nei decenni successivi, positivamente rappresentato sia per il popolo cinese che per i popoli in via di liberazione nel mondo) il pilastro fon- damentale per la ricostruzione di quel fronte mondiale antimperialista che, invece, in poco più di un quindicennio, si sarebbe ripresentato sulle scene internazionali.

Lo scontro tra il movimento di Hu Yaobang e la sua degenera- zione liberale e la linea di Deng Xiaoping è fortunatamente vinto da quest’ultimo e dalla maggioranza del Partito Comunista Cinese. Con la sconfitta del movimento «doppio cento» e la sconfitta della Piazza Tienanmen, la svolta politica ed economica cinese diretta ad un’«economia socialista di mercato» s’invola. Prima con Deng, poi con Jang Zemin, Hu Jintao e Xi Jinping alla guida del Partito Comunista Cinese, lo sviluppo economico porta la Cina – da un’arretratezza delle forze produttive ancora segnata, alla fine dell’era maoista, persino da alcuni caratteri feudali, specie nel lavoro dei campi, nella produzione agricola, ma non solo – a conseguire, come si mette in luce in questo libro, «la posizione di seconda più grande economia del mondo, con- tribuendo per più del 30 per cento alla crescita economica globale». Gli 800 milioni di uomini e donne cinesi che nella nuova fase di sviluppo economico sono tratti fuori dalla miseria e dalla fame, dicono solo una parte della grande crescita cinese, che cambia positivamente il mondo mutandone i rapporti di forza tra poli e Stati imperialisti e poli e Stati dal carattere socialista, antimperialista e in via di liberazione anticolonialista. Uno sviluppo, quello cinese, che, incredibilmente, prende corpo in un contesto terribilmente ostile per ogni esperienza e progetto socialista e che la dice lunga sulla lungimiranza, sul senso rivoluzionario, sulla determinazione e sullo sguardo lungo dei gruppi dirigenti del Partito Comunista Cinese; un contesto segnato dalla controrivoluzione «gorbacioviana» e dalla conseguente scomparsa dell’URSS e del campo socialista; dalla scomparsa del Comecon (l’area di scambio mercantile socialista); dalla nuova aggressività economica e militare imperialista e dal fronte interno guidato da Hu Yaobang e da Piazza Tienanmen, un fronte ben visto dagli USA e dall’occidente capitalistico e obiettivamente diretto a destabilizzare il socialismo e il Partito Comunista Cinese.

A posteriori, aiutati dallo stato presente delle cose, è facile dirlo: ma se il Partito Comunista Cinese non avesse scelto e intrapreso la via del pieno sviluppo delle forze produttive, attraverso il coraggioso lancio di quel progetto autonomo, indipendente dai poli imperialisti e capitalisti mondiali e follemente grande chiamato « economia socia- lista di mercato» e avesse invece mutuato le scelte «gorbacioviane», la Cina (invece di dotarsi di una propria, possente, autonomia) sarebbe stata, con ogni probabilità, preda, nella fase mondiale iperliberista successiva alla caduta dell’URSS, delle forze imperialiste; sarebbe stata penetrata da queste forze e avrebbe corso il forte rischio di una propria polverizzazione interna, di una propria implosione, a partire dall’immediata autonomia del Tibet, possibile primo mattone a cedere di un’intera struttura.

Oggi possiamo più agevolmente affermare, alla luce dei fatti compiuti, che le vittorie «denghiste» su Piazza Tienanmen e sul movimento di Hu Yaobang (con il conseguente pieno avvio di quello che sarebbe stato il più grande sviluppo economico e sociale della storia dell’umanità, lo sviluppo cinese attraverso «l’economia socia- lista di mercato») si sarebbero offerte quali decisive basi materiali per giungere – da lì a pochi anni e in una fase storica così difficile per il movimento comunista, rivoluzionario e operaio mondiale da consentire alle forze imperialiste di credere davvero nella «fine della storia» – alla costituzione di un fronte antimperialista, e comunque libero dall’egemonia imperialista, in grado di cambiare i rapporti di forza mondiali a sfavore degli USA e delle altre potenze imperialiste. Parliamo dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa) che a soli 18 anni (un lampo, nella storia!) dalla caduta dell’URSS si uni- scono – tra il 2009 e il 2010- al fine di sviluppare una politica non subordinata alle forze imperialiste e invece solidale con i popoli e gli Stati in via di liberazione.

Ed è del tutto evidente come l’immenso sviluppo economico (e dunque politico e geopolitico) cinese sia il massimo collante di questa unione, di questo nuovo fronte tendente a «spuntare le unghie all’im- perialismo».

Il tempo che ci separa dal 26 dicembre 1991 (autoscioglimento dell’URSS) ad oggi possiamo dividerlo – seppur rozzamente, ma per far «ordine» nel quadro internazionale – in tre grandi fasi: la prima, quella segnata dall’euforia imperialista successiva alla caduta dell’URSS e del campo socialista; la seconda, quella delle grandi lotte a carattere antimperialista e socialista che si alzano (raggelando il fronte che aveva «deciso» la «fine della storia») in tutta la loro evidenza in America Latina, che si allargano in Africa, che prendono forme antimperialiste diverse nella Russia di Putin, in India, che si consolidano in Vietnam e in altre aree dell’Asia. Tutte forme socialiste e antimperialiste che trovano nella Repubblica Popolare Cinese e nel suo sviluppo la loro prima e massima sponda, il primo alleato, il centro di gravità.

La terza fase che possiamo mettere a fuoco, in questo lasso di tempo che ci separa dal fallimento «gorbacioviano» e dalle sue cata- strofiche conseguenze, è quella che oggi viviamo: la fase caratterizzata dalla risposta violenta, militare dell’imperialismo a guida USA e NATO all’«insurrezione» antimperialista internazionale, alla costituzione del fronte dei BRICS. Non è un caso, di fronte a ciò, che al 19° Congresso del PC Cinese si sia deciso un significativo rafforzamento e rimodernamento dell’esercito, che nel 2050 dovrebbe diventare «di classe mondiale».

Ed è del tutto evidente che, anche in questo caso, anche di fronte allo scatenamento militare degli USA e della NATO su di un vastis- simo fronte internazionale (che va dal Medio Oriente all’Ucraina, passando per i Mari del Sud della Cina e per la Corea del Nord e per tutti gli odierni progetti USA di «golpe» in America Latina, dal Brasile all’Honduras, passando per l’Argentina e il Venezuela, è la Cina ad offrirsi come principale diga oggettivamente antimperialista.

La «legge» di Marx («il socialismo è lo sviluppo delle forze pro- duttive») trova nell’attuale potenza internazionale cinese e del Partito Comunista Cinese, la sua probante conferma. Ed è, dunque, tale, ri- voluzionario, sviluppo delle forze produttive che dobbiamo indagare, mettere a fuoco. Anche per «fare legna» sul versante politico-teorico comunista generale.

Nell’affrontare «la questione cinese» e, in particolare, la relazio- ne tra la NEP di Lenin e la «NEP» cinese, credo sia utile affidarsi ad una disciplina teorica, la massima disciplina teorica, quella secondo la quale è dalla base materiale dello sviluppo delle forze produttive e dallo sviluppo sociale generale che trovano possibilità di sviluppo le stesse «idee» e, più precisamente, le innovazioni – antidogmatiche, dunque, per la loro stessa natura di «forme» innovative – sui terreni dell’economia, della politica, della teoria, del pensiero e della prassi della trasformazione sociale, della transizione al socialismo.

Ed è indubbio che il titanico sviluppo economico e sociale intra- preso e conquistato dalla Repubblica Popolare Cinese e dal Partito Co- munista Cinese, dalla fase delle «Quattro Modernizzazioni» del com- pagno Deng Xiaoping e dalla via al «socialismo con caratteri cinesi», si sia offerto quale immensa e solida base materiale per lo stesso sviluppo di un nuovo pensiero rivoluzionario generale, di un nuovo e denso pensiero per la trasformazione sociale e la transizione al socialismo.

È questo – la relazione tra sviluppo della materialità delle cose e lo sviluppo teorico-filosofico in senso rivoluzionario – uno degli aspetti, dei «prodotti», della storica crescita materiale cinese, un aspetto, forse, non considerato ancora pienamente, nella sua importanza, all’interno del movimento comunista e rivoluzionario mondiale. Ma un aspetto che, invece, occorrerebbe assumere pienamente, come formidabile ar- ricchimento del bagaglio teorico e pratico del processo rivoluzionario, specie in questa fase storica segnata – oltre che da un avanzamento del fronte antimperialista trainato proprio dallo sviluppo cinese all’interno dei BRICS – anche da processi involutivi e di indebolimento del pen- siero e della prassi comunista sul piano internazionale. Specie in Euro- pa, ove con ogni evidenza l’«eurocomunismo» ha seminato i suoi danni. È anche da qui, dunque, dal contributo che lo sviluppo delle forze produttive cinesi, dal contributo che la «NEP» cinese ha fornito allo sviluppo dell’attuale pensiero rivoluzionario, che si può iniziare a tratteggiare un’analisi comparata tra NEP leninista, rimozione della stessa NEP leninista e «NEP» cinese, anticipando – in modo sintetico – una valutazione: come la conquista dell’obiettivo dello sviluppo delle forze produttive ha potuto darsi – in Cina – come base materiale dello sviluppo del pensiero rivoluzionario, così la troppo lunga stagnazione sovietica si è data – infine – come base materiale della cristallizzazione e dell’involuzione del pensiero e della prassi del socialismo in Unione Sovietica.

Quali sono le «categorie» centrali che, come proiezioni della propria, nuova, poderosa, forza materiale, la Cina socialista ha potuto mettere in campo?

Sinteticamente: il pieno ripristino dell’azione soggettiva e anti- positivista nel processo storico (Lenin, Gramsci) e ciò in rapporto al rovesciamento del dogma secondo il quale la contrapposizione sarebbe secca: o socialismo o mercato; il superamento, nella prassi, dell’artificiosa dicotomia relativa alla «neutralità» o non «neutralità» delle forze produttive, dicotomia risolta, nell’esperienza del «sociali- smo con caratteri cinesi», dal controllo del Partito Comunista sulle stesse forze produttive (esigenza già richiesta, dal Lenin della NEP, nella proposta del «controllo dalle alture strategiche»), forze produt- tive ridotte a pure «funzioni» del progetto del «socialismo di mer- cato» a guida comunista; conseguentemente a ciò, una concezione del mercato come spazio economico e politico anch’esso funzionale al progetto di necessaria accumulazione originaria, imprescindibile per la transizione al socialismo, un mercato – dunque – pienamente assunto, nella prassi e nel pensiero, come forma storica non perenne ma dialettica, cavallo di Troia materiale per il socialismo. E altre categorie: come l’internazionalismo oggettivo (e soggettivo) che sca- turisce dalla stessa potenza economica, in grado di mettere in campo relazioni e grandi e positive sfere d’influenza sul piano mondiale, capaci di mutare i rapporti di forza internazionali in senso antim- perialista; e, ancora, la vera e propria cancellazione della «cultura» piccolo borghese (ma tanto funzionale alla critica imperialista alla Cina socialista) tendente a mitizzare le fasi preindustriali e contadi- ne, demonizzando lo sviluppo economico.

Sia Flaubert che Marx ed Engels avevano già fustigato tale untuosa tendenza piccolo borghese: Flaubert nel romanzo «Bouvard e Pècu- chet», dove è descritto il «desiderio» della piccola borghesia di «tornare alla terra in un mondo senza più l’orrore dell’industria», un desiderio che dura il tempo di conoscere la fatica bestiale dei campi, per poi celermente scomparire; Marx ed Engels nel «Manifesto del Partito Comunista», quando scrivono dell’«idiozia di una vita rurale racchiu- sa nella miseria e nell’ignoranza bruta». Il punto è che per l’ideologia piccolo borghese, anche «di sinistra», nulla è contato l’aver tratto fuori dalla miseria, come ha fatto il socialismo dai caratteri cinesi, quasi un miliardo di persone dall’orrore della fame e della morte per inedia. Come nulla è contato, per questa stessa ideologia, anche «di sinistra», il fatto che lo sviluppo cinese abbia innestato un nuovo e potente motore nel camion dell’antimperialismo mondiale. Marx ed Engels, per ragioni storiche, oggettive, non sono mai stati di fronte ai problemi pratici della costruzione del socialismo. E mai hanno potuto sviluppare un’analisi scientifica rispetto al rapporto tra economia di mercato e socialismo. È stato Lenin – a dimostrazione della propria inclinazione antidogmatica, la stessa che lo portò alla concezione dell’«anello debole della catena» – il primo comunista ad interessarsi alla questione. Naturalmente, il Lenin della presa del potere, dell’Ottobre, non metteva in discussione la concezione dell’in- compatibilità tra socialismo e mercato. Una posizione rafforzatasi nella fase terribile della guerra contro gli undici eserciti stranieri e della controrivoluzione in atto.

In quella fase la concezione di Lenin era lineare: lo Stato doveva mettere sotto controllo totale sia la produzione industriale che le ecce- denze dei raccolti del grano. In questo quadro «l’economia di mercato» e « il libero commercio» erano considerati, anche sul piano ideologico, concezioni contro-rivoluzionarie. Questa politica, come è noto, pren- derà il nome di «comunismo di guerra» e terminerà all’inizio del 1921. Ma, sconfitta la controrivoluzione, l’enorme massa dei contadini  non accettò più i sacrifici imposti dal «comunismo di guerra» e Lenin si fece carico, più di ogni altro dirigente, della contraddizione sociale in atto, che lo portò a ragionare sull’esigenza dell’alleanza contadini-ope- rai. Un’alleanza che Lenin, all’inizio, tentò di saldare anche attraverso un’innovazione politico-teorica: lo scambio di prodotti (baratto di merci) tra contadini e operai, tra grano e beni industriali. Non sarebbe stata la soluzione, ma un’epifania: l’indicazione di marcia, da parte di Lenin, era già potente, antidogmatica, una premessa della stessa NEP. NEP che partì nell’ottobre del 1921, quando Lenin si convinse della necessità dell’economia di mercato, linea che produsse non poche contraddizioni all’interno del Partito Comunista Russo, contraddizio- ni e resistenze che Lenin vinse ma sarebbero poi tornate, con Stalin, sotto forma di totale contrarietà, nella fase della fine della NEP.

Quale corredo politico-teorico lascia la breve esperienza della NEP leninista? Lascia, innanzitutto, una riflessione, da parte di Lenin, profonda e proficua, un vero e proprio apparato teorico (accantonato) a sostegno del «socialismo attraverso un’economia di mercato».

Lenin mette a fuoco la concezione dell’«uklad», una struttura socialista, una produzione economica socialista in grado di svilupparsi proprio in virtù della competizione con le strutture neocapitalistiche interne al socialismo. Una visione, questa di Lenin, addirittura pre- veggente, rispetto alla futura stagnazione sovietica brezneviana e in ac- cordo con lo stesso, odierno, tipo di sviluppo e proficua competizione stato-mercato del «socialismo con caratteri cinesi».
Oltre ciò, Lenin affronta il problema dell’entrata dell’economia di mercato (e persino del capitale straniero) nel socialismo in termini nuovi, sottolineando gli aspetti positivi, per ciò che riguardava e ri- guarda il necessario sviluppo generale delle forze produttive, di queste «entrate» capitalistiche.

Un altro aspetto anticipato da Lenin, nell’analisi del «socialismo di mercato», sta nel fatto che, in presenza di spinte neo capitalistiche nella struttura socialista, elementi «mafiosi», di corruzione, di involu- zione burocratica possono inevitabilmente presentarsi. Ed è a partire da ciò che Lenin stesso proponeva una forte spinta politica e ideale ai fini della costruzione di un’autodisciplina nelle istituzioni pubbliche, oltre la proposta di un controllo esercitato contro le degenerazioni da parte del potere socialista. Ciò che dobbiamo rimarcare, da questo punto di vista, è il fatto che le degenerazioni di cui parlava Lenin si siano poi presentate, anche in forma massiccia, nell’esperienza sovie- tica priva di mercato, come a dire che non basta la cancellazione del mercato a impedire il formarsi della corruzione, questione che – ci sembra – sia presente al Partito Comunista Cinese, che sta intervenen- do giustamente e con polso fermo contro i fenomeni di corruzione in seno al «socialismo con caratteri cinesi». Non è senza significato, da questo punto di vista, il fatto che l’88% dei delegati al 19° Congresso del PC Cinese sia entrato nel Partito dopo le riforme di Deng.

La stessa questione – ai fini rivoluzionari e di sviluppo del sociali- smo – dell’«apprendimento» (categoria sviscerata nella ricerca leninista di allora) da parte del socialismo dei meccanismi produttivi capitali- stici era considerata da Lenin centrale; come centrale, architrave del processo, era considerata da Lenin la concezione delle «alture strate- giche», terminologia mutuata dalla guerra e utilizzata per rimarcare, da Lenin, l’esigenza del controllo socialista su tutto il piano NEP, il controllo del potere rivoluzionario sullo stesso «socialismo di merca- to». Cosa è stata, in fondo, la giusta reazione del Partito Comunista Cinese in Piazza Tienanmen, quando l’imperialismo USA soffiava sul fuoco, se non l’applicazione rivoluzionaria della difesa del socialismo dalle «alture strategiche»? Possiamo, anche in questo caso, fare ricorso ad un intervento che appare in questo libro, quando si citano le parole che Gillo Pontecorvo fa pronunciare ad Alì Ben Mihdi ne «La Battaglia di Algeri»: «Cominciare una rivoluzione è difficile, anche più difficile continuarla, e difficilissimo vincerla. Ma è solo dopo, quando avremo vinto, che inizieranno le vere difficoltà!».

E che cos’è – se non una mutuazione delle categorie leniniste – la parola d’ordine uscita dal 19° Congresso del PC Cinese relativa al «maggior controllo», da estendere per la difesa del socialismo, da parte del Partito»?

La NEP leninista, seppur tra difficoltà e contraddizioni, favorì un grande sviluppo economico, riconosciuto come tale anche da Lenin nei suoi scritti precedenti la morte. Uno sviluppo che non aveva in- ficiato il progetto ed il potere socialista, ma l’aveva persino rafforzato nel senso comune del popolo sovietico.

Lenin muore nel gennaio del 1924 e la NEP inizia a spegnersi da quella data. Si protrae, di fatto, sino al 1930, ma, con la «collettiviz- zazione forzata delle campagne», condotta da Stalin, essa termina di esistere.
Colpa di Stalin? Noi comunisti ci rifiutiamo di rispondere in questi termini alla domanda. La demonizzazione di Stalin è già così potentemente portata avanti dall’occidente capitalistico che non ha bisogno dell’aiuto dei comunisti. Noi possiamo e dobbiamo criticare Stalin, come peraltro il Partito Comunista Cinese critica il Mao della «Rivoluzione Culturale», ma, come il PCC che rivaluta l’azione rivo- luzionaria storica di Mao, noi comunisti italiani sappiamo rivalutare l’azione rivoluzionaria storica di Stalin.

Altra cosa è un’analisi profonda e seria relativa al superamento della NEP da parte di Stalin, analisi che ancora non è sufficientemente sviluppata e che deve invece svilupparsi, anche perché riguarda una fase decisiva per arricchire lo stesso bagaglio teorico del movimento comunista mondiale.

Certo è che Stalin va dritto verso l’abolizione della legge del valore, non delineando una fase di passaggio e di transizione al socialismo; ri- sponde con più «automatismi» ideologici, nella lotta contro il mercato, rispetto alla creatività teorica e politica di Lenin e, soprattutto, Stalin inizia ad operare in un contesto segnato dal riarmo e dall’aggressività bellica imperialista, delle spinte alle quali si aggiungono, all’interno dell’URSS, nuove tensioni e contraddizioni, date anche dallo sviluppo spurio e non ancora reso armonico al socialismo della NEP. Spinte belliche imperialiste e contraddizioni interne che inducono Stalin a decidere che l’URSS, in quella fase, non può reggere le politiche e le inevitabili contraddizioni della NEP e che, dunque, la Nuova Politica Economica va disinnescata.
 
D’altra parte, è un insegnamento della stessa, attuale, esperienza cinese che il «socialismo di mercato», e comunque un processo di transizione al socialismo, ha innanzitutto bisogno di un contesto in- ternazionale di pace. E tale assunto è facilmente constatabile proprio in questa fase: contro la nuova, gigantesca «One Belt One Road», la Nuova Via della Seta cinese, dal successo della quale può oggettiva- mente partire un grande aiuto sia alla pace mondiale che alle fortune del socialismo, si erge la contrarietà imperialista, che si materializza, intanto, attraverso il minaccioso rafforzamento della flotta militare USA e NATO nei Mari del Sud della Cina e nei porti delle Filippine; attraverso la rimilitarizzazione, sostenuta dagli USA, del Giappone; attraverso la costruzione di uno scudo stellare nella Corea del Sud contro la Corea del Nord; attraverso il moltiplicarsi delle esercitazioni militari USA-Corea del Sud; attraverso la demonizzazione della Corea del Nord e attraverso la collocazione di basi militari USA e NATO sia in Ucraina che in Afghanistan, motivo primario degli interventi militari USA e NATO in questi due Paesi.

Per riprendere il filo del discorso sull’economia sovietica, discorso funzionale allo studio del «socialismo dai caratteri cinesi»: cosa sosti- tuisce, Stalin – ai fini della produttività di massa, dello sviluppo delle forze produttive e ai fini di una nuova accumulazione – alla NEP?

Indubbiamente Stalin sostituisce alla Nuova Economia Politica la forza intrinseca dello stesso socialismo sovietico che va (dentro un mon- do ostile e di fronte alla concezione quasi planetaria di un capitalismo concepito come «natura» e dunque insuperabile) controstoricamente co- struendosi; costruzione concreta alla quale, tuttavia, aggiunge elementi fortemente idealisti che hanno la forza di protrarsi nel tempo (il lavoro d’assalto, l’emulazione, lo stakanovismo, l’onda lunga e idealista della Rivoluzione d’Ottobre, che tutto unisce e spinge) ma che – proprio perché elementi non materialisti – possono durare sino alla vittoria sul nazifascismo e non evitare la grigia caduta ed evaporazione nella lunga stagnazione brezneviana. Nel senso, prosaico ma concreto, che non si poteva chiedere l’emulazione di massa e lo stakanovismo alle gene- razioni venute dopo la guerra. Persino Ernesto Che Guevara (un iper idealista), per ricordare la storia, da Ministro dell’Economia, dopo la Rivoluzione Cubana, punta, dopo deludenti esperienze sul campo della mobilitazione sentimentale, a introdurre, per aumentare la produt- tività, il cottimo. Introduzione vissuta da Guevara come una sconfitta.
Dopo la NEP, l’Unione Sovietica non conosce più altro sistema che quello dello «Stato totale», dove, mano a mano, la spinta alla produttività e allo sviluppo delle forze produttive va anchilosandosi. Nel sistema viene a presentarsi anche una contraddizione di natura degenerativa: una sorta di scambio tra mancanza del mercato e delle merci, mancanza di democrazia sovietica e allentamento, sino quasi alla cancellazione, del controllo nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro e di produzione. Uno sviluppo senza più la NEP di Lenin né l’idealismo ed il controllo di Stalin.

Il processo ideologico di «svalorizzazione» del lavoro e della pro- duttività diviene una sorta di involucro che tutto segna di sé e, in que- sta palude, la riproduzione della produzione e dei mezzi di produzione – che va avanti, dalla fine degli anni ’60 in poi, come una coazione a ripetere, senza dinamizzazioni o svolte significative – diviene un pro- cesso in via d’esaurimento.

Nella mancanza – spesso disperata, per i cittadini sovietici – delle «merci leggere» e di consumo di massa, vi è molto dell’«ideologia» della stagnazione: la scelta di perpetuare un’economia di merci pesanti, a discapito delle condizioni di vita dei cittadini e del consenso di massa e a discapito dell’apertura di un più vasto mercato interno e della possibilità, da parte dell’URSS, di puntare ai mercati mondiali, la si spiega anche con la supposta, «diversa», coscienza del popolo sovietico, non incline, per questa ideologia, alla necessità delle merci. Un errore madornale nell’interpretazione di un popolo, dei lavoratori: non vi era bisogno, per liberarsi dalle fatiche famigliari, di una lavatrice? Non vi era bisogno di un frigorifero, di un ferro da stiro facilmente reperibili sul mercato? Non vi era bisogno, per un popolo e per una classe operaia, contadina, che tanto avevano dato alla Rivoluzione, alla difesa della Rivoluzione e alla sanguinosa lotta contro il nazifascismo, di una economia volta alla produzione di massa di merci «leggere», di consumo popolare?

Non vi furono, nell’URSS, grandi innovazioni sul campo economico. Uniche eccezioni di rilievo, i tentativi delle due riforme condotte da Aleksej Kosygin, che prima nel 1965 e poi nel 1973, tentò di dinamizzare l’economia sovietica a partire, soprattutto, dal superamento della burocratizzazione ministeriale dell’economia, attra- verso la costituzione di associazioni produttive a livello repubblicano e locale. Paradossalmente, una via che aumentava i poteri del Comitato di Pianificazione di Stato (il Gosplan) sottraendoli, appunto, ai gangli burocratici distanti dalla produzione. Le due riforme Kosygin, benché lontane dallo spirito della NEP e solo timidamente evocanti il ritorno a minimi meccanismi di mercato, furono insabbiate, pur non fallendo (si ricorda lo sviluppo produttivo imperioso delle automobili «Gorkii», a Leningrado). Il sistema anchilosato aveva «digerito» Kosygin.

Certo è che la cause della caduta dell’URSS non vanno solo ri- cercate nella stagnazione e nel mancato e pieno sviluppo delle forze produttive; la lunga sfida militare imperialista volta a dissanguare l’e- conomia sovietica sull’altare del riarmo; il possente e continuo aiuto internazionalista, di tipo materiale e diretto in ogni continente; i veri e propri tradimenti di Gorbaciov, la mancata vittoria, prima di lui, della linea Andropov, l’accidia dell’Armata Rossa, incapace di respingere il
«golpe» di El’cin: tutto ciò è stato decisivo. Tuttavia, la base materiale della resa e dello scioglimento dell’URSS non può che rintracciarsi, innanzitutto, sull’assenza – infine – di un’economia forte, di forze produttive in grado di sostenere lo scontro e preparare il futuro. Ed è questa un ulteriore lezione che, oggi, ci viene dallo sviluppo cinese: le basi materiali e lo sviluppo delle forze produttive garantisco anche il futuro del socialismo. Significativo, da questo punto di vista, è il rilan- cio, avvenuto al 19° Congresso del PC Cinese, dei valori politici e ide- ali del socialismo, del progetto rivoluzionario a breve e lungo termine. Noi riteniamo che il passaggio, in Cina, dalla Rivoluzione Cultu-
rale alle «Quattro Modernizzazioni» e poi al progetto compiuto di «so- cialismo dai caratteri cinesi» sia stato non solo necessario per la Repub- blica Popolare Cinese e per il popolo cinese (per tanta parte uscito dal- la miseria ed entrato nella modernità), ma anche per l’intero arco delle forze antimperialiste, anticolonialiste e comuniste del mondo, che dopo la scomparsa dell’URSS hanno ritrovato nella Cina dello sviluppo economico, e nei BRICS, una sponda potente e un punto di riferimen- to solido. Non è la questione o il desiderio di un nuovo «faro interna- zionale», del quale i partiti comunisti del mondo e le forze antimperialiste e rivoluzionarie non hanno bisogno: è la questione di un’accumu- lazione di forze materiali (e, dunque, dialetticamente, ideali) sul piano mondiale, capace di fronteggiare e far arretrare le forze imperialiste. La Rivoluzione Culturale cinese aveva fatto innamorare di sé anche la piccola borghesia occidentale di sinistra, molto e idealisticamen- te attratta dalla miseria e dal sacrificio del popolo cinese, «esempio» – per la piccola borghesia – di «una più alta vita». La Cina aveva invece bisogno di ergersi nel mondo attraverso quello che lo stesso Marx indi- viduava come il motore della Storia: lo sviluppo delle forze produttive. Le concezioni politiche e teoriche che vanno forgiandosi in Cina, in questa fase di impetuosa crescita, sono già e potranno ancor più essere – senza rapporti di subordinazione, ma con rapporti leali e crea- tivi – ricca materia teorica per altre esperienze di sviluppo socialista: il ruolo guida – nel progetto di sviluppo delle forze produttive – del Par- tito Comunista Cinese (ruolo guida che mutua la concezione leninista delle «alture strategiche»); il Partito Comunista come avanguardia del proletariato e della Nazione, in una visione della «totalità delle cose», della fase e del quadro sociale e politico, una pratica della totalità vol- ta a trainare tutto l’immenso Paese cinese verso il socialismo; l’unità transeunte tra Partito Comunista, proletariato e borghesia, nella fase storica in cui essa è funzionale allo sviluppo delle forze produttive ed esse alla transizione al socialismo; la sollecitazione strategica alla costruzione delle «aree speciali» neo capitaliste, aventi il compito di accelerare i processi di accumulazione della ricchezza generale al fine di altri investimenti sociali, tecnologici, scientifici; l’attenzione e la lotta del Partito contro le inevitabili aree di corruzione che si aprono (come si sono, peraltro, aperte anche nell’URSS priva di mercato) nel «socialismo di mercato»; la consapevolezza (che il Partito Comunista Cinese ha totalmente e lucidamente) delle inevitabili contraddizioni che la presenza, voluta dallo stesso progetto socialista di un neocapi- talismo interno, produce in termini di pulsione al potere politico da parte del potere economico accumulato dal neocapitalismo e, dunque, l’apertura di una lotta di classe sociale e politica che il Partito Comu- nista, dopo aver provocato, vuole e deve vincere.

La stessa «Teoria delle tre rappresentatività» (l’unità storica tra operai, contadini e intellettuali, che deve allargarsi alla cultura d’avanguardia e agli interessi di massa), appare un’innovazione funzionale alla fase di transizione cinese, una linea, peraltro, già praticata da altre espe- rienze rivoluzionarie e comuniste di altri Paesi e in altre fasi storiche. Negli odierni passaggi cruciali della politica cinese e nelle stesse scelte strategiche del Partito e del governo della Repubblica Popolare è confermata in toto la bontà marxista della centralità dello sviluppo delle forze produttive: nel Piano Quinquennale 2016 – 2020 (rilan- ciato dal 19° Congresso del PC Cinese) viene presentato un immenso progetto ambientalista, di sviluppo ecocompatibile che non ha pari al mondo e che solo avendo sviluppato precedentemente le forze produttive ora può concretizzarsi.

Sappiamo che l’imperialismo, specie quello nord americano, teme lo sviluppo cinese e ha gli occhi, e non solo gli occhi, puntati su Pechino: sarà nostro dovere di comunisti, di internazionalisti, stare dalla parte giusta, dalla parte della Repubblica Popolare e del Partito Comunista Cinese!

 

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